FYI.

This story is over 5 years old.

Stuff

Com'è avere il cancro a vent'anni

Cosa puoi fare quando un dottore ti dà una diagnosi che aspetti da settimane ma che non avresti mai voluto sentire? Lo ringrazi? Sarebbe stato strano. Così, me ne sono stato lì a sentire la vita che se ne andava dal mio corpo.
L'autore si rasa la testa dopo la chemioterapia.

"Diciamo che per certi versi il tuo caso è trattabile—anche se non usiamo mai il termine 'cura'," ha sospirato l'ematologo. "'Remissione' è un termine più appropriato."

Ed eccomi lì, ad ascoltare uno specialista blaterare di questioni semantiche mentre aspettavo solo che mi dicesse se stavo per morire o no. Ero un altro vincitore della lotteria del cancro, uno dei sette giovani a cui ogni giorno viene diagnosticato. Era il mio giorno. Quella che fino a quel momento era stata solo una statistica sulla parete della sala d'attesa del medico di base era diventata la mia realtà. La mia deludentissima realtà.

Pubblicità

Malattia potenzialmente mortale a parte, le cose mi stavano andando piuttosto bene. Per la prima volta avevo una relazione seria e, da studente francese in scambio quale ero, potevo dire di essermi ambientato senza problemi nella vita inglese.

Guardandomi indietro, penso che tutto ciò abbia reso la notizia un po' più difficile da digerire. Per la prima volta c'era una persona la cui felicità mi stava più a cuore della mia, e questo non faceva che aggravare l'ansia che già provavo. Avevo anche il sentore che le imminenti cure sarebbero state un ostacolo al mio stile di vita, alle feste in casa e al divertimento spensierato—di lì a qualche tempo mi sarei potuto ritrovare con un ago nel braccio o all'interno di una macchina che emette rumori sordi, dolorosamente consapevole della mia mortalità.

E pensare a come ci sono finito: per prima cosa un linfonodo ingrossato, il primo giorno d'estate. Poi, il medico di base che non riesce a capire che qualcosa non va. Per due volte.

A quel punto ho cercato di essere ragionevole e di farmi una auto-diagnosi su internet. Per una volta, quello che ho letto mi ha rassicurato: nove volte su dieci, dicevano gli sconosciuti senza volto dei forum, l'ingrossamento dei linfonodi è soltanto un sintomo di una infezione benigna. Comunque, giusto per mettermi il cuore in pace, ho deciso che sarei andato per l'ultima volta dal mio medico di base, per esser certo che Dottor Google non mi stesse prendendo in giro.

Pubblicità

Mi hanno fatto dei test per le infezioni, e un paio di settimane dopo una telefonata mi ha richiamato all'ospedale. I risultati erano negativi. Bisognava prendere in considerazione gli altri motivi, quelli seri. E per prendere in considerazione i motivi seri, è venuto fuori, dovevo passare molto tempo sotto anestesia/con una camicia da notte da ospedale che mi lasciava il sedere all'aria/a farmi staccare pezzi di tessuto.

Qualche settimana più tardi, dopo essere stato indirizzato a una specialista francese, mi hanno comunicato una cosa a cui forse non mi rassegnerò mai, nonostante l'idea mi tormentasse da un po'.

"Nel corso della biopsia abbiamo trovato delle cellule anomale. Sono presenti delle cellule di linfoma Non-Hodgkin. Ci sono molti diversi tipi di linfoma. Il tuo è il linfoma diffuso a grandi cellule B."

Nel disagio generale, la parola che inizia per C era stata saltata.

Avevo il cuore a mille. Non sapevo proprio cosa pensare, dire o fare. Perché cosa puoi fare quando un dottore ti dà una diagnosi che aspetti da settimane, ma che non avresti comunque mai voluto sentire? Lo ringrazi? Sarebbe stato strano. Invece, me ne sono stato lì a sentire la vita che se ne andava dal mio corpo.

Dopo aver annuito per un po', mentre lei mi rassicurava che il linfoma è il cancro per il quale disponiamo delle cure più efficaci, non potevo fare a meno di pensare che qualcuno mi stava punendo per qualcosa che andava al di là della mia comprensione. All'improvviso non riuscivo a immaginare un futuro, confuso com'ero davanti alla morte. Non avevo la minima idea di come dirlo ai miei amici e alla mia famiglia. L'idea di scaricare le mie ansie e le mie preoccupazioni su altri mi sembrava egoista, soprattutto nei confronti della mia ragazza. Ho persino pensato di lasciarla per risparmiarle mesi di sofferenze.

Pubblicità

Nelle settimane successive mi hanno sottoposto ad altri esami per scoprire a che stadio era il mio cancro. Una risonanza magnetica, la PET, test di fertilità e operazioni. Pur riuscendo a mantenere un'espressione coraggiosa davanti ai miei cari, ho passato notti dilaniato dal puro terrore, in fissa con la prospettiva di dover lasciare il mondo ora, così, con così poco preavviso.

Poi ho cominciato la chemioterapia. Non riuscivo a sopportare l'idea che mi cadessero i capelli. Insomma, chi è calvo a vent'anni? La cosa di cui avevo più paura era di sembrare John Travolta. Ho anche contemplato l'idea di farmi fare una parrucca. Mi sono disprezzato per la mia superficialità nel fare tali pensieri, ma avevo paura che la mia ragazza non mi avrebbe più trovato attraente. Temevo che perdere i capelli fosse quasi perdere la mia identità.

