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Musica

Hurrah! per Tozzi

C'è stato un periodo in cui, preso dal successo di "Gloria!", Umberto provò pure a fare il new romantic. Ovviamente non gli andò particolarmente bene.

Giornalista: In effetti quel disco non era stato proprio un successo, vero Umberto? Sonorità e linguaggio musicale innovativi, ma meno adatti al tuo personaggio di certe canzoni del passato…

U.T : Non ci si deve mai fossilizzare su schemi fissi, soprattutto se ti hanno dato il successo. Per questo ho cercato collaboratori nuovi, altri studi di registrazione, diverse atmosfere. Non so se sia stato così negativo quell’album.
(intervista a Boy Music, 1984)

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Nelle scorse puntate abbiamo spesso analizzato le grandi difficoltà della nostra musica all’estero: tentativi falliti di sfondare, giganti dai piedi d’argilla, aborti annunciati ed altre amenità sono all’ordine del giorno per il povero musico italiano, che spesso si vede addirittura scippare intuizioni e lavori dai più quotati paesi industrializzati. Ebbene, molti pensano che la conquista del mondo sia riuscita praticamente solo a Domenico Modugno, che coi proventi di "Nel Blu Dipinto Di Blu" ha tipo dato da mangiare a generazioni di suoi consanguinei e fatto cantare cani e porci in ogni parte del globo. Beh, in realtà costoro si sbagliano: c’è un altro erede al trono, uno di noi che ce l’ha fatta. Ed il suo nome è—udite udite—Umberto Tozzi. Umberto in questo periodo sta portando in tour europeo il suo ultimo disco, che oramai risale al 2012, furbescamente composto da due CD: uno di inediti e uno di classiconi riarrangiati, così da avere la sicurezza di qualche copia venduta in più. Ma una volta era un mattatore che se ne infischiava di tali mezzucci, anzi: da vero pioniere, ibridava due mondi all’apparenza agli antipodi: l’underground e la musica italiana di massa.

Negli anni sessanta è infatti il chitarrista rock dei torinesi Off Sound, ma la vera storia di Tozzi inizia come stagista alla Numero Uno, l’etichetta di Mogol-Battisti, nella quale si farà le ossa come session man: è appena ventenne quando viene portato nella scuderia da Adriano Pappalardo, collega in una band di ben tredici elementi. Nel ‘73 , proprio per la Numero Uno, incide il suo primo 45 giri da solista e nel frattempo milita in due formazioni “oscure” del pop italiano: La Strana Società, meglio conosciuta per aver esportato in Italia l’epocale POP CORN di Gershon Kingsley, il primo pezzo synthpop mai inciso col Moog, coverizzato spesso—fra gli altri, da Aphex Twin. Purtroppo la Soceità abbandonerà quasi subito i synth per tornare a miti consigli. Dopo di loro, i DATA, gruppo a metà fra pop e prog, particolarmente ingenui a parte la copertina del loro unico disco in cui campeggia un occhio spappolato in una clessidra in pieno stile Bla Bla. Dopo questa parentesi si dà al mestiere di autore, sfornando successi minori e maggiori per Mia Martini, Dori Ghezzi, Ivano Fossati e Fausto Leali: una volta presa sicurezza del suo talento, è il momento magico del suo primo LP solista.

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In realtà Tozzi non ha alcuna velleità da frontman: porta i pezzi del suo futuro debutto a un discografico giusto per piazzarli ad altri suoi colleghi e, in effetti, non è per niente un animale da palco, a volte nei video risulta impacciato se non proprio inamidato. Però ha una voce strana, e quel rosso malpelo stile Bowie alieno potrebbe incuriosire, quindi il discografico gli propone di lanciare l’album da solo e gli presenta Giancarlo Bigazzi, che sarà il suo produttore/re mida. Il Bigazzi non è uomo qualunque: negli anni sessanta ha scritto delle hit micidiali fruttanti un pacco di soldi: "Lisa Dagli Occhi Blu" tanto per ricordarne una. Certo, tutte canzoni estremamente pop e zuccherate, ma dentro di lui cova anche l’interesse per l’eversione. È infatti molto prima di incontrare tozzi che fonda gli Squallor, che con la loro commistione di proto rock demenziale sboccato e situazionismo quasi Residentsiano, nel prendersi gioco dei generi musicali e del loro stesso mestiere (si trattava infatti di un dopolavoro di autori e discografici perennemente nascosti nell’ombra), rimarranno nel cuore di ogni anarcoide che si rispetti. Insomma a Bigazzi piace sperimentare e vede nel suo protetto un personaggio capace di rendere pop anche il laboratorio di un chimico.

