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Perché a nessuno frega niente degli stupri di guerra

Gli stupri sono ufficialmente un crimine di guerra e contro l'umanità, ma i casi in cui vengono puniti sono rarissimi. Ne abbiamo parlato con le registe di "La linea sottile", documentario che tratta di violenze di guerra in ex Jugoslavia e Somalia.

Tutte le immagini per gentile concessione de La linea sottile.

Prima che mi parlassero del documentario La linea sottile non avevo mai realmente pensato al problema delle vittime degli stupri in guerra. E questo non perché sia particolarmente disinformata, ma perché è un tema che non viene affrontato così spesso.

Lo stupro perpetrato da militari è considerato crimine di guerra fin dal 1949 con la Quarta convenzione di Ginevra, e crimine contro l'umanità dallo Statuto di Roma. Tuttavia, dal momento che è considerato un crimine "secondario" rispetto agli omicidi e alle torture e che spesso nel momento in cui la guerra finisce le vittime sono troppo traumatizzate per parlarne o non sono in grado di fornire prove di quanto subito, i condannati per questi crimini si contano sulle dita di una mano (nel caso della guerra in ex Jugoslavia sono tre)—mentre non devo ricordarvi che le guerre sono decisamente di più.

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In La linea sottile , presentato in anteprima al festival Visioni dal Mondo e in uscita questa primavera, le registe Paola Sangiovanni e Nina Mimica affrontano l'argomento rispetto a due avvenimenti degli anni Novanta: la guerra in ex Jugoslavia e la missione di pace italiana in Somalia. Attraverso le confessioni di un ex militare del contingente di pace italiano in Somalia e di Bakira Hasečić, donna bosniaca stuprata ripetutamente da Milan Lukić e dai suoi uomini e in seguito fondatrice dell'Associazione donne vittime di guerra—che cerca di ottenere giustizia sui carnefici—il documentario si interroga sulla genesi di questa violenza. Ho contattato le registe per parlare di stupri di guerra, della pacificazione della Bosnia ed Erzegovina e della cultura in cui viviamo.

VICE: In La linea sottile raccontate due storie—o meglio, la stessa storia da due punti di vista opposti: quello del soldato che perpetra la violenza e quello delle donne vittime della violenza. Perché questa scelta?
Paola Sangiovanni: La tematica di fondo è la violenza. Abbiamo scelto di lavorare anche su un punto di vista maschile seguendo una storia che parla della genesi della violenza all'interno di un sistema valoriale e culturale. È la stessa cultura che sottende la nostra società.

Perché vi siete concentrate sugli stupri di guerra proprio in ex Jugoslavia?
Nina Mimica: Gli stupri di guerra accompagnano tutta la storia umana, ma due fattori hanno reso la Bosnia "un caso" in materia: il primo è che molte delle vittime, sia uomini che donne, per la prima volta hanno rotto il tabù e hanno parlato della violenza subita esponendosi così a uno stigma che li accompagnerà per tutta la vita. Il secondo motivo è che i media occidentali per la prima volta si sono interessati ai fatti—forse proprio perché queste violenze, mutilazioni e omicidi avvenivano nel cuore d'Europa.

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Bakira Hasečić è il personaggio in qualche modo centrale del vostro racconto. Come siete entrate in contatto con lei, e di cosa si occupa l'Associazione donne vittime di guerra?
N.M.: Bakira viveva a Višegrad, una cittadina bosniaca vicina al confine con la Serbia. Nel 1992 la cittadina è stata occupata dalle forze serbe che hanno messo in atto stupri seriali in cui anche lei, come musulmana, è stata coinvolta ufficialmente [Nonostante l'efferatezza e la sistematicità dei crimini svoltisi, Višegrad non risulta sulla lista dei comuni bosniaci dove si è svolto il genocidio]. A quel punto è fuggita a Sarajevo con la famiglia. Pur profondamente segnata è stata una delle prima donne bosniache a parlare pubblicamente dell'accaduto. Visti gli effetti terapeutici che parlare aveva avuto su di lei, ha fondato l'associazione col fine di aiutare le donne e gli uomini stuprati a rilasciare le testimonianze ufficiali e raccogliere i fondi per avviare i processi contro gli stupratori.

