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Musica

Abbiamo ascoltato in anteprima il nuovo album di Justin Bieber

È pieno di Dio e hit pazzesche.

La musica pop di merda di solito cerca di copiare i successi del passato, senza riuscire a replicarne la magia. La musica pop fatta bene tende a prendere in prestito le caratteristiche dell'underground, rubacchiando artisti e idee per riproporle al mondo esterno: Madonna ha preso il voguing, le boyband anni Novanta erano fortemente influenzate dalla produzione R&B contemporanea, Beyonce ha plagiato "Pon De Floor" di Major Lazer, Rihanna e Drake hanno coverizzato "Take Care" di Jamie XX e DJ Mustard è passato dal produrre il rap West Coast a Tinashe e Jessie J. E potrei continuare all'infinito.

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Confezionare un album per Bieber al giorno d'oggi è un lavoro dedicato, per cui è facile notare l'approccio adottato per Purpose. In passato si è affidato ai producer più in voga per sapere che cosa piace ai più giovani. Ma qui è evidente il tentativo di creare un Bieber sound, ed è un tentativo riuscito. Certo, ci sono influenze di tutto rispetto: Skrillex, che ha prodotto una manciata di tracce, si fa sentire con i suoi cavalli di battaglia, beat in crescendo e strane percussioni esoteriche. Ma non finisce mai per diventare un semplice copia-incolla del suono-Skrillex, tutto si appoggia su una nuova palette propria di Biebs.

Nella traccia d'apertura "Mark My Words" si sente l'influenza di James Blake, con la voce modificata e un morbido piano elettrico che crea un'atmosfera di disperazione tipo "perché lei non si fida di me?". "I'll Show You" fa più di un riferimento a "Marvin's Room" di Drake, con un Bieber introspettivo davanti a un muro di campioni vocali pitchati e dolenti percussioni trap. A proposito di dolenti percussioni trap, anche l'influenza di Future è molto importante qui, soprattutto nella favolosa "No Sense", prodotta da Travis Scott, immagino dopo cento ascolti ripetuti di DS2.

Ma Bieber ha unito a queste influenze altri elementi meno comuni, imbattendosi in qualcosa che fa spiccare questo disco sugli altri. Le percussioni trap non si limitano a seguire il tempo come farebbero in un pezzo di Migos, anzi, sono come sparse sui lati del beat, entrando e uscendo come coltellate. Le voci pitchate non suonano come una produzione di qualche anno fa fuori tempo massimo, anzi, sono usate discretamente come eco o backing vocals, facendo l'effetto di demoni seminascosti. E Bieber ha rovistato l'armadio in cerca di strumenti insoliti da inserire ovunque potesse e, insieme ai chiacchierati flauti di pan, ci sono anche una tromba e un assolo a bocca chiusa.

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Questo significa che il disco ha un suo suono ben distinto, un suono per cui molti produttori, tanto underground quanto pop, sarebbero capaci di uccidere. A differenza della gran parte dei dischi ultra commerciali degli ultimi anni, che tendono a essere scritti da centinaia di persone che lavorano a tracce diverse con alcuni piccoli identificatori sonici per dare un'impressione d'integrità all'album, Bieber si è affidato a uno spettro di suoni relativamente ristretto, anche se ci sono circa cinque produttori principali. Addirittura certi ritmi, tipo un certo beat un po' dancehall, si ripetono in diverse tracce. Checché se ne dica, questo è un album vero, coeso, e va giudicato come tale.

E questo ci porta all'unica domanda che probabilmente vi interessa. Ci sono altri bangeroni incredibili come "What Do You Mean" e "Where Are Ü Now"? Dopo due ascolti, mi sento di dire di no, ma "Children" ci arriva vicina. Si tratta di un altro pezzo prodotto da Skrillex e suona come una versione gabba di "Earth Song" di Michael Jackson, che inizia con uno strano synth fuori tempo, click e battimani riverberati, mentre Bieber ulula in una cascata di riverbero "What about the children, what about the children, can I change". Da lì si passa a un'assurda roba da rave anni Novanta a 150BPM, come tornare al Number One dopo la seconda pasta, prima di ri-immergersi nel riverbero, con voci velocizzate al contrario che ci galleggiano attorno.

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L'altra grande traccia a spiccare ha debuttato in questi giorni su Beats 1 e si chiama "Love Yourself", scritta e prodotta insieme a Ed Sheeran. È un classico senza tempo, oltre a trattarsi della canzone pop più crudele a memoria d'uomo. È una canzone di separazione, ma invece del solito "Mi manchi ma non possiamo più stare assieme" o anche "Con te sono migliore", il messaggio di base della canzone è questo: "Non pensare nemmeno per un secondo che la nostra rottura abbia anche minimamente a che fare con me. Sei un cazzo di incubo e, tra l'altro, tutti ti odiano."

