Saluti da Auschwitz: questo artista ha raccolto le cartoline dai luoghi dell'Olocausto

FYI.

This story is over 5 years old.

Foto

Saluti da Auschwitz: questo artista ha raccolto le cartoline dai luoghi dell'Olocausto

La prima cartolina da Auschwitz è stata inviata nel 1946, un anno dopo la liberazione del campo. L'artista e curatore polacco Paweł Szypulski​ ha raccolto le cartoline inviate da allora, e si è chiesto cosa ci dicano di noi le battute e le...

Greetings from Auschwitz. Foto di K. Krajewski, per gentile concessione della Fondazione di Arti visuali, Cracovia.

Oggi che puoi telefonare o mandare email quando vuoi, decidere di mandare una cartolina—comprarla e scriverci un messaggio—ha qualcosa di struggente.

Poi ho saputo che anche da Auschwitz si inviano cartoline: la prima è stata spedita nel 1946, un anno dopo lo sgombero del campo. Ci sono stato una volta, ma non avevo fatto caso a chioschi di souvenir. Comunque, anche se ci fossero stati cosa avrei dovuto scrivere da un posto costruito appositamente ai fini di un genocidio? "A parte tutto, io sto bene"?

Pubblicità

Quanto tempo deve passare perché un luogo come questo diventi un'attrazione turistica? È stata la prima domanda che mi sono fatto leggendo Greetings from Auschwitz, il libro di Paweł Szypulski. L'artista e curatore polacco ha messo insieme una collezione di cartoline inviate dai turisti dal campo di concentramento. Nello spazio per i saluti c'è scritto un po' di tutto, dalle informazioni sul clima alle battute politicamente scorrette: "Una vagonata di saluti da Auschwitz," per esempio—con davanti l'immagine del blocco della morte.

Ho incontrato Szypulski per parlare di come reagiamo davanti ai traumi.

VICE: Come sei riuscito a trovare tutte queste cartoline e quanto tempo ti ci è voluto?
Paweł Szypulski: Ho iniziato otto anni fa. Quando ho saputo dell'esistenza di queste cartoline volevo trovarle a tutti i costi—ho cominciato a cercare nei negozi d'antiquariato e nei mercatini. Ma mi sono reso conto che era un metodo lungo e poco redditizio. Alla fine, le ho comprate tutte su un sito d'aste. In pratica ogni due settimane scrivevo la parola "Oświęcim" [il nome polacco di Auschwitz] nella sezione cartoline, e poi compravo solo quelle che avevano "circolato"—quelle che erano state scritte, timbrate e spedite. Mi interessavano quelle con i saluti, perché avevano una storia.

Come hai selezionato il materiale per il libro?
Volevo che il libro fosse soprattutto una vetrina della mia collezione, di tutto quello che sono riuscito a trovare. Dopo aver creato un archivio di cartoline, ho dovuto cercare di capire come organizzarlo. Il modo in cui sono ordinate le cartoline nel libro è già una storia di per sé; sfogliandolo i lettori fanno un vero e proprio "viaggio" all'interno del campo; dai cancelli, attraverso gli avamposti dei soldati e il filo spinato fino alle camere a gas e i forni crematori. E lo stesso viaggio lo ripetiamo a Birkenau.

Pubblicità

Le cartoline vengono tutte dalla Polonia?
La cosa interessante è che sono state inviate anche da altri posti. Alcune sono state comprate nella città di Auschwitz, ma la maggior parte provengono dai musei. Sembra che queste cartoline fossero disponibili anche in altri posti, non solo nel campo di concentramento. Mi ricordo anzi che una volta da bambino ero andato in vacanza in Casciubia, e in una specie di museo all'aperto vendevano cartoline con un'immagine del sole dietro del filo spinato—era una foto del campo di concentramento di Stutthof.

Foto di K. Krajewski.

Hai mai contattato qualcuno dei mittenti o dei destinatari delle cartoline dal campo di concentramento?
No, e non ho intenzione di farlo. Non è loro che sto cercando, questo progetto non parla di loro ma parla di noi—di tutto il mondo post-Olocausto. Infatti, per prima cosa ho cancellato i nomi delle persone coinvolte. E non l'ho fatto perché è illegale violare la loro privacy, ma per il semplice fatto che non volevo che questo libro parlasse di nessuno nello specifico. Questo progetto non vuole essere giudicante. Non sto puntando il dito contro le persone che mandano cartoline da Auschwitz.