Tozzi in effetti vuole usare la musica leggera italiana come un musicista di contemporanea le note dissonanti. Costruisce i suoi successi a tavolino, sperimentando formule che possano dare il massimo col minimo sforzo armonico: per ottenere questo rischia moltissimo, quindi il coraggio non gli manca. Narra la leggenda di una scommessa con Battisti : la sfida era dominare le classifiche con canzoni composte esclusivamente col giro di do, cosa che era riuscita solo a Gino Paoli, con l’unica differenza che Paoli probabilmente non l’aveva fatto apposta. Ecco quindi, dopo un po’, la famosissima e per alcuni versi terribile "Ti Amo": successo totale. Non pago, ecco che l’anno dopo caccia fuori l’ennesimo brano in giro di do, "Tu" e la classifica italiana parla ancora chiaro, scommessa vinta. Ora però le cose si fanno più complicate: Battisti ha deciso di superarlo in curva componendo solo hit di due-accordi-due, e coll’avvento del punk sta tornando prepotentemente di moda il rock'n'roll coi chitarroni. Tozzi in qualche modo deve dimostrare che sa il fatto suo e che non è una meteora da hit usa e getta, la sua sperimentazione di pop minimale un pizzico paracula è ai ferri corti.

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E allora, magicamente, il nostro (che nel quotidiano non era avvezzo a ascolti facili) se ne esce con un pestone mezzo rock, mezzo sintetico, mezzo disco, facendosi aiutare da produttori californiani come Greg Mathieson (collaboratore di Donna Summer). Ecco "Gloria": colonna sonora del 1979, ebbe un successo strepitoso superiore ad ogni aspettativa. Sicuramente nel tentativo di superare il Maestro, anche Tozzi confeziona un singolo pop la cui colonna portante sono due-accordi-due, mentre per il resto si è in odor di post punk ipnotico e alla fine irresistibile, quasi diabolico. Pare che persino Von Karajan all’epoca interrompesse le interviste per ascoltare "Gloria" alla radio: diceria o meno, la cosa sembra dare a Tozzi una certa ufficialità, tanto che per un po’gode di rendita. L’ultimo guizzo in materia di singoli infatti è negli ‘80: “Stella Stai”, capolavoro disco punk con un incredibile testo in italiano camuffato che suona perfettamente anglofono se non meglio, ma certamente non basta: serve una svolta decisiva.

E la svolta arriva con quella che chiameremo della “trilogia trasgressiva”, che più avanti gli costerà letteralmente il culo. Siamo nel 1981, Tozzi comprende che è ora di gettare la maschera e di mostrare gli ascolti a lui più cari, ovverosia le sonorità dei Visage, del new romantic, della minimal wave, quindi di quell’ibridone fra melodia e suonazzi sintetici che, in virtù del romanticismo innato, forse poteva funzionare anche in italiano. Ragion per cui se ne esce con un disco anomalo per la sua produzione: Notte Rosa. Già dal nome fa presagire momenti fluorescenti e situazioni estreme, e così è per la title track in cui si accenna a “respirare aria che mi sbronza”, con schitarrate ruggenti e andazzi acidi.

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Fra flangeroni svolazzanti e synthoni Roland piazzati come si deve, Tozzi sembra riprendere di peso spunto dai nuovi wavers dell’ epoca, con predilezione per Duran Duran e Units (evidente l’intro di "Barbara", che praticamente è uguale a "Planet Earth")

Poi sì, in mezzo ci butta una serie di ballate a caso, ma le situazioni erotiche speedwave tipo “Superlady” o “Amantenova” hanno la meglio, con testi che incitano alla trasgressione mai scritti prima dal nostro. Insomma, qui si sente che i promiscui club stranieri sono entrati di prepotenza nel suo immaginario, sfondando letteralmente la porta.

Notare anche l’uso del falsetto, da lui usato per la prima volta in maniera transgender : farebbe felice Antony Hegarty, ma siamo nel 1982 e ancora la voce bianca non è stata sdoganata del tutto nel pop (a parte i Bee Gees e Sylvester ovviamente, che però erano principalmente disco).