Una mattina mi sono svegliato ricoperto dai capelli che avevo perso durante la notte, così ho preso in prestito un rasoio e ho tagliato i pochi ciuffi rimasti. Mi sono abituato in fretta al nuovo look e ho messo da parte il cappellino che avevo tenuto incollato sulla testa, preoccupato che la calvizie potesse attirarmi la compassione dei miei coetanei. Era una questione di priorità: cosa conta perdere i capelli rispetto a perdere la vita? Per i pochi a cui avevo confermato la mia diagnosi, ero la vittima di un destino crudele; per gli altri, un ragazzo rasato. Magari un gabber o uno skinhead senza gli anfibioni, che non è così male. Accettavo entrambe le definizioni con una rassegnazione piena di sussiego.

Pubblicità

La cosa più devastante del mio cancro era che non c'era niente di concreto che potessi fare per combatterlo. Ci sono un sacco di teorie sul fatto che il succo di mirtillo rosso e mango ti salvi la vita, ma per quanto ci provassi, non potevo fare a meno di considerare l'ipotesi ottimistica ai limiti dell'inverosimile. Il cancro in sé non era troppo difficile da gestire, fisicamente. Avevo la nausea, come mi avevano anticipato, ma fortunatamente non vomitavo.

Anche l'attesa era incredibilmente stressante—anzitutto, quanto ci sarebbe voluto prima di sentire le parole "non hai più il cancro"; in secondo luogo, quanto avrei dovuto aspettare prima di riabbracciare i miei amici nel Regno Unito. Bloccandomi in Francia, il cancro aveva posto un ostacolo fisico tra me e gli amici che mi ero fatto. Mentre spendevano i loro soldi in attività ricreative, io spendevo cifre folli per l'affitto di una casa in cui non vivevo più e in gite di due giorni in Inghilterra—era il mio modo di combattere la malattia, di accertarmi che non mi stesse rovinando la vita.

Mi sentivo anche distaccato dal resto del mondo. Non riuscivo a trovare il modo di parlarne alla mia famiglia; ho provato ad aprirmi coi consulenti e con uno psicologo, ma avevo la chiarissima impressione che si sarebbero limitati ad annuire a qualunque cosa avessi detto; e non trovavo il modo di esprimere i miei sentimenti ai dottori. Come potevo aspettarmi di essere compreso da persone che avrebbero considerato ogni mia domanda una semplice banalità, facendomi sentire un idiota solo per aver chiesto?

Pubblicità

Gli specialisti sapevano tutto sul trattamento, la prognosi e la chemioterapia. Quello che loro non sapevano—o non volevano dirmi—è quanto solo ti senti, intrappolato nel tuo corpo senza un pelo; quante persone ti guarderanno con quella malcelata compassione; come, in fin dei conti, sei solo con le tue paure.

La maggior parte delle persone con una diagnosi di cancro a cui io ho parlato adotta una forma mentis simile: vogliono essere considerati persone normali, non povere anime sulla via della tomba. Che ha un sacco di senso a pensarci, perché quell'idea è alla base dell'idea sbagliata che il mondo ha sul cancro. La prima domanda che mi sentivo fare quando dicevo alle persone della mia malattia era se stavo bene—frase in codice per, "Stai per morire?"—come se fossi un condannato, come se avessi le parole "malato terminale" tatuate sulle palpebre.

Alla fine, dopo quattro sedute di chemio in un periodo di tre mesi e mezzo, mi è stata annunciata la remissione. Ero sopravvissuto al cancro e al tremendo cibo dell'ospedale. Un anno e mezzo dopo ero tornato alla mia vita normale, e, cosa più importante, alla mia ragazza, lontano dagli aghi e dai letti dell'ospedale e dai camici da esibizionista.

Comunque, prima che io possa essere dichiarato "guarito", devo ancora passare per check-up trimestrali per i prossimi tre anni e mezzo.

Oggi come oggi, la gente mi dice che sono stato forte e coraggioso ad aver combattuto il cancro a vent'anni. Immagino sia quello che ci si aspetta da loro, ma ancora mi confonde. Non sono stato coraggioso, quanto piuttosto fortunato ad avere chi mi è stato vicino per tutta la durata del processo. Fortunato perché potevo viaggiare quando ero malato, fortunato che la promessa di essere di nuovo con la ragazza che amo mi abbia tenuto su di morale. Fortunato che su di me la chemio abbia funzionato.

Pubblicità

Non sono sicuro che quello che ho fatto mi faccia guadagnare l'epiteto di "coraggioso", e mi fa sentire a disagio. Non sono mai stato—e probabilmente non sarò mai—coraggioso. Mi cagavo addosso dalla paura. Ero completamente terrorizzato. Ho fatto solo quello che credo che molti in una situazione simile avrebbero fatto: mi sono aggrappato alla speranza.

La domanda più grossa che mi frulla ora in testa è, "Come posso tornare a una vita normale?" Come posso affrontare il futuro quando ci sono sempre le possibilità di una ricomparsa? Come posso anche solo pensare a mettere su famiglia quando la chemioterapia ha quasi azzerato le mie possibilità di avere figli?

Immagino che, per me, il modo migliore di affrontare la cosa—di evitare che queste domande mi perseguitino—è scriverne. È molto più facile esprimere i miei sentimenti su una pagina scritta che a voce, e a parlarne in articoli come questo—lettere a me stesso, fondamentalmente—riesco a mettere le cose nella giusta prospettiva.

Ma ho ancora paura. Perché davvero, cos'altro si può fare a parte aspettare e vedere come si mettono le cose? Tutto quello che so è che sono grato di essere ancora vivo.

@RobinCannone