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Stagista per una startup: sei mesi della mia vita con un mucchio di stronzi

Ora so di preferire un capo autoritario ma capace di mantenere le distanze, piuttosto che un capo che mi dà una pacca sulla spalla mentre con l'altra mano prepara il tubetto di vaselina.

Pensateci un attimo: l'informazione mainstream non ha che belle parole per le startup. Sono innovative, giovani, moderne, anche se ce ne sono talmente tante—se non direttamente troppe—che non è nemmeno più possibile darne una definizione univoca. Io ci sono passato, ma il bilancio che ne ho tratto è tutt'altro che positivo.

La Francia ha enorme concentrazione di startup, e alla fine della laurea specialistica sono stato preso per uno stage all'interno di uno di questi miracoli della nostra epoca. A sentire i discorsi che mi avevano fatto durante il colloquio, sarebbe stato un lavoro esigente ma formativo, in un contesto piccolo ma determinato a responsabilizzare fin da subito gli stagisti. In cambio di impegno e dedizione sarei potuto entrare a far parte di quella giovane e meravigliosa famiglia di trentenni pronti a condividere con me il loro sapere.

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Ho iniziato a settembre. Ero appena tornato da un viaggio in giro per l'Eropa e non vedevo l'ora di potermi mettere alla prova. Per un po' le cose sono andate benissimo. Eravamo in quattro: i due fondatori, un dipendente e uno stagista, tutti a tempo pieno. Saltuariamente, e solo in determinate occasioni, a questi si aggiungeva il personale supplementare. All'epoca la startup era nata da meno di uno anno e i ritmi erano particolarmente sostenuti, tanto che io cominciai fin da subito con le mie 13 ore al giorno.

Eppure anche oggi, a qualche anno di distanza, avrei difficoltà a dire in cosa consisteva il lavoro. Ci rivolgevamo parallelamente a vendita e servizi, e tutto ruotava intorno a un prodotto specifico che richiedeva un lavoro continuo di logistica e documentazione—senza quello sarebbe stato difficile anche solo fornire consulenza al cliente e convincerlo ad acquistare. Mi ero adattato in fretta. Facevo di tutto, a seconda di ciò che serviva: un po' di lavoro giuridico e amministrativo, la gestione di qualche progetto, scrivevo, mi relazionavo col cliente. In quel momento tutta questa varietà di consegne mi appariva come una valida alterativa per non annoiarmi mai. Del resto, mi sentivo anche valorizzato. Certo, prendevo il minimo, ma—mi dicevo—quanto contano i soldi quando hai la stima dei tuoi colleghi e credi in ciò che fai?

Ero tanto ingenuo quanto privo di esperienze. Si parla tanto di queste generazioni Y e Z incapaci e svogliate per natura, ma per me era tutto il contrario. Il sentimento dominante era l'angoscia, la paura di non avere altre scelte se non quella di fare, giorno dopo giorno, un lavoro che ti fa soltanto venire voglia di scappare. Ci sono persone disposte a lavorare più che sodo per non arrivare a tanto, e ci sono fior fior di aziende che lucrano su questa situazione con più o meno ipocrisia.

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Le cose hanno iniziato a peggiorare quando la startup ha avuto la possibilità di assumere altri stagisti. Eravamo in tre, ovvero il 50 percento del personale fisso. L'equilibrio già fragile che caratterizzava quell'ambiente, un ambiente dove lo spirito di squadra e la solidarietà facevano da contrappeso a carichi di lavoro ingenti, ha iniziato sempre più a vacillare.

Sono arrivato a lavorare tra le 40 e le 60 ore a settimana con uno stipendio che mi permetteva a malapena di fare un pasto al giorno. Nel frattempo le attività stimolanti che avevano caratterizzato il primo periodo erano sempre più rare, e servivano un po' come carote da alternare al bastone delle mansioni più dure.

I soldi alla società però non mancavano. E se in teoria i miei superiori erano sempre quei trentenni appassionati, avventurieri moderni, depositari di valori e fautori della democratizzazione del prodotto, nella pratica si erano abituati a essere serviti e riveriti. Uno dei fondatori, per esempio, sprofondato nella sua poltrona, aveva l'abitudine di chiedere allo stagista di turno di andargli a prendere la sua penna preferita per poter firmare il contratto. Un altro si rifiutava di scendere in magazzino—"si gela lì sotto"—per insegnarci a sbrigare alcune faccende tecniche. "Vedetevela da soli, anche a costo di metterci due ore anziché cinque minuti. Dovete imparare, no?"

