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La Tijuana di Ricardo Silva somiglia molto all'apocalisse

Anzi: nel suo ultimo documentario, Navajazo, la troviamo davvero in un'apocalisse immaginaria, fatta di migranti, drogati, ladri, orfani e prostitute accomunati dalla lotta per la sopravvivenza lungo la frontiera.

Quest'intervista è comparsa su VICE Messico. La traduzione è di Marì Alberione, mentre il documentario in oggetto, Navajazo, è in concorso in questi giorni al Milano Film Festival. La proiezione in anteprima italiana è prevista per questa sera, alle 22.

Il cinema di Ricardo Silva ti provoca come uno sputo in faccia. O come una ferita che non si può rimarginare, dice lui. Un cinema che documenta per enunciare una fictionverità socialmente elusa. È questo ibrido che lo colloca in un luogo etico liminale, per non dire scivoloso. Silva lo chiama “etnofiction”: porre parametri prestabiliti (artificiali, fittizi) su una realtà per generare l’inaspettato, il vero.

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Così va inteso Navajazo, il suo ultimo documentario. Navajazo, dice la sinossi, è "un’apocalisse immaginaria che ci viene presentata attraverso ritratti di personaggi che lottano per sopravvivere in un ambiente ostile, dove non hanno che se stessi e la sola cosa che hanno in comune è il desiderio di continuare a vivere, costi quel che costi.”

VICE: Passi continuamente dal documentario alla finzione e viceversa. Hai avuto problemi da questo punto di vista con le persone che appaiono nel tuo lavoro?
Ricardo Silva: I problemi non sembrano finire mai quando ti destreggi in queste circostanze: attori che non vogliono più lavorare con me, minacce e qualche rapina a mano armata. Alcuni di questi problemi nascono perché a volte queste persone non hanno veri lavori fissi. È difficile mettersi d’accordo con loro, e ancora meno ovviamente quando conti su un budget di 2000 dollari per tutto il film. Una volta abbiamo preso una stanza d’albergo per un casting porno. Era tutto pronto, ma uno dei nostri intervistati aveva nella borsa una grande quantità di metanfetamine. La faccenda si è conclusa con una piccola retata in cui siamo finiti tutti in carcere e abbiamo dovuto pagare una cospicua cauzione. Non sai mai cosa può succedere durante le riprese, però succede sempre qualcosa di magico. Sì, siamo responsabili di ciò che capita quando siamo lì: overdose, tutto ciò che succede… Dobbiamo stare pronti.

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Cos’è la “etnofiction” e da dove viene?
Viene dall’essere stufo di vedere come vengono trattati i soggetti di un documentario—siano essi emarginati dalla società o un’etnia nel mezzo dell’Amazzonia—: come buoni selvaggi, in nome di una supposta obiettività. Vengono trattati come ritardati mentali. “Etnofiction” unisce l’etnografia e la finzione. In realtà ho preso questo termine da un autore che ho letto in passato: Martin Lienhard. La etnofiction, dice Lienhard, "è la ricreazione letteraria del discorso dell’altro, la costruzione di un discorso etnico artificiale… L’autore, nell’etnofiction, si mette la maschera dell’altro." Questo mi ha portato a pensare alla libertà, a pensare che lo spettatore non sa dove lo sto portando.

Cos’hai fatto prima di Navajazo come regista e come descriveresti i tuoi progetti?
Ho realizzato dei progetti da solo a Tijuana, alcuni cortometraggi e un paio di documentari. Alcuni di questi lavori li ho fatti con ricercatori di scienze sociali del Colef [Colegio de la Frontera Norte], visto che studio sociologia e non posso allontanarmi da questi temi. Ho fatto cose sul diavolo, sulla trasformazione sessuale, sulle droghe, ritratti di ciò che stavo osservando nel corso della mia vita.