Non credi che queste cartoline possano in qualche modo offendere i sopravvissuti, e tutti quelli che hanno perso i loro cari nei campi di concentramento?
È stata la prima cosa che mi ha colpito—la scorrettezza totale delle cartoline. Non riuscivo a capirle. Come fai a mandarne una? E soprattutto a crearle e guadagnarci dei soldi? È stato questo che all'inizio mi ha spinto a interessarmi alla cosa, e ora ho una visione più complessa a riguardo. Man mano che passa il tempo, ho sempre più domande a cui non so rispondere.

Pubblicità

La prima cartolina è stata prodotta all'interno del campo di concentramento nel 1943, quando ancora il genocidio era in corso. Qual è la storia di questa cartolina?
La prima cartolina l'ha creata Wilhelm, un polacco di origini austriache spedito ad Auschwitz per essersi rifiutato di entrare nella Wehrmacht. È stato fortunato perché lì avevano bisogno di qualcuno che facesse foto, e lui era stato un fotografo professionista. È stato chiamato a gestire quello che lì chiamavano il "museo", un'unità di detenuti con il compito di fare foto, riprodurre immagini e falsificare valute—e tutto questo richiedeva una certa abilità artistica.

Brasse fece molte foto ai detenuti—lo scatto doppio, sia di fronte che di profilo che associamo ad Auschwitz. Ha anche documentato alcuni degli esperimenti medici che venivano condotti nel lager. Accanto a tutte queste immagini terribili che era costretto a scattare, ne scattò anche una totalmente diversa dalle altre: un fiore dentro a un vaso o un bicchiere. Aveva raccolto il fiore davanti a uno dei blocchi della morte dove Eugeniusz Dembek, un amico dello stesso kommando, l'aveva piantato. In mezzo all'orrore, il fiore rappresentava qualcosa di cui avevano bisogno per non perdere il senno.

Uno dei supervisori tedeschi vide la foto di Brasse e decise di farne delle copie e venderle alla mensa del campo. La foto ebbe un tale successo che a Brasse fu chiesto di farne una copia anche a colori. Perciò, la prima cartolina di Auschwitz fu un fiore dentro a un vaso. Sfortunatamente non si sono conservate copie, e ne conosciamo solamente la descrizione.

Pubblicità

So che nel 1943 i detenuti venivano obbligati a mandare cartoline ai loro famigliari. Ti sei chiesto perché?
Era un atto di propaganda organizzato per convincere il mondo esterno che gli internati ad Auschwitz stavano bene. Però bisogna tenere presente che sia il fronte sia il retro di queste cartoline aveva spazio per scrivere. Prima che fossero spedite, comunque, le cartoline venivano censurate e spesso chi le riceveva non credeva a quello che c'era scritto.

Come ti spieghi questa commercializzazione della morte?
La domanda è: potrebbe essere diversamente? Noi, persone che vivono dopo il genocidio, non sappiamo come sia giusto commemorare quei fatti. Auschwitz è presto divenuto un museo, anche grazie all'opera dei sopravvissuti all'Olocausto—altri campi invece, come Bełżec o Chełmno sono rimasti nell'ombra per più tempo. Un esempio di come la nostra memoria a volte ci tradisca è Umschlagplatz a Varsavia. Era lì che venivano radunate le persone da portare nei campi di sterminio—oggi ospita appartamenti di lusso, e per anni c'è stato un benzinaio. Insomma sembra che l'unica alternativa ai gesti commemorativi vuoti e meccanici sia non fare niente—ma non so dirti se è una cosa positiva.

Foto di K. Krajewski.

La cartolina più vecchia nel libro è stata inviata nel 1946, quando Auschwitz non era ancora un museo. Quando scorri le cartoline nel tuo libro è difficile capire se chi le scrive si renda minimamente conto del posto in cui è—a giudicare dalle considerazioni sul tempo o dai tentativi di fare una battuta. È un sintomo di ignoranza? O piuttosto fare ironia è un modo di fare i conti con il trauma?
Penso entrambe le cose. Le cartoline venivano spedite già appena la guerra era finita; oggi ci facciamo i selfie nei campi di concentramento. A volte è solo pura ignoranza, ma penso sia anche un meccanismo di autodifesa, trasformare un posto "traumatico" in un posto più simile a un resort alpino. Fare l'indiano aiuta, quando le cose che sono successe in un posto sono troppo grandi e gravi per l'immaginazione dello spettatore. Sei mai stato ad Auschwitz?

Pubblicità

Sì, una volta, ad Auschwitz I e Auschwitz II.
E ti ricordi quali erano i tuoi pensieri mentre eri lì?