La questione principale su cui si incentra il documentario è appunto che gli stupri di guerra nella quasi totalità dei casi non vengono puniti, anzi molto spesso vengono volontariamente "ignorati". Perché?
P.S.: Lo stupro è considerato un di più, un crimine da poco che non ha la stessa importanza degli altri. Per esempio il violentatore di Bakira Milan Lukić si è reso responsabile dell'omicidio di centinaia di persone, ma né lui né il suo gruppo hanno subito condanne per gli stupri. E il fatto che si tratti di una cosa avvenuta in Europa ci fa capire che è la nostra stessa cultura: Michele, il militare italiano che racconta la sua esperienza in Somalia, all'epoca dei fatti era un "bravo ragazzo" impossibilitato a capire il limite tra bene e male; nella storia che racconta la violenza sulle donne è l'ultimo step del processo di trasformazione dell'altro in non-umano.
N.M.: Anche se la convenzione di Ginevra ha dichiarato lo stupro di guerra un crimine di guerra, tale atto è sempre stato giuridicamente considerato solo un messaggio minaccioso per il nemico e un'aggressione alla proprietà dell'uomo (suo marito, padre, fratello, etnia). Solo nell'ultima decade del Ventesimo secolo la Corte penale internazionale ha restituito in piccola parte dignità alla donna, iniziando a condannare alcuni stupri.

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Mi pare che siano solo tre gli stupratori condannati per questo crimine al processo tenuto dalla Corte penale internazionale che ha seguito la guerra in Bosnia.
N.M.: Sì, all'Aja alcuni stupratori sono stati condannati, ma la maggior parte sono stati accusati solo per i crimini "maggiori". Il Tribunale tace sui motivi per cui gli stupri non sono stati considerati parte dell'accusa e noi possiamo solo tentare di indovinare il perché. Forse le difficoltà e le tempistiche dilatate nel raccogliere prove su stupri commessi anni prima? La fretta di dimostrare l'efficienza del Tribunale, espressa nelle numerose condanne per i crimini facilmente comprovabili? O i motivi politici di cui parlano le vittime obbligate dal Tribunale al silenzio?

Pensate che si sia trattato anche di un processo di annientamento della memoria a fini politici?
N.M.: Considera, al netto dell'incapacità del sistema giudiziario post-bellico, che la Bosnia è un paese diviso in due entità amministrative e territoriali che funzionano quasi come due stati diversi dove le leggi sono applicate in modo diverso e soprattutto diversi sono valori: chi è considerato criminale di guerra da una parte, dall'altra è considerato un eroe. La guerra non è finita davvero, è finita solo sulla carta quando a Dayton i presidenti delle nazioni in guerra hanno congelato le operazioni belliche—senza però capire chi era responsabile della guerra, o chi era la vittima. Per questo oggi in Bosnia ogni processo che riguarda la guerra è molto delicato, perché mina l'equilibrio precarissimo tra nazioni che continuano a convivere ignorando la verità su quello che gli era accaduto e dandosi le colpe a vicenda. In ballo ci sono anche interessi economici: se per esempio per la quantità e la sistematicità degli stupri si accusa l'esercito di uno stato di genocidio, il paese che ha commesso il genocidio dovrebbe risarcire materialmente l'altro paese… È nelle paranoie economiche che si arena la giustizia locale ed internazionale nei Balcani.

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Bakira

Hasečić, fondatrice dell'Associazione delle donne vittime di guerra, riscrive la parola "genocidio" sul monumento alla memoria di Višegrad dopo che le autorità l'hanno fatta cancellare.

Se però è possibile "dimenticare il passato" a livello istituzionale, non è possibile farlo nella memoria delle vittime, o nei luoghi. Mi riferisco per esempio al campo di stupro e tortura che le truppe serbe hanno stabilito nell'ex hotel Vilina Vlas di Višegrad. Eppure, oggi quell'albergo è aperto come se niente fosse.
N.M.: Quando nel 1992 le truppe paramilitari serbe hanno occupato Višegrad hanno posto il loro quartier generale nell'albergo. Quel luogo è rimasto tristemente famoso per tutta la guerra: chi veniva portato là per essere "interrogato" raramente tornava a casa, gli uomini venivano fucilati sulle rive della Drina, le donne venivano tenute imprigionate nell'hotel che era diventato una specie di bordello per i soldati. Più di 200 donne sono state stuprate, torturate e poi uccise lì. Solo due sono riuscite a sopravvivere. E oggi, l'hanno riaperto—ed è anche ben frequentato.

