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Musica

Allora, questo nuovo disco degli Avalanches è bello o brutto?

Dopo 16 anni di attesa Wildflower è finalmente uscito: è all'altezza delle aspettative?

"Quando ti spiegano un trucco di magia, è davvero deprimente". A pronunciare questa frase è stato Thomas Bangalter dei Daft Punk in un'intervista con Ryan Dombal di Pitchfork del 2013, ed è una frase a cui ho pensato molto ascoltando il nuovo LP degli Avalanches, il primo dopo 16 anni di silenzio, Wildflower. Questi anni Dieci hanno visto molti personaggi percepiti come eremiti o ritirati a vita privata, come Kevin Shields dei My Bloody Valentine, Jeff Mangum dei Neutral Milk Hotel e D'Angelo, riemergere dalle caverne in cui si erano nascosti. Ora possiamo aggiungere alla lista gli Avalanches, un collettivo australiano di DJ/producer il cui silenzio quasi totale dopo il debutto del 2001 Since I Left You ha conferito un'aura mitica alla loro prolungata assenza.

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L'arrivo di Wildflower manda in frantumi quell'aura, e non solo in virtù della sua esistenza. Le interviste con i membri rimasti nel gruppo, Robbie Chater e Tony DiBlasi, hanno rivelato una serie di motivi per cui c'è voluto così tanto tempo per dare un seguito a Since I Left You—una malattia autoimmune, semplici problemi di autorizzazioni, collaboratori che se ne vanno, il tanto decantato perfezionismo, e il fatto che non si sono mai messi seriamente a lavorarci prima del 2011. Per tutti quelli che si sono bevuti tutte le congetture da message board e le voci di corridoio—come me ad esempio—la verità è finita per essere, be', non molto sorprendente.

La sorpresa era stato un elemento chiave per il successo di Since I Left You, un album ricco di dettagli che, dopo infiniti ascolti e quasi due decenni, mantiene ancora l'abilità di far alzare la testa all'ascoltatore ed esclamare "wow!". È più facile descrivere le parti mobili dell'album—un casino di sample tagliati e cuciti alla vecchia maniera, frutto di faticose ricerche in negozi di dischi polverosi e degli avanzamenti tecnologici dell'Anno Duemila—tanto per contestualizzarlo. Rinchiudere Since I Left You in un genere è come cercare di descrivere il sapore di un colore: è una questione soggettiva che, se ci dedichi il tempo di cui ha bisogno, finirà per lasciarti totalmente esausto per la sua impossibilità.

Dall'altro lato, è molto facile descrivere il suono di Wildflower. Il secondo LP degli Avalanches è un diario di viaggio bucolico con una soffice aura psichedelica, che prende esplicitamente la forma di tre diverse epoche della psichedelia: il vorticoso guitar pop anni Sessanta, l'attitudine giocherellona e provocatoria del Prince Paul di tardi anni Ottanta e primi Novanta, e il nebuloso retro-indie stilizzato nei tardi anni Novanta dal collettivo Elephant Six. Since I Left You prendeva un polpettone di sonorità più antiche—da Madonna ai confini vellutati e kitsch della musica lounge—per arrivare a un risultato poco familiare; Wildflower prende vecchie sonorità e le trasforma in un album che dà la stessa sensazione di guardare American Graffiti su una TV in alta definizione. È vitale ed estremamente nitido, ma pur sempre vecchio. Suonare "vecchi" non è per forza una brutta cosa, certo—ma messo a confronto con lo spirito ancora fresco di Since I Left You, Wildflower non può non suonare come il racconto di un vago ricordo.

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Sono tante le variazioni sul tema del passato che attraversano il campo paisley di Wildflower. A fianco di artisti contemporanei come Josh Tilman (Father John Misty), Chaz Bundick dei Toro Y Moi (la cui "If I Was A Folkstar" è uno dei punti più alti e sottovalutati dell'album) e Danny Brown, molti dei contributi a Wildflower si devono a sopravvissuti, seppur ancora attivi, di epoche musicali passate (Biz Markie, Camp Lo, Jonathan Donahue dei Mercury Rev) o a cantastorie nostalgici veri e propri (Jennifer Herrema dei Royal Trux, Ariel Pink).

La presenza di voci è forse l'unico aspetto "nuovo" di Wildflower, e non sono sicuro che sia un cambiamento positivo. Una parte di ciò che rende riuscita la formula sampledelica degli Avalanches è la maniera in cui certi sample saltano fuori dal mix come in un libro pop-up; uno degli esempi più evidenti di questo fenomeno sta proprio nel centro esatto del singolo "Subways", quando il ritornello contagioso di "Sang and Dance" dei Bar-Kays viene lanciato nella mischia con grande stile. Con alcune eccezioni, nessuno dei cantanti ospiti di Wildflower suona male, in sé—ma non aggiungono nulla se non ulteriore rumore, dando per la prima volta nella breve discografia degli Avalanches una sensazione claustrofobica piuttosto che ariosa.

Riguardo alle eccezioni sopramenzionate: gli Avalanches hanno già incorporato l'hip-hop nel loro sound—il genere è in pratica il basamento del turntablism, un movimento estetico focalizzato sulla pratica dello scratch a cui la band viene spesso (anche se discutibilmente) collegata. Ma le esplorazioni dell'hip-hop puro di Wildflower non impressionano, anzi, sono più di disturbo all'interno di un album che per lo più e positivamente viaggia su una lunghezza d'onda di piacevolezza senza pretese.

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"Frank Sinatra", con la partecipazione di Danny Brown, è un fastidioso inno da parata che sembra uscito direttamente dall'epoca Big Beat di metà anni Novanta (il fatto che sia stata pubblicata come singolo di lancio ha dato da subito l'impressione che il disco sarebbe stato molto peggiore di quanto in effetti sia); l'arroganza a tema cibo di Biz Markie in “The Noisy Eater” non ha un effetto molto migliore, un maldestro passo falso a metà album che ricorda il tremendo incidente di “Mashin’ on the Motorway” sul disco di DJ Shadow del 2002 The Private Press. Nonostante tutti i richiami passatisti di Wildflower, The Private Press è forse il suo vero album gemello: entrambi sono attesissimi seguiti di un debutto che ha raggiunto lo status di classico, entrambi a base di sample ma con l'inclusione di parti vocali effettate.

The Private Press non è un brutto album, ma non riesco a immaginarmi a scegliere di ascoltare quello invece di Entroducing…, e per quanto io abbia atteso con ansia il ritorno degli Avalanches, non so quante volte ascolterò Wildflower. È un bel disco, arrangiato in maniera impeccabile e che raggiunge alcuni picchi incredibili—"Folkstar", "Subways" e un esperimento verso la fine che flirta brevemente con il drone di Boards of Canada—ma trovo sempre più difficile esaltarmi con la sua relativa inoffensività paragonato a Since I Left You.

Ed è in questo contesto che un disco come Wildflower—un disco attesissimo coperto per anni da un alone di mistero che segue uno degli album più strabilianti del secolo—non ha mai avuto una possibilità. Il peso delle aspettative ha schiacciando band molto peggiori, e alla luce di questo è già un evento che Wildflower non sia il totale disastro che avrebbe potuto essere. Forse la lezione da imparare dal ritorno piacevole, rilassante e relativamente banale degli Avalanches è che dovremmo tutti controllare meglio le nostre aspettative: dopotutto, è comunque stupefacente vedere un mago che fa lo stesso trucco due volte, ma sarebbe ingiusto aspettarsi di rimanere ugualmente stupiti.

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