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Musica

Prurient crocifisso in sala macchine

Una lunga lunga intervista a Dominick Fernow sul perché per lui le umiliazioni pubbliche siano interessanti

Foto per concessione di Nikki Sneakers

Il noise è una cosa seria. Oppure no, anzi può anche essere inteso come un rifiuto totale di questo tipo di categorie, il che lo rende molto utile. D'altro canto, per chi ha una tendenza verso cose astratte tipo la "libertà totale", è una roba completamente inutile, il che lo rende importante. Il noise è puro, è come stare sulla riva di un fiume nel quale puoi liberamente sputare, bere o battezzarti, a seconda delle tue inclinazioni. Chi segue il genere sostiene di saperle distinguere di caso in caso, e chi sono io per negarlo? L'ascolto raggiunge il massimo godimento quando lo si prende estremamente sul serio e allo stesso tempo se ne riconosce l'assurdità, cosa che può essere interpretata sia come un'apertura verso le sfumature di un fenomeno che come una posa da intellettuali del cazzo. Insomma: spacca, ma è roba complessa e sfaccettata o volutamente primitiva? La risposta è, krrrrrzzzzzzzzkkkkkkkkzkzkkzkzkzkzkzkz.

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Domick Fernow fa del "buon" noise, ma lui stesso si sente in imbarazzo ad attribuire un valore all'arte che non sia "esiste" o "non esiste". In passato ci teneva molto che il suo stile non venisse catalogato come "musica", per quanto le sue tracce stessero diventando progressivamente più melodiche e ricche di soluzioni differenti. Nel suo ultimo disco a nome Prurient, Frozen Niagara Falls, chitarre acustiche e tastiere entrano ed escono dalla coltre di distorsioni e urla angosciate. Nelle note del disco si suggerisce di ASCOLTARE DI NOTTE, CON LA NEVE CHE CADE SILENZIOSA TRA LA LUCE DEI LAMPIONI.

La mia intervista con Fernow, sparsa tra svariate telefonate e un certo numero di chat, è lunga ma non pesante, proprio come il disco (se non siete d'accordo andate a leggervi una Lista di Dieci Cose mentre ascoltate del grind). L'umore di Domick si divide fra arrabbiato, autocommiseratorio, divertente e logorroico (spesso, per deformazione professionale e personale, anche a partire sal semplice suono di una parola), e nel corso di una sola risposta riesce a dilungarsi sulla natura dell'arte, le responsabilità di un artista nei confronti degli altri, e sul perché la ripetizione è una cosa meravigliosa. Ancora come il disco, spero che troviate quanto segue valido e illuminante quanto l'ho trovato io.

Di recente hai partecipato all'evento "Nothing Changes" di Red Bull Music Academy, dove hai suonato il tuo album Pleasure Ground per intero. So che eri un po' nervoso, com'è andata?
Sì, all'inizio mi sembrava una cosa senza senso. Frozen Niagara Falls era appena uscito e io pensavo "Ma a che serve suonare un disco di dieci anni fa?". ha iniziato ad avere senso mentre lo suonavo, e ancora di più dopo. Si è ricollegato all'idea di abbandonare la nostaglia che ho esplorato in Frozen Niagara Falls. Confrontarsi con la propria storia in pubblico è una roba intensa, ma in una maniera positiva. C'erano anche Merzbow e Ron Morelli che hanno suonato in due sale diverse, entrambe piene di gente presissima. Mi pare sia stato un momento importantissimo per la città e, come individuo, ho avuto l'impressione che il pubblico stesse cercando doi interagire con la musica secondo gli stessi criteri con cui era stata creata, puttosto che proiettandoci sopra le proprie aspettative.

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È un po' il problema di fare musica così aperta alle interpretazioni. Musica noise, o noise e basta.
O semplicemente musica di merda?

Hahahah, be' sai, è interessante: dopo lo show stavo parlando con un amico che mi diceva che gli era piaciuto da matti il tuo set perché era "brutale", mentre per me era stato molto piacevole e immersivo.
Certo, c'era un campo aperto in cui il pubblico poteva inserirsi. Non è una cosa negativa, in qualche modo l'album ora è loro, non è più mio.

Per cui, una volta partito, è stato difficile rimanere concentrato?
Mi sentivo stranamente molto rilassato, il che è strano, perché ho sempre associato le mie performance all'idea di tensione. Il mio amico Matt Simmons, con cui ho fondato la label, diceva sempre che suonare dal vivo ha sempre a che fare con la tensione e se non sei nervoso c'è qualcosa che non va. Credo sia molto vero, ciononostante in quel momento mi sentivo decisamente in pace. C'era gente interessata a vederla come una performance più che ad analizzarla musicalmente.