Ovunque passassero, si lasciavano dietro tazze sporche e cartacce. Certo, lavoravano tutti e tanto. Ma non era raro che esigessero la nostra presenza ben oltre il limite legale di ore, e sempre con le solite tre scuse. "Siamo una realtà piccola in un mare di squali!" "Quando ero io al tuo posto non passavo il tempo a contare le ore in ufficio!" o ancora "Sai quante ore dormo io la notte?" Non c'era modo di controbattere. Eravamo in scacco, perché la società non era nostra e noi non eravamo che pedine continuamente rimpiazzabili.

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Questa retorica si rivelava del resto in tutta la sua ipocrisia quando, al minimo errore, venivamo messi alla berlina, "perché siamo una realtà piccola e non possiamo permetterci cazzate." Noi eravamo sempre i piccoli, quelli che avevano ancora tanta strada da fare, quelli che avrebbero dovuto ringraziare dell'occasione e portare a casa. Con gli errori dei grandi valeva tutto un altro discorso, e anche i loro problemi personali venivano trattati con una reverenza piagnucolosa lontana anni luce dai toni sbrigativi e dalle informazioni col contagocce che ricevevamo.

La cosa più difficile da mandare giù, però, era il meccanismo con cui gli stagisti venivano tenuti in seno alla società. C'erano riconoscimenti occasionali, momenti in cui ti sentivi importante, veri e propri schiocchi di dita che ti facevano sentire qualcuno dopo giorni di inferno. Era frustrante, e terribilmente efficace. Ogni qualvolta riappariva dal nulla la dimensione di "famiglia" e di solidarietà, c'era un reset. Almeno finché non ti rendevi conto che si trattava di una logica completamente unilaterale. Il superiore che decide di diventare il tuo migliore amico in un periodo specifico non ti permetterà mai di riservargli la stessa confidenza che lui usa con te. Ti racconta tutte le sue storie e ti interroga suoi tuoi match di Tinder, ma ti guarda con disprezzo quando tu provi a fare lo stesso.

Per prendere distanza da questo rapporto potenzialmente malsano bisogna aspettare l'arrivo di punti di non ritorno. Giornate in cui avevamo passato ore a svuotare la stanza e prepararla per una conferenza o un aperitivo, ed eravamo rimasti anche dopo l'orario di lavoro a servire champagne ai clienti. Non erano tanto gli orari assurdi o la noiosità di quei compiti a farti dire basta; nel mio caso, la trasformazione era iniziata con una mail inviata a tutti i componenti dell'ufficio per ringraziarli dell'organizzazione impeccabile dell'evento—a tutti i colleghi tranne gli stagisti.

Il momento in cui ho promesso a me stesso che li avrei mandati al più presto al diavolo è arrivato invece dopo l'ennesimo discorso sull'importanza della puntualità pronunciato da persone che facevano del ritardo una cifra stilistica. Eravamo rimasti mezzora fuori dall'ufficio perché nessuno aveva le chiavi, e alla fine ovviamente nessuno si era scusato. Accortisi di aver esagerato, però, ci avevano fatto un discorso in cui si dicevano consapevoli della mole di lavoro richiesta, e promettevano un giorno di riposo extra nel corso della settimana successiva. E di nuovo, il meccanismo di cui sopra: ci era sembrata una cosa meravigliosa. Almeno finché non ci siamo accorti di esserci cascati un'altra volta.

Nonostante tutto, uno dei miei colleghi stagisti era riuscito a farsi assumere. Ero molto felice, ma quello significava anche che il posto era già preso, e che di lì a poco non ce ne sarebbe sicuramente stato un altro. Ora so di preferire un capo autoritario ma capace di mantenere le distanze, piuttosto che un capo che mi dà una pacca sulla spalla mentre con l'altra mano prepara il tubetto di vaselina. Non voglio un lavoro che capitalizza sui miei ideali, le mie passioni e i miei sentimenti per poi mettermi con le spalle al muro. Quando me ne sono andato, ne sono uscito in uno stato ben più deplorevole di quando c'ero entrato: ero agguerrito, senza dubbio, ma anche profondamente amareggiato.

A tal proposito, ho un messaggio per tutti gli stagisti: fatevi strada da soli, perché nessuno vi terrà la porta aperta. Non lasciatevi succhiare via tutto senza ottenere qualcosa di concreto in cambio, perché—e qui cito i miei ex superiori—"tutto è negoziabile." Hanno palesemente bisogno di voi, perciò non c'è affatto bisogno di dire di sì a tutto. Badate a voi stessi, e fate il possibile per farvi valere.

Quanto a me, per un po' sono rimasto in rapporti con la startup. Facevo dei lavoretti occasionali, in nero, giusto per qualche soldo in più. Almeno finché non mi hanno detto che non avevano più bisogno di me. Sempre con classe, ovviamente: "Sai, ora siamo una realtà affermata… capisci?"