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Finalmente è arrivato il momento di Vaz Tè

Dopo anni di attesa, il drill king di Wild Bandana ha finalmente pubblicato il suo primo vero progetto—ma la strada che ha fatto per arrivarci è stata piena di insidie.
vaz te rapper skillato
Screenshot dal video di "Skillato", via YouTube

È la voce a colpire, di Vaz Tè, quando la senti la prima volta. Ha come qualcosa di lento e imponente, un grande sasso che rotola lento giù per un leggero pendio. E dato che probabilmente capita di sentirla per la prima volta in un featuring con uno dei suoi compagni in Wild Bandana, le cui voci sono funamboli che gli escono dalle corde vocali, l'effetto è ancora più intenso. A me è capitato per la prima volta in "Drill Dream Squad" di Tedua, che in quel pezzo butta parole sul beat come Pollock sulla tela—a spruzzi, a istinto. Vaz invece le stende a pennellate enormi, come Cy Twombly in uno dei suoi Untitled (Bacchus). Dall'incipit "C'è il tuo amico che sembra Dawson / Ho un amico che sembra Sosa" fino al finale, "Dream Drilliguria Squad / Innovatore", Vaz gioca di forza. Spostando la similitudine in campo calcistico, uno dei suoi temi preferiti—come reso palese dal nome che si è scelto—Vaz è la torre che la prende di testa e la appoggia ai compagni.

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Il suo primo progetto Medaglia D'Oro, mixtape scritto e pubblicato insieme a Tedua nel 2014, si reggeva infatti su questo lavoro di squadra. Una underground hit come "Live And Die In Palmaro", pubblicata un paio d'anni dopo, dimostrava però che Vaz sapeva reggere il peso dei minuti anche da solo: il passo era sì lento, ma il movimento svelto e inaspettato. Disegnava un inno di appartenenza al proprio paese di origine, in un gioco di reciproca gratitudine: "Voglio spaccare un tot / Se non ci riuscirò / Voglio mettere in chiaro che sono morto a Palmaro", sì, ma anche "Se caccio il mio tape per le strade / Le strade mi porgono i fiori".

"Crisi Dinastica Freestyle" faceva lo stesso e usciva ulteriormente dai luoghi comuni del vocabolario di strada ("Se tiro su 'sto teatrino ti sembra la prima del Parsifal / Apro una porta e percorro tutto il corridoio di Danzica") e dell'approccio apolitico ("Piscio sul muro nel punto in cui han fatto una svastica"). Insomma, insieme alle voci dei suoi amici che stavano definendo il sound e il vocabolario della Nuova Scuola—Tedua, Rkomi, Izi—quella di Vaz si stava affermando come la grande underdog della sua regione e della sua generazione di rapper.

Il 2017, nella mia mente, sarebbe dovuto essere il suo anno. A maggio uscì "Wild Bandana" con Izi e Tedua, celebrazione di primo livello della sua banda di talenti, e a breve giro il mixtape Amici Miei—un lavoro corale che metteva in chiaro il valore di ognuna delle voci che componevano la dream squad ligure della Nuova Scuola. Intervistandolo per l'occasione, gli chiesi qualcosa sul modo in cui componeva i testi: "Non ho ancora teorizzato veramente il modo in cui scrivo," mi aveva detto, "ma prendendola alla larga: ho visto che nell'arte c'era chi dipingeva a schizzi, chi a macchie, chi strisciando. Se la buttavano lì e mischiando i colori veniva fuori qualcosa di fiero. La sonorità mi aiuta, il flow e le metriche anche."

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E giuro che non ricordavo che cosa mi aveva detto due anni fa, Vaz, quando ho scritto la similitudine pittorica da cui questo articolo è cominciato. Ad ogni modo, dopo Amici Miei è però successo qualcosa: quell'anno c'è stata solo un'altra uscita a suo nome ("È Finita RMX"), e due nel 2018 ("Glory Boy", "Questo No" con Bresh). In tutte continuava a mettere in chiaro la sua capacità di inventare litanie brutalmente melodiche e partorire punchline pesanti come un colpo e capaci di suggerire un grande progetto dalle parti interdipendenti (Il "La passo a Mario non Mario Götze" che riprendeva il "La passo a Mario non Mauro Icardi" di "Over 2,5"). Nell'attacco di "Glory Boy", però, Vaz dava come una piccola spiegazione a chi si chiedeva perché stava rimanendo quasi in silenzio mentre tutto attorno deflagravano mine: "Mi hanno detto in tanti che potrei fare un puttanaio / Ma come devo spiegare ancora che non sono adatto?"

Non sappiamo esattamente perché Vaz non si sentisse adatto a fare un puttanaio sebbene "Skillato", il suo primo singolo del 2019, desse alcuni indizi. "Oggi, fra', dopo sei mesi palleggio", diceva, riferendosi alla gamba rotta che lo aveva tenuto fermo qualche mese; "Questa è una mia canzone quindi la odierò", ripeteva nel ritornello, a suggerire un'idea di perfezionismo. Ma ora che è uscito il suo primo EP ufficiale viene da dire che forse la sua prudenza finora è stata anche troppa. Waiting Room, fuori per Dogozilla, è infatti una dimostrazione di quanto la formula-Vaz, fatta di veloci stoccate soliste e attacchi corali, abbia un'identità definita e degna di essere esplorata dai suoi ideatori. Ma cominciamo dalle prime: Vaz è da solo sia nell'intro che nell'outro e non ha paura di dire, come prima cosa, che ha paura: "che io debba farli / Venire rime buone per i prossimi cent'anni / Le ho pensate tutte, pure di gettarmi / Così almeno la smetteremo di cercarci".

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vaz te waiting room

La copertina di Waiting Room di Vaz Tè, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Si comincia quindi dall'incertezza, dal pensiero che le cose potrebbero andare peggio—ma si conclude con l'orgoglio. "Outro (Drillgod)" contiene infatti una frase in cui è bello leggere il senso di tutta la poetica di Vaz: "Quello che io penso è proprio da cafone". Perché il senso di imponente lentezza del suo flow si rispecchia anche nelle parole che sceglie, nel modo in cui costruisce le frasi: insomma, è una persona che non si fa problemi a rimare "blocchi" e "brocchi" e, appena dopo, "bombolozzi" e "lacrimozzi". E ne va più che orgoglioso, di essere finalmente riuscito a buttare delle tracce in un progetto a tutti gli effetti: "Vedi loro lo sanno, lo sanno / Sono fatto d'oro mi hanno fatto santo". Tra questi due estremi, con l'eccezione della dolcissima melassa stradaiola di "Costoso", c'è però la consapevolezza che (nel suo caso, almeno) l'unione fa la forza.

Vaz coinvolge, di brano in brano, molte delle figure che hanno condiviso il suo percorso fin qua ed è bello notare come tra i nomi che compaiono in Waiting Room non ci siano quelli dei già iper-affermati Tedua e Izi. Non perché non sarebbe stato bellissimo risentirli sulla stessa traccia, ma perché chi c'è è legato a Vaz da un senso di enorme potenziale, di culto, di leggenda per iniziati—a partire da Nader, che in "Faccio Da Solo" evoca immagini di disagio ("Case grigie, viverci dentro è la morte") che esplodono però in un grido liberatorio che è pura gioia e auto-affermazione: "La periferia non è zona / Non parlo con gli altri, ne prendo nota / Sei stato fra e rimarrai / Una cazzo di fotocopia". Disme, profeta del vivere male, funziona da controparte furiosa, da piedi-sul-cemento, da occhio sul reale: "Fanculo la legge, qua non funziona / Vendevo a scuola, non ho il diploma".

"Stazione Centrale" è invece un album dei ricordi, più che un pezzo. Sui treni che collegano il litorale, che portano questi giovani corpi a Milano per provare a farcela, nascono e muoiono rime e sogni: Guesan ricorda "Il nome sul treno e sul loro taccuino / C'ho fatto mattino". Vaz namedroppa Arquata Scrivia, aggiungendola alla sua personale geografia, e la mette sulla tenerezza ricordando che "Manco la sfiga, penso che ci potrà mai separare". La vera stella è però Ill Rave, che con il suo flow naïf tira fuori ricordi e momenti in cui chiunque ha vissuto per stazioni e treni può rivedersi e farsi venire i brividi: "La prima volta sopra la volante ci sono finito con Mario / Andavo a scuola con il regionale, ultimo vagone dietro al campionario" (e, restando sulla geografia, menzione d'onore per "Salgo tutto ttofa a Brignole / E poi mi sveglio a Ventimiglia").

"Pesche & Vino" è però il momento più importante del progetto, dato che è l'unico e il primo in cui Vaz esce—idealmente e praticamente—dalla Liguria: come dice lui, con un'intelligente similitudine calcistica, "Genova-Roma, passando per Milano / Col taglio laterale, ok, ma non sono El Shaarawy". Su un beat di Sick Luke, Vaz condivide la traccia con Gianni Bismark: un altro underdog, un altro duro col sorriso, un altro innamorato di calcio, un altro a cui gli infami non vanno giù. Bresh, come sa fare benissimo fin dai tempi di "Gaston", puccia il ritornello nell'alcool della malinconia: "Sta città mi fa bere / Lei non fa, non fa per me". E magari è il caso di prendersene un'altra, di uscire da casa, di girare l'Italia. Di nascere a morire a Palmaro, sì, ma di riempire quello che c'è in mezzo con una carriera. Perché non è troppo tardi per costruirla. Elia è su Instagram. Segui Noisey su Instagram e Facebook.