Parliamo di nostalgia: trasferirti a Los Angeles non ha funzionato. Ma c'è ancora posto per Hospital a New York? C'è molto della città nel nuovo disco, e anche prima ne parlavi.
Domanda tosta. Penso ci sia ancora posto. Mi manca il negozio ma non mi manca il fatto che venisse liquidato da molto come "un negozio di dischi". Stavo facendo un banchetto l'altro giorno e un tizio mi fa "perché l'hai chiamato Hospital?" Semmai avrebbe dovuto chiedermi perché non si chiamava "records" anziché "Productions". Quella era la parte più importante per me, prima era diversa. L'idea era di rappresentare qualcosa di diverso e multimediale. Mi manca avere un mio spazio con la porta aperta, e credo che la parola chiave sia proprio "spazio". Non l'ho capita finché non sono tornato: ciò che rende New York davvero terribile è la congestione, l'affollamento, il senso di claustrofobia, soffocamento, di mancanza di spazio contrapposto algebricamente a quanta cazzo di gente ci si strizza dentro, per cui le cose succedono in maniera quasi forzata. LA invece è più cavernosa ed espansa. Vivere lì non ha funzionato, c'è troppo spazio e manca l'interazione forzata. Per far funzionare le cose servono sia lo spazio che la claustrofobia. Quando guardo gli artisti che ho pubblicato sulla label, o i tanti collaboratori e amici, mi rendo conto che quasi tutti li ho incontrati o mi sono stati presentati in negozio.

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Come ti senti all'idea di fare entrare le persone che ami nel maelstrom psichico del tuo lavoro? Non è che scrivi dittici su quanto ti piaccia andare per mano con la fidanzata.
È una necessità e la mia responsabilità in quanto artista. Anche se viene da una riflessione personale, perché il tuo lavoro abbia significato devi renderti vulnerabile, è lunico modo di fare entrare gli altri. Non è catartico [sospira], la catarsi implicherebbe che ti stai liberando di qualcosa. No, è una trasformazione, è prendere quel qualcosa e modificarlo. Non sono il tipo che lascia correre. Ci saranno sempre delle chiamate a cui dovrò rispondere, che ne parli nelle interviste o no.

James Elroy una volta disse una cosa fichissima, tipo “Non me ne fotte un cazzo di liberarmene, io penso alla morte di mia madre tutti i giorni e non voglio che vada diversamente.”
Sì, cioé se lasciar correre è un fatto si sopravvivenza, allora credo che questa ossessione per il possesso sia connessa a un processo di rifiuto della separazione finale, vale a dire della morte. Forse è una maniera immatura di rapportarsi alla coscienza.

È molto semplice, per chi non ne sa nulla, etichettare l'arte che produci e che io amo come autoindulgente, perché è fondamentalmente rumore. Però poi ti trovi in una stanza piena di gente che la vuole ascoltare e ti rendi conto che non è affatto autoindulgente.
È anche un modo diverso di raccontare storie. Se sei troppo diretto, sarai autoindulgente. Se invece ti metti in una situazione che per definizione ha bisogno degli altri, diventa inclusiva e non esclusiva. Credo sia per questo che odio fare concerti e andare in tour, perché è per definizione una cosa inclusiva. Non mi piace molto come si comporta la maggior parte della gente quando sta lavorando a un disco: smettono di ascoltare e di partecipare. È molto importante rimanere attivi e affamati, e continuare a comprare dischi. È come andare a un pranzo di famiglia: ci sono persone che non vuoi vedere, ma c'è chi dice che la famiglia è una opportunità di relazionarti con persone con cui volontariamente non avresti nessun rapporto. A volte rifletto sulle personalità della mia famiglia e mi chiedo se non ci sia qualche strano archetipo familiare disfunzionale che caratterizza tutti i concerti.

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Cazzo, allo show per Red Bull c'erano senza dubbio un po' di stronzi che non mi piacevano.
È una follia. Più ti allontani dalle reazioni automatiche e cerchi di vedere le cose per come sono, più queste ti sembrano strambe e aliene.

Ho letto un'intervista con Billy Woods in cui dice che la sua più grande paura non è quella di avere il blocco dello scrittore o o iniziare a fare uscire delle cagate, ma solo di perdere il tocco e iniziare a fare uscire dischi "carini".
Poco fa stavo parlando con qualcuno che mi chiedeva come mi facevano sentire le reazioni positive a questo disco e ho risposto "Non so. Vorrà dire che è finita?" in tal caso dovrei davvero buttarmi dalle cascate del Niagara, sarebbe la cosa peggiore che mi potesse capitare.