All'inizio ho sentito un vero e proprio urto corporeo. Poi ricordo due sensazioni: un dolore fortissimo alla vista del mucchio di capelli tagliati; e la rabbia, quando in uno dei capannoni ho scoperto che un turista aveva inciso nel muro qualcosa—una frase da scuola d'infanzia tipo "Katie ama Johnny".
È pazzesco che qualcuno abbia fatto una cosa simile. Immagino possa essere visto come un segno che, anche dopo una tragedia simile, la vita continua. Penso che le cartoline e i selfie ci dicano un po' lo stesso, che in questo posto di morte ora cresce erba verde. Arrivano nuove persone a visitarlo, a fare turismo, è una specie di luogo di vacanza come se non ci fosse mai successo nulla. E questo ci fa scordare che da Auschwitz dovremmo imparare qualcosa.

Esatto. Il filosofo americano George Santayana ha detto: "Chi non impara la storia è destinato a ripeterla," e non molto tempo fa a Wrocław alcune persone hanno bruciato un pupazzo di un ebreo. Sono successe cose simili quando è stato annunciato che la Polonia avrebbe fatto entrare dei rifugiati nel paese, e chi era contro questa decisione ha iniziato a postare immagini di Auschwitz su Facebook con "Benvenuti" come didascalia. Pensi sia la prova che la storia si sta ripetendo?
Dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi abbiamo scoperto che l'umanità non riesce a fare a meno, in un certo senso, delle atrocità. L'unico "mai più" certo è che i tedeschi non uccideranno mai più ebrei a Varsavia come hanno fatto nel 1942. Ma dall'Olocausto ci sono stati genocidi in Ruanda e a Srebrenica, che non è lontano dalla Polonia.

Pubblicità

Ti consideri un artista o un documentarista?
Non mi considero un artista. Se dovessi descrivermi in qualche modo, mi sento l'autore di un progetto, e questo libro per me è una specie di saggio visuale, una presa di posizione.

Quale messaggio volevi far passare con questo progetto?
Il mio non è un obiettivo critico, perché non voglio che le persone smettano di mandare o di fare queste cartoline. Ho fatto questo libro perché mi interessano le persone "a lato" agli eventi storici traumatici. Gli spettatori, gli astanti—l'inglese ha una parola perfetta, "bystander". Voglio sapere cosa fanno le persone quando si trovano al cospetto di qualcosa di terribile. Tutti noi siamo, anche se non letteralmente, bystander, perché viviamo con la consapevolezza di quello che è successo ad Auschwitz. Ma possiamo diventarlo in senso letterale in ogni momento, perché può succedere qualunque cosa. E sappiamo che non c'è un modo "giusto" di reagire di fronte all'orrore, e io l'ho scoperto da me…

In che senso?
Mi trovavo a Parigi durante i recenti attacchi terroristici, ero a cena con i miei editori svizzeri e il loro appartamento sta a 300 metri da dove si è svolto uno degli attacchi. Sapevo che da qualche parte vicino a noi si stavano consumando dei fatti terribili, e io ero seduto a un tavolo pieno di ogni leccornia. In quei momenti ti rendi conto che non sai come reagire o come anche solo comportarti per essere giusto con le vittime.

Pubblicità

Nell'ultima pagina del tuo libro c'è una cartolina senza indirizzo che non è mai stata spedita. Quando l'ho vista sono rimasto scioccato: raffigura pile di cadaveri che aspettano di essere inceneriti. Che ci puoi dire a riguardo?
È una delle immagini più note dell'Olocausto. Alcuni dicono che sia stata scattata dentro una camera a gas. La foto è stata fatta da un Sonderkommando, un'unità di prigionieri responsabile di bruciare i corpi, è una delle foto che hanno scattato di nascosto.

Mi ricordo bene di quando ho scoperto questa cartolina. Anche se erano ormai un paio di anni che raccoglievo cartoline, è stato scioccante. Ne hanno fatte 32.000 copie—io ne ho un paio—ma non ne ho mai trovate di spedite. Voglio credere che non tutte le cartoline si possano spedire. Ma d'altra parte so che negli Stati Uniti c'è chi si mandava cartoline di minacce, quindi sono io che sono un po' ingenuo.

Foto di K. Krajewski.

Ci sono ancora cartoline in vendita ad Auschwitz?
Certo che sì. Se vai lì oggi, ne troverai ovunque. Non so quanto costino ma poco—come in tutti gli altri posti turistici.

Grazie, Paweł.

Segui la nuova pagina Facebook di VICE Italia: