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Com'è lavorare nella macchina della propaganda cinese

Faccio il giornalista per un quotidiano di stato cinese, dove tra censura ed eufemismi il mio lavoro è piuttosto noioso. Ma per essere una grande macchina della propaganda, quella cinese non è un granché.

Ogni mattina, la mia giornata di lavoro comincia con una selezione di notizie. "Progressi per i diritti umani in Cina," è uno dei titoli più comuni. Altri titoli comuni sono "Portando la ricchezza in Tibet" o "Un passo in avanti per la democrazia cinese." Di solito seguono una feroce accusa al Giappone e qualche previsione economica ottimista.

Faccio il giornalista, ma non per The Onion. La testata per cui lavoro è uno dei pochi giornali in lingua straniera pubblicati sotto l'invadente direzione del Partito Comunista Cinese. Qui alla Morte Nera—il soprannome dato da un collega inglese all'edificio grigio in cemento armato dove lavoriamo, nella parte ovest di Pechino—io e una dozzina di altri "esperti di esteri" abbiamo il compito di raccontare al mondo dall'interno le realtà della Cina e la sua democrazia socialista.

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La Morte Nera è una piccola stella nel firmamento delle testate propagandistiche in lingua straniera. Il Partito Comunista controlla giornali, riviste, case editrici, siti internet, servizi via cavo, televisioni e stazioni radio. Alcune sono controllate direttamente dallo Stato, altro sono formalmente indipendenti ma finanziate dal governo. Danno lavoro a centinaia di stranieri, tra giornalisti, editor, intrattenitore e conduttori televisivi. Tutti condividono il dovere patriottico di diffondere la verità sulla Nuova Cina.

La mia carriera nella macchina della propaganda cinese è cominciata durante l'annuale corsa al rinnovo del permesso di lavoro. Mi ero già fatto qualche anno nel settore dell'insegnamento, quando mi sono imbattuto in un annuncio di lavoro nel campo della comunicazione. Lo stipendio non era un granché, ma almeno non avrei dovuto avere a che fare con dei bambini. Dopo aver fatto colpo sui direttori con le mie credenziali giornalistiche—ossia, due articoli pubblicati nel giornalino del liceo—e dopo un colloquio molto sbrigativo, mi sono stati dati un permesso di lavoro, una scrivania, un computer e una pila di biglietti da visita che mi identificavano come "Copy Editor/Reporter."

Reporter. Niente male.

Stavo seguendo le viscose orme di una lunga tradizione di ammiratori della Cina. A partire dagli anni Cinquanta, molti ammiratori caucasici del comunismo cinese avevano fondato giornali come quello in cui lavoro, per contrastare le menzogne delle testate capitaliste. Il paradiso era lì, ma i giornali borghesi dell'Occidente non ne avrebbero dato mai notizia. I giornalisti stranieri venivano portati a fare giri turistici costruiti per loro, che gli mostravano granai stracolmi e contadini felici. "Più raccolto con le cooperative," aveva annunciato trionfalmente nel 1958 il Peking Review, proprio alla vigilia della più grave carestia della storia cinese. Intanto, in When the Serfs Stood Up in Tibet Anna Louise Strong aveva raccontato la gioiosa liberazione di quel territorio.

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Oggi, il mio lavoro è molto meno eccitante. Gli "esperti di esteri" alla Morte Nera passano la maggior parte del loro tempo a editare e correggere articoli di giornalisti cinesi tradotti. Ogni tanto possiamo scrivere qualche pezzo di cultura o di musica, ma dobbiamo star lontano dalla politica. Purtroppo, è una situazione tutt'altro che orwelliana.

Ma ci sono anche un sacco di situazioni paradossali. Quando Mark Zuckerberg ha parlato in cinese mandarino in pubblico, la mia editor mi ha chiesto di scrivere un articolo su di lui. "Vorremmo che scrivessi qualcosa sulla carriera di Zuckerberg," ha detto. "Ma cerca di non parlare troppo di Facebook. Sai, qui è oscurato."