Che intendi?
Una roba tipo Rothko che si è sparato dopo una retrospettiva. Ha perfettamente senso. Non dico che sia il caso di questo album…. Il noise non serve solo a farsi odiare, ma mi sento a disagio quando c'è troppo consenso. Forse è solo che sono un eterno bastian contrario.

Penso sia molto salutare dubitare del consenso .
La gente non capisce che io sono il mio peggior critico. Kris Lapke e io non abbiamo pietà con noi stessi, accogliamo tutte le critiche perché di solito le abbiamo già pensate noi, non mi è mai capitato di venire sorpreso da un parere negativo. L'impeto principale qua è relazionarsi al fatto che odi te stesso, a questo punto come potresti non essere tu il primo a criticare la tua musica? Non l'ho mai capito.

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Non sei più tanti Best New Music quando ti fissi nello specchio alle quattro di mattina.
Trovo più interessante l'umiliazione pubblica con tanto di flagellazione.

Foto per concessione di Becka Diamond.

Be', certo, non mi aspetto che ti interessi quello he scrivono di te, però trovo strano che tu rifletta molto sulla società consumistica ma pubblichi un sacco di edizioni in vinile, un sacco di prodotti.
È la parola giusta: prodotti. È strano perché essere un artista prolifico, nel caso di un pittore o di uno scrittore, è sempre una buona cosa: non c'è nessuno che dice, "oh vaffanculo, Bacon era troppo prolifico". Quando pensi a un musicista, invece, ti rendi conto che è la componente merceologica che lo rende così diverso. Il prodotto e la consapevolezza di avere un pubblico fanno sempre effetto su di te. La label mi diceva "dai, fallo e basta", mi sono trovato ad avere una conversazione molto nervosa col tipo in cui gli dicevo "Hai presente quel disco che dovevo fare per te? Be', ne ho fatti tre." Pensavo che avrebbe cancellato tutto, e invece mi ha risposto "Bella, vai avanti." In tanti mi hanno chiesto "Era previsto che fosse così lungo?" e io: "No!" non era nei miei piani fare un album così pomposo e inascoltabile

Hahahaha
Non avevo progetti, ma solo bisogno di continuare a gettare benzina sul fuoco finché non fsi fosse diradato il fumo e si fossero viste solo le fiamme. Il punto è che non l'avevo architettato come un'affermazione ambiziosa, ma solo che mi ci ero completamente perso dentro.

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Ma hai scelto di non tagliarlo.
È vero, anzi ho combattuto per tenerlo tutto. Tutti gli elementi più improvvisati e suonati "a mano", se li togli sembra solo una jam. È talmente ripetitivo che ha bisogno di molto tempo e spazio per essere assorbito. Sono i dettagli a dargli forza. Senza quella struttura ripetitiva, non ti puoi infilare dentro le idiosincrasie e le inconsistenze che gli danno carattere, anche se la ripetizione è per definizione assenza di carattere. A posteriori, il bisogno di una durata maggiore è anche una reazione a certe implicazioni "geografiche", è tutto nato da un bisogno di spazio, dopo essere tornato in città con un senso di smottamento totale, distrutto dal clima e dall'isolamento. Inizialmente pensavo di registrarlo in un fienile gigante in mezzo ai campi, nella Pennsylvenia rurale, ma non andò. Se l'avessi fatto sarebbe stato sicuramente un disco molto diverso, certamente non un doppio né un triplo LP. Tutte è nato da una mancanza di risorse e da questo senso di azione forzata, più un bisogno che un'intenzione, il che è completamente alieno per me, dato che ho sempre lavorato seguendo una tesi e cercando di provarla.

C'entra con la responsabilità artistica di dire sempre la verità?
Sì, ecco, in alcuni momenti specifici. Come artista il mio compito è chiedermi "Che ci facciamo qui?" Non ho forse il diritto di parlare delle esperienze dall'altro lato della tossicodipendenza? Non ho il diritto di restituire al mondo ciò che mi ha dato? C'è una linea sottile tra farlo e mettersi a sfruttare quelle esperienze. Io non vorrei mai… [fa una pausa molto lunga] …mai diventare così. Ma non posso nemmeno negare che siano quelle le cose che stimolano il mio interesse.

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Be', certo, ed è dura…
Certo, ma c'è un equilibrio. Ecco perché penso che il dramma e la fantasia siano così importanti.

