Perché a Milano ci sono così tanti bar cinesi

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Perché a Milano ci sono così tanti bar cinesi

I bar cinesi in Italia hanno sempre attirato ogni tipo di leggenda popolare. Per vedere se queste siano vere o false, ho deciso di andare in giro per i bar di Milano a farmi raccontare le storie dei loro gestori.

Nell'immaginario collettivo italiano, i bar gestiti dai cinesi sono da sempre oggetto di leggende popolari di vario tipo. Per accorgersene basta cercare su Google "bar cinesi Milano" e scorrere i risultati. In questo modo ho scoperto che i bar sono un avamposto per la colonizzazione dell'Italia, ma anche uno stratagemma per riciclare denaro sporco o un paravento per attività assai poco legali. La mia confusione è aumentata quando ho scoperto una teoria ancora più affascinante: parla di un emissario dell'ambasciata cinese che gira per le città italiane con una valigetta piena di soldi e compra locali su locali per i connazionali.

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Quasi tutte queste dicerie nascono da fatti reali, che vengono però amplificati e generalizzati a dismisura. Stando alle cronache locali, è vero che in alcuni casi i nuovi proprietari cinesi hanno comprato il bar in contanti; così come è vero che ci sono stati casi di evasione fiscale o tentativi di corruzione per eludere la burocrazia. Si tratta di casi singoli, che non riguardano tutti i 260mila cinesi residenti in Italia. Senza contare il fatto, inoltre, che non si tratta di reati commessi esclusivamente dalla comunità cinese.

Siccome volevo conoscere da vicino questa realtà, però, ho deciso di cercare qualche barista cinese residente a Milano che mi volesse raccontare la sua storia.

Il giorno preposto per l'esperimento è un feriale, e il metodo che ho in mente è molto semplice: entro, prendo un caffè e chiedo di parlare col titolare. In teoria un piano infallibile, nella pratica molto meno. Infatti in due ore ricevo solo cortesi ma fermi "No, grazie." Così, di rifiuto in rifiuto, arrivo fino a un piccolo bar––due vetrine fra una parrucchiera e una gelateria e un nome invitante: La Siesta ––in piazza Santissima Trinità, una conca di cemento fra la zona Sarpi-Canonica (più nota come Chinatown) e l'arco della Pace.

Mi accoglie una ragazza sui diciotto anni, a cui ordino un caffè e chiedo di poter parlare con il proprietario. Dentro, il bar sembra ancora più piccolo: un grosso bancone monopolizza quasi tutta la sala, e il resto è occupato dai tavolini e da un divanetto. Al muro è attaccata una rastrelliera piena di bottiglie di vino e un quadro con le foto delle star passate da qui. Sono tutte italiane, ma riconosco solo Irene Grandi.

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Dopo un paio di minuti arriva Lifang, il proprietario. È un uomo sui trent'anni, con una camicia a maniche corte che lo fa assomigliare a un predicatore americano. Mi accoglie con cordialità, ma quando gli dico che vorrei intervistarlo rimane dubbioso per alcuni secondi. Alla fine accetta, anche grazie all'intercessione di una cliente che gli spiega cos'è VICE. Ci sediamo, io bevo il mio caffè e lui mi racconta la sua storia.

Il suo nome completo è Hu Lifang, ha 38 anni e viene da Wenzhou, una città nella provincia di Zhejiang, " quella da cui vengono quasi tutti i cinesi in Italia." Non parla benissimo la nostra lingua ma riesce comunque a farsi capire. Il primo membro della sua famiglia ad arrivare a Milano è stato un prozio partito nel 1920 e morto nel 1945, di cui, mi spiega con un certo orgoglio, lui e suoi parenti hanno ritrovato la tomba.

Lifang invece è emigrato in Italia nel 2000: "Quando sono arrivato ho iniziato a lavorare in una fabbrica di vernici," racconta. "Allora non conoscevo la lingua e per impararla ho frequentato la scuola serale. Due anni dopo ho fatto il cameriere nel ristorante di mia sorella e nel 2009, chiedendo l'aiuto dei parenti, ho aperto questo bar. Prima era una piadineria ma i proprietari non ce la facevano più, quindi l'ho potuto acquistare con poco".

