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Perché le serie tv italiane fanno schifo?

Lo abbiamo chiesto a uno che le scrive nel tentativo di capire come nascono tutti questi preti e commissari che popolano il palinsesto televisivo nostrano.

È assodato che il consumo compulsivo di serie tv sia entrato nella quotidianità e nei discorsi delle persone con la delicatezza di una gastroscopia. Pressoché chiunque viva in uno stato regolato da democrazia rappresentativa ha seguito Breaking Bad o sta recuperando puntate di The Wire e Eastbound and Down oppure sta ridendo di The Big Bang Theory perché è una persona di pessimo gusto.

Non è un discorso legato alla sola serialità USA (che spesso si serve di remake), ci sono tantissime produzioni extra-americane con un seguito internazionale, come Black Mirror, The Office Uk o Top of the Lake. Il prodotto seriale è diventato o sta diventando competitivo con quello cinematografico più o meno dappertutto.

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La fiction italiana, invece, è un buco nero di casalinghe bonarie, nonni burberi dal cuore tenero e poliziotti idealisti. Insomma, se il nostro cinema non gode di ottima salute, le serie tv, a parte poche eccezioni, sono sul pavimento a rantolare, attaccate a formule attempate e grossolane.

Abbiamo deciso di parlarne con qualcuno che queste serie le scrive, Aaron Ariotti. Aaron è uno sceneggiatore che conosce bene la fiction italiana degli ultimi 15 anni: ha partecipato alla scrittura de I Cesaroni, Il Tredicesimo Apostolo, Sotto casa, Don Luca 2 e molte altre serie sia Mediaset che Rai. Ma è anche uno dei soci più attivi della Writers Guild Italia, associazione che rappresenta gli scrittori di tv, cinema e web italiani e opera sul tema del rinnovamento dei sistemi produttivi delle serie tv nazionali. Proprio per questo motivo, e decisi a capire cosa significhi parlare di rinnovamento, l'abbiamo chiamato e ci siamo fatti spiegare come nascono tutti questi preti e commissari che popolano il palinsesto televisivo italiano.

VICE: Ciao Aaron. Vista la tua esperienza nel campo, puoi dirmi cosa caratterizza in negativo l'Italia, a livello di creazione di serie?

Aaron Ariotti: Qui non c'è un mercato delle idee. Non è che io ho un'idea, la do a un produttore e cerco di vendergliela. Qui da noi parte tutto dalle richieste del network, dal produttore che magari ha per le mani Gabriel Garko e gli deve far fare una serie e allora si imbastisce la cosa su misura per l'attore. A me è capitato due volte in 15 anni di carriera di scrivere un soggetto per una serie, dove ero depositario insieme ad altri dell'idea. Entrambe le volte i progetti si sono arenati al primo scoglio produttivo. Se una richiesta non arriva dall'alto è veramente difficile far passare le proprie proposte. Negli altri paesi le dinamiche sono diverse e poi c'è il via cavo, molta scelta di canali. Qui il corridoio è stretto: Canale 5 e Rai Uno sono tv generaliste e sono quelle che producono. Poi c'è Sky, ma non è abbastanza.

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Tu presenteresti mai un progetto per una serie che assomigli alle cose che ti piace guardare?

Ma magari. Però non ti danno retta. Non voglio essere presuntuoso e dire che lo potremmo fare anche in Italia [ciò che si fa in America], perché non è vero. Però mi ricordo qualche anno fa durante un convegno, un dirigente di Mediaset che si occupa di serie tv alla domanda "avresti mai prodotto una serie su una famiglia di becchini?"—il riferimento era chiaramente a Six feet Under—lui molto onestamente rispose "ma neanche per sogno." Disse anche che era già stata una trasgressione ambientare I Cesaroni in una bottiglieria. Questo la dice lunga su come siamo messi, direi. Se io volessi ambientare una serie in un carcere, per esempio, come in Orange is the new black non potrei.

Ovviamente anche l'approccio alla scrittura e alle storie stesse però è molto diverso, al di là delle dinamiche produttive. Ad esempio nei "polizieschi" come La Squadra.