Dovevo anche essere politicamente corretto—un espressione che in Cina viene presa molto più alla lettera. In quanto espatriato, sapevo già che era meglio non pronunciare mai le quattro fatidiche parole proibite con la "t"—Taiwan, Tibet, piazza Tienanmen e la provincia a maggioranza musulmana del Turkestan, conosciuta come Xinjiang. Ma in quel caso, ho dovuto imparare un interno vocabolario di eufemismi. Il sistema politico cinese è una "democrazia consultativa"—ovvero, il governo chiede l'opinione del popolo prima di prendere le decisioni. Inoltre, non c'è il partito unico ma un "sistema multipartitico di cooperazione democratica." Esistono infatti altri partiti politici oltre a quello comunista, ma le loro attività si limitano a incoraggiarlo e a fornirgli consigli utili. Quando si parla di Taiwan, di usa l'espressione "Taiwan della Cina," e allo stesso modo il Tibet diventa "Tibet della Cina"—giusto nel caso ci siano dei dubbi su chi possiede quelle terre.

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Anche peggio degli eufemismi sono i cliché burocratici—tanto che il mio lavoro sembra la versione cinese di Impiegati… male! "Non ce la faccio più a sentire parole come innovazione e cooperazione di mutuo vantaggio," mi ha detto Alex*, che lavora per il Beijing Review (un tempo noto come Peking Review), uno dei primi giornali in inglese pubblicati in Cina. "A volte si usa la parola cooperazione quattro volte nella stessa frase."

Mi ricordo di aver letto, una volta, un articolo dolorosamente esplicato di tutto questo, che parlava di "un innovativo modello per le relazioni di potere tra Cina e Stati Uniti," una frase che veniva ripetuta tale e quale almeno una volta in ogni paragrafo. A ogni revisione la tagliavo senza pietà, solo per poi ritrovarmela in qualche altra forma nella stesura seguente. "È una frase modello," mi ha spiegato la mia editor. "Non possiamo cambiarla." Ecco cosa succede quando sono i funzionari governativi a decidere le norme editoriali.

Ho realizzato subito che molti di noi lavoravano con le dita incrociate dietro la schiena. "È solo propaganda," mi ha detto in tono sottomesso un collega cinese. Un collega americano è stato più brusco. "Di solito ogni volta che leggo un pezzo poi vado su Google a cercare di capire cosa è successo veramente."

Una volta ogni tanto, ci capita anche di assaporare il sapore della propaganda anni Cinquanta. Il Giappone è l'obiettivo preferito, ed è molto difficile che passi un mese senza che almeno in un articolo il Giappone non sia accusato di crimini di guerra. Ovviamente non mancano nemmeno le polemiche contro gli Stati Uniti che cercano di strappare Taiwan alla Cina e contro le Filippine che invadono il Mar Cinese Meridionale.

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Di solito queste accuse sono mosse in sordina, ad esempio quando qualcuno viene paragonato al Dalai Lama, che per le autorità cinesi è un insulto. Più di recente, la Cina ha usato le rivelazioni di Snowden per attaccare gli Stati Uniti, accusati—senza alcuna ironia—di violare i diritti umani.

Inoltre, i giri turistici organizzati per i giornalisti occidentali sono ancora in voga. A volte,dei colleghi stranieri vengono portati in visite guidate nelle province o in aree dove vivono minoranze etniche, per consentir loro di "raccontare" la felicità degli abitanti locali. La scorsa estate, ci hanno portati in un villaggio modello alla periferia di Pechino, costruito appositamente per questo scopo. Una volta arrivati, ci aspettavano un ottimo pranzo e un lungo sermone dei rappresentanti del villaggio. Non potevo non notare che, a parte il personale dell'albergo e i rappresentati del villaggio, sembrava che lì non vivesse nessuno.

Ho incontrato Richard* durante una di queste gite fuori porta. Lui lavora nell'editoria, scrive libri di testo per gli stranieri che studiano cinese all'estero. Anche chi studia la lingua, mi ha detto, viene indottrinato.

"Uno dei problemi principali è la propaganda," mi ha detto. "Infilano le loro rivendicazioni territoriali ovunque. Sanno che nessuno ci crederà, ma ce le infilano lo stesso e le inviano all'estero."

Buona parte del materiale che mi ha fatto vedere Richard era del tutto ridicolo. "C'è ancora questo nazionalismo senza senso, dalle origini mitologiche. Una volta ho corretto un capitolo in cui si diceva che i testi sacri del buddismo erano stati scritti in Cina." In un altro articolo, mi ha raccontato, si diceva che Piazza Tienanmen ha "una lunga storia come sede di manifestazioni pacifiche."