Molto spesso ascolto della musica e poi mi chiedo, "Chissà qual è il punto di vista della sua ex"?" Però poi penso che ci sia anche una privacy da rispettare.
Sì, ed è strano perché non è sempre il caso di parlare di certe cose però, cazzo, è la verità. Non è un caso estremo, è roba di tutti i giorni, molto comune. È il fatto che sia così comune a renderla in qualche modo brutale. Ma io devo trovare un equilibrio tra l'autenticità nei confronti di me stesso e, sai, il fatto di dover pagare l'affitto. In assenza di un termine migliore potremmo definirla una carriera, è la mia routine. Sono sempre esausto e friustrato. Cazzo, quanto sono a pezzi a volte…

Emozionalmente o artisticamente?
Odio tutto. Sono esausto. Odio andare in tour, e c'è un motivo per cui non sono raggiungibile via internet. Non ne ho bisogno, so cosa succede da quelle parti e non voglio prenderne parte. Sono esausto, e questo alla gente non interessa, gli interessa solo parlare di synth analogici. Io sono un'anima vecchia, non mi piace come vanno le cose.

Sì, la musica in sé non è più così importante per la gente.
È colpa dei social media.

Be', probabilmente sì, ma ci sono altre cose che interessano alla gente…
Formare sé stessi tramite l'esperienza—immegendosi in qualche medium letterario come la musica, i libri o il cinema, è di quello che abbiamo bisogno. È questo che mi infastidisce quando la gente dice che non gli interessa l'arte. Io rispondo, “Ma vaffanculo, l'arte è ovunque.”

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C'è una certa violenza nei testi del disco. Certo, non vanno presi alla lettera. Tua madre è una poetessa, c'è un elemento poetico in quelle parole.
C'è un lato di quella violenza che mi piace, il fatto che puoi parlare di violenza solo usando un tono poetico. In caso contrario sei solo uno stronzo.

Sì, un bullo, tipo.
E io odio i bulli. Negare questo aspetto… È una questione molto complicata: come si fa ad esporsi senza sembrare egocentrici? È molto dura e la risposta per me è quella. Ci lotto in continuazione e alla fine mi dico "fanculo, è questo che mi interessa, verso cui mi sento attratto.

Certo. Ci deve essere un certo livello di ego. Sei un performer e la musica è solo un medium con cui dire ciò che hai da dire.
Ciò che mi alllontana dall'idea che l'arte sia tutta incentrata sull'ego è il pensiero che l'arte sia ciò che definisce la nostra umanità, confrontandosi con la nostra condizione di mortalità. L'unico modo che abbiamo di rapportarci a essa è proprio tramite l'arte, perché espone la futilità di quella consapevolezza. Forse inizialmente la religione dava sfogo a queste pulsioni, ma forse non dava una vera risposta, solo una possibilità di afrontare psicologicamente la realtà e confrontarci con questi costrutti astratti. Quindi c'è un ego dietro la spinta artistica ma allo stesso tempo è estremamente universale. Nasce dalll'ego ma contiene un desiderio di connessione e condivisione. Per quanto possa sembrare da sfigati, in fin dei conti è questa la realtà.

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Sì, non sono neanche cose che si escludono a vicenda.
Non importa quanto hai l'ego grosso o se non ce l'hai, o quanto disprezzo per te stesso questo contiene, è essenzialmente definito dall'esistenza degli altri, e devi farci i conti. Credo che questa condanna di tutto quanto comporti la necessità degli altri sia insalubre e lontana dalla nostra psicologia.

Parliamo di uno strano modo di accogliere i sentimenti nelal loro forma più grezza, e la possibilità di buttarli fuori. Credo abbia tutto a che fare con quanto sei bravo a farlo, ma è impossibile definire il carisma. Insomma, perché Prurient è uno degli artisti noise più famosi ma, se fai ascoltare una tua traccia a mia madre a fianco di qualcuno molto meno famoso, per lei sarà sempre lo stesso casino.
No no, farebbe differenza anche per lei, ma penso sia comunque un discorso assurdo, come chiedersi “qual è la linea di bus più famosa in città?”

Foto per concessione di Becka Diamond.
È frustrante che la gente sostenga di fregarsene dell'arte o ne parlino come di una cosa lontana da loro. Stessa cosa per la politica, sono parti fondamentali della tua esperienza quotidiana. La politica costruisce la strada su cui viaggi, l'arte sono i graffiti circostanti, i palazzi in costruzione, la radio che ascolti… E questa per la gente è roba che si può ignorare.
Esatto, e questo mi infastidisce. Credo sia per questo che poi la gente si arrende alla religione. Credo che quello che rende ancora attraente la religione per dei giovani che vivono in una società ampiamente secolarizzata sia che ha ancora in qualche modo a che fare con la mitologia, che non è nient'altro che il linguaggio dei simboli, e i simboli sono un veicolo di qualcosa di altro da sé. Credo che se la scienza volesse mettere davvero piede nella mente della gente, dovrebbe iniziare a usare un linguaggio mitologico. Ogni volta che leggiamo abbiamo a che fare con una simbologia. L'atto stesso di leggere, insomma… I caratteri in sé non hanno valore, sono i concetti astratti ad essere importanti, e l'astrazione è anche interesse a risolvere problemi.