Non contento di questo, nel 1982 decide di andare fino in fondo e pubblica Eva, a tutt’oggi il suo disco più sperimentale. A parte testi al limite del nonsense criptico, le musiche sono un coacervo di synth malevoli, drum machine e fumi sintetici. Basti pensare all’epica “Con La Testa Sui Binari”, racconto di un suicidio cruento e riuscito, che praticamente sono i Chrome se fossero nati in Italia. Trattasi invece di una micidiale miscela di session man, fra i quali il solito Aldo (baffo) Banfi alle tastiere, Walter Calloni (già PFM e Decibel), Lucio Fabbri che già aveva prestato il suo violino ai Krisma di Hibernation un paio di anni prima e anche Franco Bernardi, che presta il basso a Celentano per il suo coevo periodo disco (Uh…Uh in particolare). E chiaramente, lo stesso Tozzi in preda a un polistrumentismo compulsivo. D’altronde è tutto registrato “in casa”, con piglio pre-DIY senza trucco e senza inganno e anche questa volta l’album è più importante dei singoli estratti.

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Altro pezzo da novanta è “Himalaya” , dove con una lallazione delirante e dadaista ci si prende gioco dei giornalisti a caccia di scoop usando la metafora dello yeti, sotto una pressione synth wave micidiale. Assenza totale di chitarre, tanto per far capire che si cambia storia. Xander Harris avrebbe da imparare.

C’è grande spazio per i temi controversi, tipo la droga: con "Faccia d’angelo" si tocca un picco di credibilità che Bigazzi non ha mai più raggiunto neanche con l’apparentemente drammatica "Perché Lo Fai" (a parte "Self Control" che però è in inglese), visto che qui chi si droga dice chiaramente perché lo fa : “dammene un po’ dei tuoi spiccioli, che ho bisogno di sognare anch’io”. Tutto un chincagliere alla Classic Noveaux con tanto di voce epica e pestoni di basso in ottave, mancano solo i ciuffi meshati.

Poi c’è il trittico “Chiuso"/"Disprezzo"/"Pose” che come potete capire è tutt’altro che rassicurante, almeno per i testi esistenzialisti quanto basta. Bassi gonfiati dal chorus, slapponi stile Gang Of Four, ritmiche serrate, sintetizzatori artificiali e mal di testa assortiti. "Quanto ho bevuto ieri sera !.. che ore sono chi lo sa, la testa da che parte gira, fermala!

Gli unici brani un po’ rilassati e normalizzati sono "Lo Stare Insieme" e "Isola Nel Sole", l’uno a cercare la tipica morbidezza romantica italiota e l’altra verso un evidente drugapulco ante litteram, tutto palme, sole, vacanze e rifiuto della civiltà. "Mama" invece è un semplicissimo loop infinito, con un occhio alle produzioni black oriented a la Madonna/Chic e uno a Patti Smith .

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La title track è un lentone cupo, che tratta i temi della devastazione atomica pensando all’amore come unica via di fuga, come uno scudo spaziale in reazione ai mali del mondo, o meglio come “un uovo d’eternità”. Una canzone d’amore postatomica quindi, ma che per il testo esplicito verrà accolta tiepidamente dal pubblico italiano che all’epoca preferiva lo stesso argomento in chiave "Vamos A La Playa”.

L’album, per scelta stessa di Tozzi, non presenzierà al Festivalbar, non parteciperà a Vota La Voce, non sarà portato in tour ponendo il disco in una posizione di rottura totale con il mondo discografico. Visto il prevedibile calo di popolarità, Tozzi decide, non si sa se spontaneamente o meno, di rimanere in standby per un po’. Nel frattempo in America si accorgono di lui, Laura Branigan sceglie "Gloria" come singolo di punta del nuovo album: morale della favola, il pezzo sarà inserito nella colonna sonora di Flashdance diventando un’hit mondiale praticamente eterna. Soldi a palate e momenti appunto, di gloria: Tozzi in qualche modo sembra scosso dall’avvenimento, è letteralmente preso in contropiede. Mentre si gode il successo pubblica un 45 giri che va benissimo nell’estate 1983, “Nell’Aria C’è”, che prosegue nella direzione elettronico-romantica ma a BPM accellerati verso-guarda un po’- Moroder; però è un po’ troppo leggerino, e la critica storce il naso.

L’america continua a bussare alla porta: dopo il successone di "Gloria", il duo Tozzi/Bigazzi ci riprova con la succitata “Mama”, ancora una volta affidata alla Branigan: ma tutto si trasforma alla velocità di un soffio, sta crescendo l’italo-disco come fenomeno di massa. Bigazzi non perde tempo e trova un altro pupillo adatto alla situazione, tale Raf: viene dal punk (precisamente dai Cafè Caracas, band stile Jam che condivideva con Ghigo Renzulli prima che fondasse i Litfiba) e con la sua “Self Control”, poi affidata proprio a Laura Braniganc che la porterà al numero 2 negli stati uniti, sta trovando una popolarità internazionale non da poco. Raf è la conferma che le intuizioni di Tozzi sono esatte: si può trovare la via italiana alla new wave, basta avere i collaboratori giusti. In questo caso, addirittura Steve Piccolo dei Lounge Lizards che firma i testi, mica uno della parrocchietta. Bigazzi a questo punto tenta di nuovo la carta Tozzi e fa cantare la classica “Ti amo” in inglese alla Branigan: sbancano le classifiche Canadesi, ma l’America sembra accorgersi che è roba riciclata. Tozzi sente in cuor suo che deve dare delle nuove conferme, soprattutto a se stesso.

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Finalmente nel 1984 esce Hurrah!, Che già dal titolo e dalla copertina indica un Tozzi ingarellato a causa della fama. Un giocatore di football americano fa punto e esulta, metafora non tanto velata (ma anche piuttosto adolescenziale) del successo ottenuto in America, e il disco è appunto studiato per essere un’americanata bella e buona. Il singolo omonimo è la sola canzone nella storia di Tozzi ad avere un altissimo tasso di BPM, con un testo che narra un avventura marinaia srotolando una sintassi praticamente incomprensibile, suoni elettronici e arpeggiatori da "Never Ending Story", dritti a sfidare Moroder nel suo stesso campo. Nella sua bestiale idiozia elettronica (nel senso buono ovviamente) può essere la risposta mainstream agli Stupid Set, soprattutto per l’autoplagio di "Gloria" nel ritornello. Forse per andare sul sicuro nel mercato estero? Si, ma gli americani mica suonano “o manduline” , non abboccano all’amo "ritornello giro di do/ armonia che vince non si cambia": il risultato è che la versione inglese col testo dell’immancabile Steve Piccolo non diventerà la nuova Self Control. E il video poi non aiuta di certo, essendo una weirdata colossale (anche se anticiperà certi prodotti di metà anni ottanta accolti diversamente). C’è Tozzi vestito tipo Corto Maltese infilato in un fumettone girato col culo. Un peccato perché il brano è sicuramente un esempio di dance elettronica estrema e infarcita di speed che in Italia ha pochi epigoni.

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L’album non ha fortuna migliore, forse perché Tozzi non si decide a prendere una posizione netta fra pop e sperimentazione. Fatto sta che ci sono un paio di perle tipo "Non Ho Che Te" dal testo siderale e futuristico, sembra scritto da un internauta di oggi con orchestrazioni tra i Beach Boys, Aphex Twin sinfonico e le orchestrazioni dei Cure di "Kiss me…" ben quattro anni prima.

Poi abbiamo "Maria no", testo politico ma criptico con massicce dosi di Synthbass e tempi dispari alla Oldfield, "Fuga in sogno" che cmq ritorna sul binomio Thomas Dolby/Moroder. Il resto purtroppo verrà ripreso (male) dalla Pausini, con i suoi svolazzi melodici furbescamente strappalacrime.

In pratica Tozzi si dà da solo quel pizzicotto che lo ridimensionerà definitivamente, svegliandolo dal sogno americano, e decide da questo momento di pensare solo alla famiglia. Fino al 1987, quando con Ruggeri e Morandi (terzetto improponibile nato durante le partite della nazionale cantanti) vincerà Sanremo con “Si Può Dare Di Più”, con quel testo senza senso scritto proprio da Raf che nel frattempo stoppa anche lui probabilmente per disintossicarsi dalla non tanto subliminale "Self Control". Da allora Umberto terrà botta fino ai primi Novanta, quando arriverà Masini a spodestarlo dalle grazie di Bigazzi e tutto finirà in litigio. Mai divorzio sarà più grave: oggi Bigazzi è in paradiso, Umberto invece si ritrova Gloria nel "Wolf Of Wall Street" di Scorsese e ne approfitta per partire in tour, campando di rendita. Oramai affrancato da ogni velleità sperimentale, l’unica cosa che non abbandona mai è il rock, pur edulcorato alla Ligabue: in cuor suo sa perfettamente che “lo stomaco vuoto fa parte del mito dell’artista /basta che/ l’appetito non diventi invito a non sperare più”.

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