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Musica

Manuel Agnelli a X-Factor non ci sorprende affatto

La notizia è oramai ufficiale. Per i fan è uno scandalo, per il cantante "una grande opportunità". A noi sembra solo l'ennesimo capitolo di una storia un po' triste.

Manuel Agnelli è il nuovo giudice di X-Factor. La notizia era già trapelata, ma ieri è stata confermata in maniera ufficiale. Ovviamente in tanti hanno sentito il bisogno di reagire e commentare. Per lo più gridando allo scandalo e alla "VERGOGNIA!!!1!!1!", ma c'è pure chi giustifica la cosa come una grossa oppportunità, che poi è lo stesso argomento usato da lui in prima persona. "È un'occasione per fare qualcosa di importante", ha detto. A me personalmente è venuto da ridere.

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Anzitutto perché Agnelli la scusa in assoluto più accreditata per qualsiasi gesto tacciabile di svendita: dai passaggi a major a, appunto, la collaborazione con un talent/reality show, in generale quando si inizia a collaborare con un'istituzione apparentemente antitetica al proprio percorso artistico, ma dotata di una grossissima cassa di risonanza. Poi perché finalmente tornava tutto: dai, non è tipo lo stesso ritornello che lui e la sua band provano a farci ascoltare da un sacco di tempo? Sta menata della grande opportunità di salvare la musica e con essa il mondo sta in bocca agli Afterhours da quasi vent'anni. Quello che abbiamo capito stavolta è solo che questa pretesa di resistenza può essere usata per giustificare praticamente qualsiasi cosa, e che sta unga battaglia in fondo gli è servita solo a restare in vita.

Del resto, gli Afterhours sono passati a una major praticamente due volte: una prima senza dirlo a nessuno, nel lontano 1997, attraverso la "finta indipendente" Mescal, e una seconda molto più ufficiale nel 2008, dopo lo stop di quest'ultima e il passaggio a Universal per I Milanesi Ammazzano Il Sabato. È invece da Padania che sono passati a una specie di autoproduzione col marchio Germi, facendo una specie di mossa alla Radiohead. Un avvicendamento e cambio di sponda che denota un rapporto quantomeno travagliato con il mercato, con la necessità di vendere dischi, ma anche con il bisogno esasperato di "fare cultura", nel senso fare sì che il proprio lavoro sia in qualche modo riconosciuto come tale.

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Come quasi tutti, infatti, la band milanese era partita dal nulla, da un'autoproduzione e un'autorganizzazione che, a metà degli anni Ottanta, implicavano una vera e necessaria attitudine a sbattersi. Poi appunto è arrivata la Mescal e sono arrivati gli anni Novanta, quelli in cui in tutto il mondo la "musica alternativa" fioriva e iniziava a fruttare qualche soldo, persino in Italia. I mezzi di comunicazione andavano espandendosi e si coltivava collettivamente l'illusione che in un paese si potesse generare un mercato discografico che era anzitutto libero e accessibile, e in secondo luogo una grossa industria culturale. Con il passare del decennio, non solo la musica alternativa ma un po' tutta la "cultura" alternativa si mise in testa la speranza che il rock, o meglio una forma di rock in qualche modo arty e "intelligente", stesse diventando mainstream. Era una roba che in realtà stava a metà tra l'underground vero e proprio e il pop, tra chi effettivamente si poneva il problema di costruire una alternativa alla cultura ufficiale e chi non si poneva questo problema. In questo limbo c'era per lo più chi si era scritto "vorrei un pensiero superficiale che renda la pelle splendida" sulla Smemoranda e aveva così risolto ogni tensione col mondo.

Non so bene quanto ci fosse di egoistico in tutto ciò. Probabilmente molto più di quanto credessero i protagonisti, ma personalmente potrei quasi capire qualcuno che, dopo più di un decennio di monetine centellinate, inizia a gasarsi perché la musica gli pagava uno stipendio. Il problema sono stati semmai i toni messianici con cui quella generazione (quella che oltre agli Afterhours comprendeva uno spettro molto ampio che andava dai Subsonica agli Scisma, dai Marlene Kuntz ai Massimo Volume, dai 99 Posse ai riluttanti Disciplinatha) si era convinta di stare facendo la rivoluzione. In fondo si trattava di gente che era passata dall'underground senza la pretesa di stare facendo controcultura, ma nel momento in cui il loro percorso poteva trasformarsi in cultura ufficiale li si è visti gonfiarsi di una specie di "impegno civile", trasportando alcune abitudini movimentistiche introiettate in anni di centri sociali dentro una prospettiva molto più mainstream.

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La musica ovviamente seguiva su binari molto simili: pur rimanendo essenzialmente rock, non si faceva scrupolo di prendere il necessario da certi ambienti più sperimentali oltre che dal cantautorato e dalle avanguardie del passato, mescolando la verbosità italiana alle aperture che, appunto, in quel momento si dimostravano possibili grazie al progresso tecnologico e al maggiore interesse generale per tutto quanto era "alternativo". Allo stesso tempo, si cercava un'accessibilità melodica che sintetizzasse la possibilità di essere musica "popolare", quindi compresa da tutti oltre che comprata da tutti. Album come Non È Per Sempre degli Afterhours, e Che Cosa Vedi? dei Marlene Kuntz ne sono esempi perfetti. Nel frattempo, quello che rimaneva dell'underground iniziava a soffrirne, perché si affermava sempre di più la concezione che si potesse usarlo come trampolino per il successo, e come miniera da cui estrarre e sfruttare il talento. Come era successo in America, il successo di alcune band creò una frattura insanabile.

Non a caso, quando al volgere del millennio e con l'avvento dell'mp3, il mercato discografico mondiale si trovò a non vendere più una mazza, e furono proprio le frange "alternative" del mercato ufficiale a farne le spese. Vedendo i loro sogni infranti, parallelamente a una cultura globale che insisteva a ripiegarsi sulla paranoia riciclata che abbiamo conosciuto negli ultimi quindici anni, quei non-più-ragazzi dovettero inventarsi qualcosa per "resistere". Agnelli, fortemente impanicato, nel 2001 si inventò Tora! Tora!, un festival itinerante che doveva essere il nostro Loollapalooza. Una roba che, nelle sue stesse parole, doveva "far uscire dalle cantine" la musica alternativa italiana, con una prima edizione che raggruppava solo le band più in vista, andando progressivamente ad ampliarsi.

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Quello fu il primo capitolo di una serie di tentativi di fare quadrato, di costituire un movimento compatto. È la stessa battaglia che oggi, almeno a parole, lo ha portato verso X-Factor. Quello che oggi sembra abbastanza strano, è la miopia con cui Agnelli non si rese conto che la fisiologia stessa del mainstream che li aveva dapprima accolti e li stava ora masticando e preparandosi a sputarli fuori, non gli avrebbe permesso di tornare a galla in maniera così forzata. Il gusto mainstream stava cambiando, il pubblico anche, e soprattutto le forze del mercato esercitavano un'energia contraria che al fronte "alternativo" sarebbe stato difficile combattere. I mutamenti estetici ed etici stavano anche portando definizioni nuove: la generazione del rock alternativo stava facendo posto a una che avremmo abbastanza impropriamente definito "indie".

Diciamocelo, poi: era troppo facile scambiare il Tora! Tora! per un'entità volta a decidere chi stava dentro e chi fuori. Agnelli in quegli anni appariva continuamente nei programmi televisivi notturni di MTV o in quelli di canali indipendenti come Match Music e Rock TV a discutere di rapporto tra musica, cultura e istituzioni in Italia, mostrando quella confusione di cui sopra: da una parte la professava disillusione e amarezza nei confronti dell'andazzo del paese, dall'altra tutti gli sforzi "movimentistici" di cui si faceva ambasciatore sembravano voler stare dentro il sistema a rivendicare qualcosa, pure se si era consapevoli di non avere più il peso sociale per farlo. Era come se, consapevole che la "musica alternativa" stesse perdendo il suo peso nel mercato, anziché cercare di solidificarla in un suo circuito autenticamente indipendente, si cercasse di farla stare a tutti i costi dentro il mainstream. Ovviamente un gioco del genere ha sempre finito per beneficiare solo chi aveva già i mezzi commerciali per stare un po' più a galla degli altri.