La conduzione è familiare: sono lui e sua moglie Wej Zhao, più ogni tanto la ragazza che ho visto al bancone. È sua nipote e passa nel bar "un paio d'ore al giorno per fare esperienza, ora che la scuola è finita." Non so se il suo modello di business funzioni; suppongo di sì, visto che è ancora aperto. In questi anni, Lifang ha frequentato anche un corso da sommelier e ora offre vini ai suoi clienti. Quando gli chiedo quale preferisce mi risponde laconico––"quello che non sa di tappo"––per poi lanciarsi in una lunga disquisizione che arriva all'arte italiana. Non sono sicuro di capire tutto ma apprezzo l'entusiasmo.

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La nostra conversazione è interrotta dall'arrivo dei clienti: in meno di dieci minuti si alza tre volte per occuparsi delle persone che entrano. Sono quasi tutti clienti abituali, gente che abita nel quartiere, che probabilmente ha iniziato a venire qui per i prezzi bassi e alla fine ci è rimasta.

Lo deduco da come scherzano con Lifang, a cui chiedono notizie della moglie. Lei è nel retro, e per chiamarla lui usa una frase in dialetto milanese. Intanto un cliente ha dimenticato il portafoglio a casa ma promette che tornerà più tardi coi soldi e un gruppo di signore anziane si ferma per pranzo; ordinano del vino bianco e scherzano fra di loro, rumorosamente. Nessuno sembra preoccupato da una possibile invasione cinese attraverso i baristi.

In fondo, per quale motivo dovrebbero essere ostili? Il rapporto fra Milano e i cinesi è di vecchia data. I primi cinesi in Italia sono arrivati proprio qui, in via Canova angolo via Paolo Sarpi, a pochi isolati dal bar di Lifang. Il cognome Hu è il secondo più diffuso in città, Chen il sesto e Zhou il nono.

A Milano, inoltre, i bar a gestione cinese sono passati dai 122 del 2005 ai circa 530 del 2013 (un aumento del 335 percento), sono sempre aperti e fanno prezzi un pochino più bassi del normale. Eppure, appena i cinesi investono in qualcos'altro che non siano ristoranti, si scatena l'isteria contro il "pericolo giallo" e si parla di presunti piani di conquista della Triade, la mafia cinese.

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Per capirci di più, dunque, ho chiesto aiuto a Francesco Wu, referente lombardo di Associna, l'associazione di seconde generazioni italo-cinesi. "La mafia cinese non c'entra niente, anche perché si tratta di investimenti piccoli," mi spiega con la pazienza di chi ha sentito queste storie molte volte. "Molto semplicemente, il bar è un buon affare per una famiglia che ha un piccolo capitale da parte. Si tratta di un'attività relativamente facile da gestire, basta saper fare un buon caffè e conoscere quattro parole di italiano. E poi rilevarlo costa poco: lasci come anticipo il 30-40 percento del prezzo, e il resto si paga in cambiali."

Per Wu, il successo dei bar dei suoi connazionali è anche una questione di maggiore impegno: "I cinesi comprano perché qualcuno vende. Ma perché vendono? Perchè i figli non vogliono fare i sacrifici dei genitori. Il bar è un lavoro da 12-13 ore al giorno, e quelli cinesi rimangono in piedi perché i proprietari lavorano il doppio, sono più competitivi. Assumono una persona in meno e risparmiano circa 30mila euro all'anno."

Grazie a Francesco Wu ottengo il contatto di un altro bar, il Chinese Box. In linea d'aria non è molto lontano da quello di Lifang, ma è come se fossero distanti milioni di chilometri. È ora di pranzo e corso Garibaldi è popolato da impiegati in pausa, turisti asiatici e qualche sparuto residente. In quanto al bar, non lo trovo immediatamente perché mi aspettavo il classico bar cinese––piccolo e arredato con pannelli di legno.

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Invece mi trovo davanti a un locale di circa 90 mq arredato come un american bar , con un lungo bancone e molto metallo. Capisco che sono nel posto giusto solo quando mi rendo conto che il personale è asiatico. Il proprietario mi ha dato appuntamento per pranzo, si chiama Luca Hu, è un uomo di 35 anni dal fisico asciutto coi capelli tagliati corti che gli danno un aria da ragazzino.

Hu è nato in Cina ma è arrivato in Italia quando era ancora piccolo. Qui, mi spiega, "ho iniziato a lavorare da molto giovane perché non avevo la possibilità di studiare, per lo meno non quello che volevo io. All'inizio facevo il garzone e mentre lavoravo ho messo via i soldi, a 20 anni avevo risparmiato 70 milioni di lire e insieme a mio fratello abbiamo aperto un barettino facendoci prestare soldi da amici e parenti. All'inizio non avevamo ancora la capacità tecnica di vendere un prodotto giusto. Allora per tre anni ci siamo messi a studiare come fare, siamo anche andati a lavorare da altre parti e quando siamo tornati abbiamo iniziato ad aprire di sera."