In "Love Yourself" (un eufemismo per "Fuck Yourself") compaiono parole che non pronuncerebbe nemmeno il peggior stronzo del mondo. Comincia così: "For all the times you rain on my parade, and all the clubs you get in using my name, you think you broke my heart oh girl for goodness sake" ("Con tutte le volte che mi hai rotto le uova nel paniere, e con tutti i locali in cui entri usando il mio nome, pensi di avermi spezzato il cuore? Ma non farmi ridere"). A volte usa un misto di odio e umiliazione come lancia per trafiggere il cuore di questa poveraccia: “I didn’t want to write a song, cause I didn’t want anyone thinking I still care, I don’t but you still hit my phone up” ("Non volevo scrivere una canzone, perché non volevo che la gente pensasse che mi interessa ancora, e non è così, ma tu continui a chiamarmi"). Se un partner vi incula per davvero, nel senso che si scopa tutti i vostri migliori amici e vi manda le foto o robe così, questa è la canzone che dovete sparare a tutto volume mentre state in mezzo alla strada in procinto di frantumare i fanali della macchina di suo padre.

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A dir la verità, il fatto che Bieber sia un po' uno stronzo è l'altro grande tema dell'album. Non c'è dubbio che gli autori delle canzoni abbiano ricevuto delle indicazioni. È facile sottostimare quanto siano stati folli gli ultimi anni per Bieber, in cui è passato da teen idol e simbolo d'innocenza alla guida in stato d'ebbrezza, ai commenti razzisti, agli arresti e poi, nell'ultimo anno, risalire con le due più grandi hit della sua vita. Non ci sorprende quindi che le indicazioni parlassero di rimorso e redenzione, il che ha reso più di metà delle canzoni un qualche tipo di scusa. Ma come un ragazzino cattivo che non vuole chiedere scusa, la maggior parte delle tracce non mostrano umiltà: anzi, questo album presenta un Bieber impenitente ed estremamente egocentrico, che cerca di incolpare tutti tranne se stesso. A volte la sua attitudine da "povero me" mostra una fredda arroganza, come in "I'll Show You" in cui Bieber ci chiede di immaginare quanto sia dura la sua vita da fuorilegge: “they don’t even know that I’m hurting, life’s not easy, I’m not made out of steel, forget that I’m human, forget that I’m real” ("loro non sanno che io soffro, la vita non è facile, non sono fatto d'acciaio, dimenticano che sono un umano, dimenticano che sono vero"). Nel punto più basso dell'album, "Live Is Worth Living", una ballata senza senso piena di cliché sul viaggio come scoperta di se stessi, non fa già più ridere. Bieber si lamenta: “they try to crucify me, I’m trying to work on a better me” ("loro cercano di crocifiggermi, mentre io lavoro per migliorare"). Il disco è praticamente una lezione su come scusarsi senza scusarsi.

Se c'è qualcuno di cui Bieber vuole il perdono non è l'ascoltatore, ma Dio. Come ha detto in varie interviste, uno dei pilastri fondamentali di questo album è stato il suo ritorno a una più completa fede cristiana, e qui fornisce le prove della serietà del suo intento, facendo seguire a ogni "vaffanculo sono il migliore" un riverente "a parte lo zio lassù". Il disco è pieno di riferimenti alla fede, in particolare in relazione ai suoi peccati passati. Su "Purpose" ci sono dei versi che sembrano quasi una preghiera: “I put my heart into your hands / Here's my soul to keep” ("Metto il mio cuore nelle tue mani / Puoi tenere la mia anima"), seguito da un outro parlato dal sapore religioso. La strategia Bieber è questa: prima ti colpisce con la pietà, e poi sferra il gancio sinistro della pia assoluzione.

Sul serio, però: chi se ne frega se Bieber sia un bravo ragazzo o no. Quello che la gente vuole è un buon album. E che si tratti della spettacolare e vivace "The Feeling", con percussioni e click che piovono da ogni parte prima di schiantarsi su un ritornello disneyano alla Bieber, quasi prendendosi gioco della finzione amorosa, o di Big Sean che chiude barre con "You know I eat the cookie like I'm Lucious" o di un pezzo hip hop con Nas che è semplicemente pazzesco, ma che si trova solo sulla maledetta versione deluxe, è impossibile sostenere che Bieber ci abbia delusi.

È difficile capire in anticipo come sarà accolto questo album. Qualche anno fa nessuno avrebbe preso sul serio un album di Justin Bieber, ora la lettura più entusiastica di questo disco è che si tratti di una totale innovazione sonora per la musica pop, roba che di solito si legge per Quincy Jones o William Orbit.

Ma mentre le prime ondate di poptimismo si calmano, cosa rimarrà di Bieber all'ascoltatore? È un cristiano devoto, un ex maligno, o il tipo che è riuscito a farsi perdonare di ogni? Il verdetto parrebbe importare moltissimo a Bieber, ma direi che non importa altrettanto a noi. Cancelleremo le ballate appiccicose e ci godremo un disco che spacca di brutto.