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Le repliche sono state essenzialmente due, tutte aggiornate ai cambiamenti generazionali dell'Italia indie. La prima fu Il Paese È Reale (2009), una compilation collettiva (dentro c'erano dagli Zu ai Marta Sui Tubi) e una serie di eventi, usati come giustificazione della loro partecipazione a Sanremo. La seconda Hai Paura Del Buio? del 2013, remake collettivo del loro classico album, supportato dalla defunta XL di Repubblica, a cui seguì l'ennesimo festival itinerante e multidisciplinare. Stavolta c'erano pure Antonio Rezza e Zerocalcare a dare una parvenza di eclettismo, e persino un "manifesto per far rinascere la cultura". Di replica in replica, però, l'idea di "movimento" si sfaldava sempre di più fino a rivelarsi palesemente per quello che era davvero: un tentativo di fare lobby e di raccogliere le briciole da parte di qualcuno che aveva annusato due lire e voleva tenersele. Per farlo occorreva restaurare una gerarchia nella quale Agnelli e gli Afterhours dovevano restare in cima a fare la figura dei gesucristi. Questo andava ovviamente di pari passo col distacco progressivo tra gli Afterhours e quello che stava succedendo DAVVERO nell'Italia musicale non emersa, che di certo non era ammessa alla loro corte se non tramite un paio di foglie di fico (tipo appunto gli Zu o gli OvO).

Più che "resistere" e dare battaglia culturale, queste iniziative sembravano tenere un atteggiamento ambiguo, a seconda di come convenisse metterla: collaborazione col mainstream e pesanti compromessi artistici, ma anche aperta polemica, senza che nessuna delle due mai davvero a trasformarsi in una presa di posizione netta. In entrambi i casi pareva che si volesse più che altro "rimproverare" al grande pubblico di non cagare più la "musica vera", come se agli Afterhours e alle altre band spettasse un riconoscimento del rilievo culturale che si erano auto-attribuiti. Anziché riconoscere che nella competitività pop non c'era posto per chi non segue certe grammatiche, l'atteggiamento di Agnelli è sempre stato quello di cercare di forzare le regole della competizione in modo che ci fosse posto anche per lui e i suoi amichetti. Perché quella che loro fanno e facevano è "Cultura", ed è legittimata proprio in quanto "Cultura", con la C maiuscola.

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Attenzione: non "controcultura", giammai, e nemmeno "cultura underground" quello vorrebbe dire stare fuori dal sistema e magati attaccarlo. Il paradosso di Agnelli consiste invece nel vendersi come artisti che non si piegano al linguaggio pop ufficiale ma che vogliono essere riconosciuti dal sistema come "veri artisti". In realtà la loro musica è decisamente lontana dall'autonomia artistica che predicano, ed è da anni un guazzabuglio consolatorio che sta attenta a non smuoversi da quello che piace alla loro fetta di pubblico, ma la band è anche talmente incapace di attirarne di nuovo, che l'unica cosa che ha potuto fare per rimanere rilevante a livello mainstream (e tirare su due lire per campare) è fare gli eroi della resistenza culturale. Le poche idee nuove che li hanno sfiorati, ovviamente, vengono puntualmente succhiate e mutuate dall'underground. Una roba alla Umberto Eco della musica pop, per capirci… Per non farsi mancare niente ci hanno messo anche qualche abbellimento "impegnato" (tipo posizioni contro la mafia) che desse quella bella idea di "Cultura che salva il mondo" così solo perché è Cultura e la Cultura è sempre buona. Questo tanto per giustificare ancora di più la propria auto-attribuita "importanza".