Luca Hu nel suo bar.

Mentre un cameriere ci porta quello che abbiamo ordinato (un piatto di spaghetti all'amatriciana per me e un panino per lui) ne approfitto per chiedergli da dove arrivano i capitali cinesi per aprire un bar o un ristorante. "La grande forza dei cinesi è essere solidali fra di loro," spiega Hu. "Provenendo quasi tutti dalla stessa zona ci sono delle conoscenze ramificate. E così, quando si va a chiedere dei prestiti ci si basa sulla fiducia che ispira il proprio nome. Ad esempio io, quando ho aperto il baretto, mi sono fatto prestare 50 milioni di vecchie lire da un amico di mio padre."

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Quando gli chiedo il motivo per cui ci sono tanti bar cinesi, Luca Hu mi dà una spiegazione che non mi aspettavo. "Il motivo del boom è molto semplice: le macchinette. Un bar dove fai solo caffetteria è facile da gestire, non hai un guadagno molto alto. Ma siccome si potevano mettere i videopoker avevi un ulteriore introito netto. Era questo che faceva andare avanti molti bar."

Hu ha preferito scegliere un'altra strada e il suo bar è stato, spiega con una punta d'orgoglio, il primo "cocktail bar cinese di Milano." La sua esperienza è simile a quella di molti altri che appartengono alla seconda generazione italo-cinese. Persone cresciute o direttamente nate in Italia che stanno creando imprese che non sono "cinesi" come lo intendiamo noi italiani. Non a caso, al Chinese Box cucina e cuoco sono italiani; i capitali per partire, e gran parte del personale, sono invece cinesi.

Oggi Luca e suo fratello hanno 11 dipendenti fissi e due part time, e il bar è passato da 20 mq ai 90 di oggi. Ma, ci tiene a specificare Hu, la gestione è sempre familiare: "Siamo io, mio fratello, la sorella di mia moglie e in passato ha lavorato qui anche mio cugino." Anche l'etica del lavoro è cinese perché, continua Hu, "se prima di pensare ai soldi pensi alle ferie allora non vai da nessuna parte." Nel frattempo si è fatto tardi, ho finito il pranzo, ordino un caffè alla cameriera cinese e saluto Luca.

Ho un ultimo bar da visitare, e per arrivarci devo attraversare tutta Milano. Sono a Sesto San Giovanni: via Puccini è una strada stretta, da un lato c'è una chiesa e dall'altro una serie di palazzi a un piano risalenti agli anni Sessanta. I negozi sono tutti sul lato sinistro della strada, sotto un lungo porticato. Il bar che sto cercando è al fondo della via, di fianco a una pizzeria da asporto.

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L'interno è piuttosto luminoso, ci sono tavolini in formica rossi, un lungo bancone con un televisore spento e una serie di videopoker che occupano una parete del locale. Appoggiato a uno dei tavolini, un piccolo ventilatore cerca invano di combattere il caldo che arriva dalla porta aperta. Ai muri ci sono numerosi trofei calcistici. Alcuni anziani che prendono un Crodino, e una ragazza con un vistoso tatuaggio tribale sulla schiena beve un caffè.

Come ogni barista che si rispetti, Rong Yi Lu è dietro il bancone. Mi metto educatamente in coda dietro una signora dai capelli biondo ossigenato che sta pagando, e quando è il mio turno mi presento.

Rong è un uomo di 55 anni dai capelli brizzolati che indossa una polo azzurra. Fra tutti i baristi cinesi che ho conosciuto è il più anziano, oltre che quello che è nel nostro paese da più tempo. "Saranno trent'anni precisi il dieci agosto," puntualizza. "Sono arrivato in Italia da Parigi perché volevo imparare la lingua e ho trovato lavoro come lavapiatti."

Da allora non si è più spostato: "Nell'89 ho aperto un ristorante a Milano, in viale Monza, ma poi nel 1992 è scoppiato Mani Pulite, c'è stata la crisi e l'ho venduto perché non c'erano più clienti. Dopo sono andato a Genova e ho aperto un altro ristorante vicino allo stadio Marassi, però quando sono arrivato il Genova è retrocesso e c'era meno lavoro. Così sono tornato in Lombardia e nel 1997 ho aperto questo bar. Sono stato il primo cinese ad avere aperto un bar, scrivilo."