Lo stupro in quel contesto era uno strumento di pulizia etnica.
N.M.: Siccome serbi, bosniaci e croati vivevano insieme al momento dello scoppio della guerra la situazione è precipitata: ogni edificio, ogni strada erano pericolosi. La propaganda e le false notizie ufficiali hanno fatto il resto; gli uomini dovevano mostrare il proprio coraggio e l'adesione al gruppo uccidendo o stuprando pubblicamente i propri ex amici di etnia diversa. Era un atto iniziatico. È diventato poi uno strumento di pulizia bellica: se violentavano una donna e la lasciavano viva ma stigmatizzata dalla comunità costringevano la sua famiglia intera a trasferirsi altrove. Dunque con lo stupro di una sola donna "ripulivano" la città di quattro-cinque persone indesiderate.

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Michele, il militare italiano che nei primi anni Novanta ha partecipato alla missione di pace Ibis in Somalia e che rappresenta la controparte del documentario, racconta l'educazione in caserma basata sulla violenza—che in qualche modo diventa quasi normale, parte integrante del suo agire. Ma questo trigger basta a spiegarne il comportamento [a un certo punto nel film Michele racconta della violenza su una ragazza somala, legata a un mezzo blindato e violentata con un'arma cosparsa di marmellata]?
P.S.: No, il film ci porta a farci domande che restano senza risposta. Ma quello che vorremmo far passare è che questa è una violenza culturalmente molto più ampia della guerra.
N.M.: L'ambiente esterno è il trigger evidente della violenza, ma dell'ambiente interno, quello dell'anima, siamo responsabili personalmente e per questo possiamo ribellarci e scegliere i nostri valori. Come Michele in seguito e Bakira, che hanno deciso di denunciare i crimini e lottare affinché si sappia la verità.

Nel caso della missione di pace in Somalia, qualcuno ha pagato per questi crimini? Nel film il militare fa vedere le foto delle terribili azioni dei compagni, perciò non si può dire che non ci siano prove.
P.S.: Per tutta quella vicenda c'è stata solo una vera denuncia. Le torture nei confronti dei civili sono pratiche illegali ma in Somalia, come si vede nelle foto, erano all'ordine del giorno. Per esempio nell'episodio in cui a un uomo vengono applicati elettrodi attaccati alla batteria di un camion tutti i volti sono riconoscibili, eppure soltanto un ufficiale è stato condannato per alcuni mesi, prima che la condanna cadesse in prescrizione. Alla fine l'unico a pagare davvero per i fatti della Somalia è stato Hasni Omar Hassan, che era venuto in Italia proprio per testimoniare la sua esperienza come vittima di violenza di alcuni militari italiani e alla fine è stato incarcerato per il concorso nell'omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Innocente, ha fatto 16 anni di carcere come capro espiatorio. Per dirti che la macchina della giustizia è una macchina che ha tante implicazioni.

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Non è la prima volta che tu, Paola, tratti del ruolo della donna nelle situazioni di conflitto. Già in Staffette, il tuo documentario dedicato alle donne della Resistenza italiana, ti eri dedicata alla questione.
P.S.: Sì, e la violenza da parte maschile non è mai assente e le donne prima di sbloccarsi e parlarne hanno bisogno a volte anche di decenni, a volte anzi non lo fanno mai. Per esempio una delle donne protagoniste di Staffette, pur avendo lavorato anche nelle scuole per tenere viva la memoria delle Resistenza non ha mai apertamente parlato delle violenze sessuali a cui è stata sottoposta quando l'hanno deportata a Sachsenhausen dopo un rastrellamento. Ma non c'è da stupirsi: ricordiamoci che fino al 1996 in Italia è stato in vigore il codice Rocco, per cui lo stupro era considerato un reato contro la morale pubblica, e non contro la persona che lo subiva.

Secondo voi l'associazione di Bakira da una parte e il lavoro di presa di coscienza a cui state contribuendo anche voi riusciranno a cambiare qualcosa?
N.M.: Crederò nella giustizia quando non saranno più gli interessi economico-politici a governare i rapporti umani. Per Bakira, però, ogni piccola vittoria è significativa.
P.S.: Il problema è talmente grande che a volte viene da pensare che non ci sia niente da fare. Ma noi abbiamo il dovere di fare qualcosa, di essere un motore di consapevolezza. Il cinema questo deve fare.

La linea sottile sarà presentato il 18 marzo al cinema Farnese di Roma.

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