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Hai detto in altre interviste che una cosa che non ti piace della società contemporanea è che tutto viene preso alla lettera.
Sì.

E non c'è spazio per l'uso di "personaggi" nelle canzoni…
Sì.

… Per cui se parli di violenza sei per forza un tipo violento.
Esatto.

Eppure tu sei famoso e non è assurdo. Non lo so… Forse il fatto che sei così famoso è assurdo.
Hahahahahahha

È assurdo. Voglio dire che un certo livello di ipocrisia e paradossi è insito nella cosa stessa, credo sia esattamente questo a motivare molti di noi.

È importante che la gente sappia se ti sembra assudro o meno. Ti capita di suonare in un posto come il Wick, con un biglietto d'ingresso da diciotto dollati e nessuno dentro sta al bar a chiacchierare. C'è una stanza piena di gente che ti guarda…
Che mi guarda mentre mi rendo ridicolo.

Sì, mentre ti rendi davvero ridicolo. È una delle cose che mi fa più incazare della gente che parla delle "pose" nel noise, nel punk e nel black metal. Come dire, "nessuno a cui non interessi davvero sta roba rimarrà qui a subirla". Magari stanno al bar, ma quelli che non ti conoscono non restano fermi a guardarti suonare.
Hahaha, be', c'è un limite a tutto.

Foto per concessione di Nikki Sneakers.

Il che ci porta alla prossima domanda: cos'è che ti spinge a fare musica, insomma, perché? A vederla live mi pare una roba molto viscerale, intuitiva, c'è spazio per la possibilità di uscire dal flusso e pensare freddamente "ora ci vuole questo suono" o "devo ricordarmi di suonare quella cosa", oppure nasce sempre tutto sul momento?
Be'… di solito cerco solo di non vomitare. Letteralmente. Forse sono troppo vecchio, mi pesa sempre di più. Ogni volta che vedo il tipo dei Converge mi chiedo come faccia uno a sopportare ventuno anni di urla a squarciagola. Con questo disco in realtà è successo che più cercavo di forzarlo in una direzione, più mi riusciva difficile. Era l'opposto di quanto avessi fatto in passato e il processo di forzatura è diventato in sé il significato stesso. Anche se in passato avevo comunque lavorato con un obiettivo in mente, stavolta più ci provavo più pensavo "ma che cazzo sto facendo?".

Ma perché forzatura? Chi ti forzava?
Be', quando Hydra Head ha chiuso, ho iniziato a discutere con Profound Lore del futuro. Abbiamo davvero contrattato un sacco prima di trovarci d'accordo.

Perchè non eri sicuro di volere fare un album come Prurient?
Sì, pensavo che fosse un capitolo chiuso. Poi ho pensato, ‘E perché dovrebbe?’ Francamente mi pareva che le cose stessero andando troppo bene.

Cioè?
Nel senso che lo sentivo come l'esatto opposto di un disco doloroso o di un "breakup album", mi stava tirando fuori cose diverse. Di solito conto sulla possibilità che la mia vita si rovini in modo da avere una motivazione per il prossimo disco. Sono le uniche motivazioni che riesco a sentire.

Mi chiedo se questa non sia una cosa un po' adolescenziale e maschile. Io mi sento come te, ma dai, non siamo proprio dei ragazzini a cercare l'impeto nel trauma? Per dire, Zohra scrive delle cose bellissime solo sull'amore profondo e io invece non so mai che fare, non so mai come esprimere la felicità.
Hahahaha, sì, un po' come dire "preferisco stare scomodo per avere almeno qualcosa di cui lamentarmi."

Hahaha, sì.
"…Spiacente, mi serve!" In realtà questo disco ha più a che fare con l'impegno che con la distruzione. Tornando a New York mi sono chiesto "cos'è una casa?" è solo un posto familiare, non ha niente a che fare col conforto o la sicurezza. C'è l'atto di superare la nostalgia, accettare chi sei e che non puoi negare il tuo passato, ma devi averci a che fare. Fare i conti col casino che ti sei creato. La nostalgia è revisionismo emozionale. Spazio sprecato. L'opposto della nostalgia è l'accettazione.