Che cambiamenti ha subito il progetto originale nel corso della realizzazione?
Il lavoro con la sceneggiatrice Julia Pastrana è stato fondamentale. Nei cortometraggi precedenti mi piaceva credere che sapevo di cosa stavo parlando. Dopo mi sono reso conto che il film semplicemente si riduceva al problema di sopravvivere.

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Perché questo titolo?
Il “navajazo” è la ferita che non si rimargina mai, è senza possibilità di guarigione. Forse potrebbe guarire, se solo smettessimo di strapparci costantemente la crosta. Tutti i personaggi sono stati feriti e il semplice fatto di mostrare che sopravvivono e che lottano ti dà un’idea che ci sono molti tagli in loro, che la mia macchina da presa si limita a registrare; cioè, io tolgo le croste affinché sanguinino di più. Però, per me, il “navajazo” ha a che fare con un momento particolare per loro, per esempio: l’11 settembre ha provocato deportazioni massicce di messicani che non parlano spagnolo, assassini,spacciatori, che iniziano una nuova vita. Anche i tagli alle spese nelle carceri californiane hanno contribuito all'arrivo di questi personaggi. E non sono soltanto arrivati loro fisicamente: hanno portato un nuovo paradigma di vita, un’idea di come sopravvivere. D’altro canto, ci sono personaggi che compaiono nel film che non sono nemmeno mai stati negli Stati Uniti, ma stanno negli spazi in cui loro si muovono e sono stati contagiati in qualche modo da questi “navajazo”.

Navajazo presenta una variegata galleria di personaggi: da un attore di pellicole amatorialia tossicodipendenti, un collezionista di giocattoli, un vecchio satanista che fa musica su una tastiera Casio e via dicendo. Cos’hanno in comune tutti questi casi?
Nella cornice di un’apocalisse immaginaria, sono tutti sopravvissuti. Sono persone disposte a fare ciò che è necessario per sopravvivere.È facile riprendere i tossicodipendenti, sistemi la macchina da presa e ti daranno qualcosa. Non sono né il primo né l’ultimo a farlo. La questione è come far sì che il tutto abbia un sapore reale. Questo succede nel montaggio o con il lavoro di persone come Adrián Durazo, il mio direttore della fotografia, o Paulina Valencia, la mia produttrice. È questo che hanno in comune i personaggi: il lavoro che si fa, lo spazio, la loro relazione con i “navajazo” o l’“essere navajazo”.

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In varie parti di Navajazo si sentono suoni strani che  nei sottotitoli in spagnolo sono “tradotti” con un linguaggio molto diretto e crudo. Secondo te, chi (o cosa) parla in quei casi?
Sono tutti quelli che compaiono nel film ed è la loro particolare forma di dire che saranno sempre lì: migranti, drogati, ladri, orfani, prostitute, tutti sono nelle voci. In qualche caso i suoni sono di insetti, qualche cane o semplicemente spauracchi di morte presi dall’ospedale generale di Tijuana. Cercavamo una voce che unificasse tutti, mostrare che il lamento è eterno, come questa lotta di classe o semplicemente pensare alle promesse del linguaggio che a loro non è mai arrivato.

L’apocalisse, Dio, Lucifero, fantasmi, luce… Perché tante metafore religiose nel film?
Non sono metafore. Sono allusioni dirette che nascono da una profonda disillusione di fronte alla figura paterna di un dio che ha promesso di prendersi cura, amare e guidare i suoi figli. È il lamento di una sfera di orfani che si sono resi conti che il padre è un drogato irresponsabile.

Come hai deciso di scegliere Albert Pla per la colonna sonora del film?
Dopo aver visto lo spettacolo di Mata Cerdos a Tijuana, sei anni fa, la sua musica mi è rimasta in testa. Ho trovato alcune ninnananne che aveva inciso e allora ho iniziato a vedere le cose in modo diverso. Forse lui ha fatto gran parte di questo film.

Per maggiori informazioni sulla proiezione al Milano Film Festival, vai qui.