Insomma: Agnelli ha passato anni a lagnarsi di come l'industria non si preoccupasse del "paese reale", però pare proprio che questo paese non fosse sufficientemente reale per fare a meno dell'industria e comunque sopravvivere artisticamente. Questo comportamento, anziché permettere all'Italia underground di emergere, ha solo creato delle spaccature tra una parte dell'ambiente che sotto la maschera si comportava da elite e un'altra che ne era inevitabilmente lasciata fuori. Nell'anno di Hai Paura Del Buio Fest e delle dichiarazioni di Agnelli sul fatto che quel festival era una risposta al fatto che in Italia "non c'era più voglia di stare insieme", chiunque sul territorio si stesse sbattendo in maniera DIY con tantissima fotta di stare insieme, a un livello molto più reale dei carrozzoni da lui proposti, rispose facendo del cul trombetta. Avoja a spiegargli che un festivalino coi soliti noti promosso da XL non vuol dire confrontarsi con sto benedetto "paese reale". Pensate non lo sapesse? Sorvoliamo anche sul fatto che questa continua insistenza sull'italianità abbia chiuso innumerevoli porte in un periodo storico in cui internazionalizzarsi è sempre più facile.

Una delle cose di Agnelli che mi hanno sempre più snervato, comunque, è proprio il suo rapporto on le nuove generazioni. Ai tempi di "Sui Giovani D'Oggi Ci Scatarro Su", Manuel appariva schifato da chi stava nel mezzo, da chi frequentava la scena alternativa per mero passatempo. Successivamente non si è fatto mancare la possibilità di scatarrare ancora sulle generazioni dopo la sua, rimproverandogli di nuovo il posizionamento incerto tra mainstream e underground, che si traduce in una specie di "non avete avuto le palle". L'esempio più lampante sta alla fine del documentario sui Disciplinatha Questa Non È Un'Esercitazione: Agnelli fa una brevissima autocritica della sua generazione, ma soprattutto fa la paternale a quella successiva, che avrebbe "succhiato tutto il possibile dalle istituzioni" e che avrebbe reso l'ambiente indipendente "conservatore".

Dopo anni passati a barcamenarsi tra major, Sanremo e carovane varie al servizio del proprio fondo pensione, Agnelli la mena ai giovani, senza pensare a quanto tutti i compromessi operati negli anni dagli artisti "maggiori" come lui avevano invece impoverito la scena. Se prima c'erano le Major a generare un'aspra competizione per il successo, grazie ad Agnelli si è generato un sistema in cui sono gli artisti stessi a puntare i gomiti gli uni sugli altri per stare a galla, fottendosene se si stanno facendo annegare tutti gli altri. L'Italia indie post-Afterhours è una roba innocua, uno pseudo-cantautorato chiacchierone e melenso che si sbrodola addosso ma punta ad arraffare le briciole che cadono dal tavolo. Abbastanza simbolico è il fatto che, nella riedizione di Hai Paura Del Buio?, a suonare in "Sui Giovani D'Oggi Ci Scatarro Su" siano proprio i Ministri, band-simbolo dell'indie italiano paraculo, conservatore e innocuo degli anni Duemila. A questo punto, se loro si salvano, su chi dovremmo scatarrare?

Neanche sui giovani che partecipano ai talent, pare. Oggi ci ritroviamo con un nuovo singolo ("Il Mio Popolo Si Fa") che pare volere sgravare a tutti i costi col noise rock (tutta farina del sacco di Xabier Iriondo, probabilmente) e non sarebbe manco male non fosse per la voce scollegata e tronfia e il testo pieno di banalità "politiche". Nel frattempo Agnelli starà lì a promuovere il nuovo album e nel frattempo fare "qualcosa di importante", come se le dinamiche preimpostate dello show glielo permettessero davvero. Rimpiazzando Morgan e Elio nella veste macchiettistica di "strambo alternativo", dotato anche di più presunta e malriposta street credibility rispetto agli altri due. Come al solito, la favola è che avremmo tutti da guadagnarci, ma c'è davvero ancora qualcuno che ci crede? Nemmeno quelli che ci hanno creduto finora, i fan duri e puri degli Afterhours che hanno seguito tutte le loro pantomime sulla rifondazione culturale. Si sono trovati finalmente davanti al fatto che, per tutti e venti gli anni che ci separano da "1.9.9.6." i loro eroi abbiano passato tutto questo tempo ad annaspare, in maniera piuttosto volgare.

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