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Richard ha attribuito questa inerzia organizzativa a uno dei più noti limiti del comunismo. "Non ci sono incentivi," ha detto. "Qui non devi lavorare sodo. Per ogni persone che si fa il culo, ce ne sono quattro o cinque che non fanno niente. La maggior parte delle aziende qui sono in perdita, perché nessuno sa come si lavora. Abbiamo speso circa un milioni di dollari per organizzare un corso di formazione tecnologica—con attori professionisti, registi e tutto il resto. Adesso tutto il materiale sta prendendo polvere in magazzino perché nessuno ha voglia di pubblicizzarlo."

Ma non è solo colpa dei cinesi. "Alcuni dei lavoratori stranieri si fanno le canne in ufficio. Li ho visti andare fatti alle riunioni."

Io e Richard abbiamo preso l'abitudine di passare le nostre pause pranzo in un locale in stile europeo nel nostro palazzo. È stato lì che ho incontrato Alex e Chris*, che davanti a un caffè mi ha parlato del suo lavoro.

"Odio quando ci chiamano rifinitori linguistici," mi ha detto Chris. "Come se gli articoli ce li consegnassero finiti, e noi dovessimo solo di sistemarli un po'. Ogni tanto dobbiamo riscriverli per intero. Non è trucco, è chirurgia."

Al contrario di tutti noi, Chris sembra prendere il suo lavoro seriamente. "Non c'è niente di artistico," dice. "Non c'è stile. Non ci sono incentivi per migliorare nello scrivere."

Chris ha tenuto dei corsi per migliorare la capacità di scrittura dei suoi colleghi. "Lo so che facciamo tutti solo propaganda. Non possiamo cambiare i fatti, ma possiamo migliorare lo stile con cui sono riportati," ha detto. "I nostri lettori occidentali non credono a quello che scriviamo, cerchiamo almeno di non annoiarli."

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Ovviamente, in Cina la qualità del giornalismo è piuttosto bassa. "Abbiamo un problema con le fonti," ha detto Alex. "Non si usano citazioni, non si citano le fonti, niente. A volte si inventano le sensazioni degli intervistati. I nostri giornalisti scrivono, 'Era davvero commosso' o 'La folla era molto ispirata dal discorso.' Quando provo a dir loro qualcosa, mi rispondono 'Non capisco dove è il problema.' Mentre negli Stati Uniti ti licenziano se fai una cosa del genere."

E man mano che la Cina si trasforma sempre di più in un paese di smartphone e cappucini, la propaganda non si limita solo ai media tradizionali. I nostri capi sanno che, come tutti gli stranieri, anche i loro dipendenti occidentali usano i Virtual Private Network (VPN) per le necessità quotidiane come guardare i porno e usare Google. E non siamo gli unici che lo fanno.

Nel tentativo di rinnovare la sua immagine, il governo sta anche guardando ai social media—nonostante la grande censura, soprannominata "Grande Firewall Cinese," che rende inaccessibili le parti migliori di internet. Come un nonno che cerca di imparare a usare il computer, il Partito Comunista Cinese ha bisogno del nostro aiuto per usare Twitter e Facebook.

"È come se volessero tutti i benefici dei social ma non volessero le loro conseguenze," mi ha detto Alex. "Io scrivo i tweet della nostra rivista, ogni settimana. Ma invece di pubblicarli e basta, prima devo mandarli al web editor, che li passa al comitato per il Nord America."

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"Mi ci sono voluti un paio di giorni per capire che volevano usassi una VPN," ha continuato. "Si aspettano anche che promuoviamo la rivista sui nostri profili Facebook personali. Vogliono usarci per farsi pubblicità, ma non vogliono pagare i 60 dollari al mese che servono per poter usare una VPN."

E Alex non era l'unico in quella situazione. Anche a Richard era stato assegnato il compito di gestire il profilo Facebook della sua azienda. "Ho detto loro, 'Come faccio a usare Facebook?" Mi date i soldi per la VPN?' e loro mi hanno risposto di usare la mia personale."

Ovviamente, se pagassero ufficialmente una VPN i funzionari governativi cinesi perderebbero la faccia—vorrebbe dire ammettere che la censura esiste.