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Rispetto a quando è arrivato, mi racconta, è cambiato tutto. "Quando sono arrivato aveva appena chiuso lo stabilimento Falk. Prima c'erano gli operai, adesso tutto è diverso. Di dieci persone che sono entrate oggi almeno due o tre erano senza lavoro. Negli ultimi tre anni la situazione è peggiorata perché la gente non arriva a fine mese ed è difficile che vada al bar." Tanto che, mi spiega, "adesso anche molti cinesi non vogliono più i bar che hanno comprato, ma non riescono a rivenderli, perché con la crisi hanno perso di valore."

Mentre parliamo arriva anche Lupo, il fotografo, e scopriamo di essere diventati l'attrazione del locale. Il gruppo di anziani che stava bevendo un Crodino si avvicina e inizia a interferire con la nostra conversazione. Sono quasi tutti ex operai delle fabbriche di Sesto San Giovanni e nessuno di loro ha idea di cosa sia VICE, ma sono colpiti dal fatto che ci siano un giornalista e un fotografo. Qualcuno inizia a ricordare quella volta che sono passate le Iene.

Attacco bottone con il signor Tommaso, un ex installatore di impianti elettrici, vestito con una camicia a righe colorata aperta al terzo bottone, che inizia raccontandomi della sua pensione di "soli 1200 euro dopo quarant'anni di lavoro," per poi deviare verso "i comunisti che a Sesto si sono arricchiti" e i comunisti (sempre loro) che "all'università chiedevano il 36 politico." Non so bene come rispondere e mi limito ad annuire, ma Rong zittisce il suo cliente con un paio di urli.

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Calmato il signor Tommaso, riprende il suo discorso partendo dalle origini. "Quando abbiamo aperto il bar c'era una certa diffidenza, ma col tempo mi sono fatto conoscere. In un bar lavori tanto e guadagni poco. Io lavoro quattordici ore e e sono da solo perché non posso permettermi un'altra persona."

Da qualche tempo, però, ha ridotto gli orari. "La colpa è dei videopoker," mi spiega. "Quelli che giocano sono quasi sempre persone senza lavoro, e quando perdono si arrabbiano con me. Io però non c'entro nulla, ci guadagno pochissimo. Gran parte dei soldi va allo Stato. Però qualcuno ha addirittura alzato le mani. Così adesso tengo aperto solo fino alle 9, perché dopo le persone per bene sono a casa con la famiglia, solo i poco di buono sono ancora per strada. Prima tenevo aperto fino a mezzanotte-l'una."

Non so se sia perché ha lavorato vicino ad uno stadio, ma negli anni Rong ha sviluppato una forte passione per il calcio. Tanto da fondare, assieme ad altri soci, una squadra: la Sesto 2012. "Abbiamo fondato la squadra perchè ci piace lo sport. Io ho fatto il presidente e mi sono occupato di trovare gli sponsor. Oggi abbiamo 300 ragazzi."

Quando parla della squadra, Ru è un fiume in piena: "Io non sono come Berlusconi, non sono miliardario. Io ho pochi soldi ma voglio fare lo stesso qualcosa per il calcio italiano." La squadra va bene, come dimostrano i numerosi trofei all'interno del bar, e Rong ha anche lanciato un gemellaggio con la squadra di Whenzou, oltre a farsi garante di un prestito per realizzare un nuovo centro sportivo.

Prendo la metro in direzione opposta e torno verso casa per scrivere l'articolo. A ben vedere, come ho avuto modo di capire durante la giornata, l'aumento esponenziale dei bar a conduzione cinese è un fatto decisamente più economico che "culturale."

Rilevare e gestire un bar è un investimento relativamente agevole per chi dispone di un capitale minimo iniziale, ha accesso al credito e può anche contare sulla rete di solidarietà della comunità d'appartenza. E visto che parliamo comunque di affari, è chiaro che––anche se il discorso vale per qualsiasi altro tipo di attività––possono esserci infiltrazioni della criminalità organizzata.

Da anni si ripete che i cinesi si stanno comprando l'Italia––sia a livello di grandi società, che nell'ambito del piccolo commercio. Insomma, probabilmente le leggende su bar cinesi ed emissari della Triade continueranno a circolare; ma finché i vecchi gestori italiani continueranno a vendere, è certo che tra gli acquirenti ci saranno anche loro.

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