Guarda proprio su La Squadra sei o sette anni fa provarono a fare una cosa un minimo diversa. Per esempio provarono a far vedere dei poliziotti sotto una luce negativa, volevano tentare un The Shield all'italiana che comunque era dignitoso. Non sarà stato un capolavoro, ma nel panorama generale faceva la sua porca figura secondo me. Però ecco andava su Rai Tre. Lo vedi anche tu adesso, lì è rimasto giusto Un Posto al Sole.

La sigla della "prima soap interamente prodotta in Italia."

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Ti è capitato di imbatterti in qualche caso di vera censura o ti autoimponi limiti di scrittura?

La censura in Italia esiste ed è molto forte. Esiste a tutti i livelli e se sei del mestiere sai che più in là di tanto non puoi andare. Poi è ovvio che se scrivo per Rai Uno o Canale 5 mi autoimpongo di non scrivere certe cose. Una volta ci provavo a scriverle [ride] però se anche fra gli altri autori qualcuno ti appoggia poi al livello superiore l'editor ti dice "ma sei pazzo non andrà mai in onda." Nella soap opera il livello di censura è inquietante. Quella in cui lavoravo andava in onda in daytime, alle 14.00, e non potevano esistere omosessuali, ad esempio. In quel mondo lì semplicemente non c'erano. Era una scelta editoriale esplicita della rete, ti fa venire un po' di sconforto.

Perché alla Rai non conviene puntare sull'originalità dei contenuti? Perché rinuncia a questo potenziale economico?

Tutto va misurato con gli ascolti e preferiscono puntare sul sicuro. Che poi sicuro non è più, perché in questi ultimi anni lo share è diminuito dappertutto, con internet, la gente che scarica e tutto il resto. Il pubblico della tv sono vecchi e bambini. Loro propongono un tipo di prodotto standardizzato: quello è e quello sarà.

Ma non sono interessati a cercare nuove fasce di pubblico? 

Ma no, non gli interessa ampliare il pubblico. Il discorso è conservativo, tentano di tenersi stretti quelli che hanno. E siccome anagraficamente parlando siamo un paese di vecchi, loro lo sanno che il pubblico lo avranno sempre. Anche se diminuito. Se gli interessasse la sperimentazione sperimenterebbero. Per noi autori è invalidante. Magari hai dieci idee di cui un paio buone e puoi solo sperare che ti vada bene nel proporle a Sky. Perché sennò non passano. Breaking Bad è l'idea di un autore che ha avuto modo di presentarla a qualcuno, ha trovato un produttore che credesse nell'idea e l'ha fatta. Qui non è uno scenario ipotizzabile.

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Quindi non c'è nessuna responsabilità da parte chi scrive o dirige o interpreta? Chi svolge il lavoro creativo, insomma. 

Certo che avremo anche noi le nostre responsabilità. Io ho lavorato per anni a delle cose il cui risultato finale non mi piaceva. Tenti di farlo al meglio, anche se a volte viene visto come un errore da chi ti sta sopra. Però è anche vero che in Italia, soprattutto per chi scrive, la situazione è difficile. La nostra voce arriva smorzata, persino nel campo dei diritti economici e lavorativi fondamentali. Figurati quanta voce abbiamo in capitolo. Non è colpa nostra se non possiamo proporre le nostre idee.

Gli autori di Boris mi hanno detto che parte del successo ottenuto con la serie secondo loro è da imputare al fatto che non fossero coinvolte nel progetto persone già formate in ambiti più "istituzionali" come Rai e simili, anche a livello di produzione. C'è bisogno di ricambio?

Sono d'accordo se si parla a un livello di produzione. Sicuramente conta. Se si parla a livello di autori invece non sono d'accordo. Magari uno la soap la scrive per tirare a campare, non ci deve essere pregiudizio. Non c'è bisogno tanto di ricambio, ma di più circolazione del lavoro, secondo me.

Come te lo immagini lo spettatore tipo della fiction di Rai Uno?

Eh, me lo immagino vecchio. Però non bisogna dare la colpa al pubblico, io storco sempre il naso quando lo fanno. Se c'è un solo mercato che vende solo mele rosse le persone continueranno a comprare mele rosse per sempre.

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Magari se le faranno andare di traverso, ma le mangeranno. Almeno finché non ci sarà un'offerta migliore e variegata.

Questo è il punto.

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