La situazione è diventata ancora più kafkiana lo scorso giugno, quando il governo ha celebrato l'anniversario di Piazza Tienanmen aggiungendo Google alla lista nera dei siti bloccati. Le operazioni quotidiane di molti uffici, incluso il mio, dipendono da Google: non soltanto per le ricerche, ma anche per Google Traslate (che funziona molto meglio dell'equivalente cinese Baidu) le email. Il giro di vite del governo su Google ci ha colti di sorpresa.

"Se questa situazione continua," ha sospirato il mio capo alla seconda settimana di Bing, "penso che saremo costretti a pagare per accedere a una VPN."

Era del tutto surreale—un'azienda statale era pronta a pagare per aggirare in modo illegale la censura statale. Parte di me sperava che la censura a Google continuasse, solo per vedere cosa sarebbe successo, ma deve essere stato troppo anche per la poco perspicace polizia postale cinese. Alla fine Google Traslate e altre funzioni sono state sbloccate, mentre la ricerca e Gmail rimangono inaccessibili.

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A ovest della Morte Nera, a Babaoshan, c'è la sede di China Radio International—la risposta cinese alla BBC. Fondata tra i bombardamenti e le distruzioni della Seconda guerra sino-giapponese—nota nel resto del mondo come Seconda guerra mondiale—la stazione radio è più antica della stessa Repubblica Popolare. Oggi i suoi studi trasmettono in decine di lingue.

Alan* lavorava nella sezione inglese. Al contrario di molti miei colleghi, lui può davvero definirsi un giornalista. Insieme ad altre 15 conduttori, ha il compito di trasmettere notizie sulla Cina, in inglese, per 24 ore al giorno—parlando a nome del governo con un perfetto accento inglese.

"Non mentono direttamente," mi ha confidato. "Non è quel tipo di propaganda in cui si cambiano proprio le notizie. Semplicemente, ci sono cose di cui non si può parlare."

"Durante la protesta degli ombrelli [di Hong Kong] io ero in redazione, e si stava discutendo di cosa coprire e cosa no," ha continuato. "Nessuno ha mai menzionato i dimostranti. La stessa cosa è successa per il venticinquesimo anniversario di Piazza Tienanmen—nessuno l'ha nemmeno nominata."

Gli ho chiesto cosa sarebbe successo se avesse proposto di parlare di questi argomenti. "Non mi avrebbero zittito," mi ha risposto. "Non avrebbero detto nemmeno, 'Non possiamo parlarne perché sono argomenti politicamente scomodi.' Mi avrebbero semplicemente ignorato. Mi avrebbero detto tipo, 'Ce ne siamo già occupati in passato,' oppure 'Non mi sembra una storia interessante."

In ogni caso, non possiamo lamentarci troppo. Qui alla Morte Nera, la vita è abbastanza facile, e la maggior parte di noi lavora allo stesso livello di efficenza per cui sono famosi i burocrati cinesi. Arriviamo in ufficio scandalosamente in ritardo (di solito tra le nove e mezza e le dieci), tra una pausa sigaretta e l'altra ci ritagliamo un po' di tempo per correggere qualche articolo e poi andiamo al bar per una pausa pranzo di due ore e mezza. Alle due torniamo in ufficio per studiare cinese, lavoriamo a qualche progetto come freelance e—se siamo stanchi—ci riposiamo guardando video su YouTube tramite le nostre VPN illegali.

Insomma, come si diceva una volta in Russia, "Loro fanno finta di pagarci e noi facciamo finta di lavorare."

Ogni volta che incontro dei colleghi stranieri, di solido ridiamo delle sciocchezze che facciamo stampare. Ci diciamo a vicenda che è tutta gavetta in vista di una carriera nel "giornalismo vero." A volte ci crediamo anche.

Certo, la propaganda esiste in tutti i paesi. Buona parte del mio tempo la passo a chiedermi se i media occidentali siano poi così meglio. Ogni tanto ho delle crisi di coscienza e mi chiedo se non debba sentirmi un po' male a lavorare in una gigantesca fabbrica di bugie a supporto di un regime autoritario. Ma almeno ho la soddisfazione di sapere che il prodotto finito è piuttosto scadente.

"Per essere una macchina della propaganda," mi ha detto Richard, "non sono neanche così bravi."

*Alcuni nomi all'interno dell'articolo, tra cui quello dell'autore, sono stati cambiati per proteggere l'identità dei personaggi, che lavorano tuttora in Cina.