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La Lega non ha idea di quello che dice sulle droghe, ma vuole comunque farci delle leggi

Cosa dice davvero la bozza del ddl sulle droghe presentato da Salvini?
Leonardo Bianchi
Rome, IT
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Matteo Salvini e i capigruppo della Lega mentre presentano il ddl sulla droga. Grab via Tg1.

Quando si tratta di legiferare su materie controverse, il copione seguito trasversalmente dalla politica italiana è lo stesso: si parte da un caso di cronaca eclatante, e si arriva in parlamento sull’onda dell’emozione mediatica. È successo con le norme sull’immigrazione; con quella sull’omicidio stradale; con la legittima difesa; e sta succedendo di nuovo con le droghe. O meglio: LA DROGA.

L’altro giorno alla Camera il ministro dell’interno Matteo Salvini ha detto di voler “vedere scomparire dalla faccia della terra” i “venditori di morte,” annunciando un disegno di legge urgente in materia. La giustificazione per questa fretta è l’incidente avvenuto il 2 marzo 2019 a Porto Recanati, dove un pregiudicato 34enne ha travolto e ucciso una coppia di Castelfidardo.

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“Il tossico che ha investito [la famiglia a Recanati],” ha continuato il leader leghista “era coinvolto in un reato per 225 kg di droga e 'sto stronzo era a spasso. Non è possibile. Qui si tratta […] di togliere dalle strade persone che sono bombe umane.”

Della proposta per ora esiste solo una bozza, ma alla conferenza stampa—alla quale erano presenti anche i capogruppo Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo—Salvini ha spiegato che il testo "interverrà sulla lieve entità. Non esiste modica quantità. Se ti becco a spacciare, vai in carcere con le misure cautelari," aumentando contestualmente le pene del comma 5 dell’articolo 73 del testo unico sugli stupefacenti (che sanziona i suddetti fatti di “lieve entità”) “da un minimo di tre a un massimo di sei anni” oltre alla “revoca del veicolo” e della patente.

Il mese scorso, già il ministro della famiglia Lorenzo Fontana aveva dichiarato al Corriere della Sera che vanno ripensate “le norme in quelle parti come la ‘modica quantità’: da un lato fa pensare che ci sia una quantità ammissibile, dall’altra impedisce di togliere gli spacciatori dalle strade.” Per Fontana, infatti, “non possiamo pensare che si formi una riserva nella mente dei ragazzi secondo cui un pochino sia ammissibile drogarsi.”

Ma davvero basta così poco? E la proposta leghista si concentra esclusivamente sui “venditori di morte,” oppure rischia di criminalizzare ulteriormente i consumatori? E cosa si intende, di preciso, per quel “modica quantità” su cui larga parte della stampa si è concentrata? Per cercare di rispondere ho chiesto una mano all’avvocato Elia De Caro, dell’associazione Antigone, e a Grazia Zuffa—presidente della Società della Ragione, esperta di droghe e tossicodipendenze, ed ex senatrice.

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Anzitutto, il punto principale che emerge dalla bozza e dalla conferenza stampa è che Fontana, Salvini e il resto della Lega hanno un'idea tutt'altro che chiara del tema.

Salvini usa in maniera intercambiabile "lieve entità" (ovvero il reato di spaccio di lieve entità) e “modica quantità,” abolita oltre trent’anni fa. Come mi spiega Zuffa, tale concetto giuridico (e non la “riserva mentale” di cui parla Fontana) è stato introdotto nella legge del 1975 sugli stupefacenti e consisteva “nella depenalizzazione della detenzione di sostanze in modica quantità, cioè la non punibilità del consumo personale.”

Quando Craxi adottò il pugno duro sulle droghe verso la fine degli anni Ottanta, “la modica quantità divenne il simbolo del lassismo; e su quello venne fatta tutta una battaglia ideologica, dicendo che gli americani avevano ragione e altre cose.”

A quel punto, continua Zuffa, la Vassalli-Jervolino del 1990 “la abolì, introducendo le sanzioni penali per il semplice consumo. Il referendum del 1993 [promosso dai Radicali] poi tolse quelle sanzioni, lasciando quelle amministrative che sono state in seguito inasprite dalla Fini-Giovanardi.”

Passando a questo versante, emerge un altro grosso problema: i leghisti sembrano non conoscere l’attuale legislazione sulle droghe, e le sue conseguenze penali e carcerarie. Attualmente, mi dice l’avvocato De Caro, il suddetto comma prevede da sei mesi a quattro anni di reclusione e riguarda tutte quelle condotte di “lieve entità” che non rientrano nello spaccio principale—quindi “piccolo spaccio, o condotte di consumatori che acquistano per sé ed altri, o cessioni all’interno di una cerchia di amici.”

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Si tratta di una “figura storica della legislazione sugli stupefacenti,” che nel 2014 è stata modificata appena prima della dichiarazione di incostituzionalità della Fini-Giovanardi, e dopo la sentenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo del 2013 che ha condannato l’Italia per il sovraffollamento carcerario.

Abbassando le pene previste da quel comma, insomma, la riforma “è riuscita a far diminuire gli ingressi in carcere”; principalmente perché così si può avere l’accesso a misure alternative al carcere. Ciononostante, puntualizza De Caro, l’intero articolo 73 del testo unico sugli stupefacenti rimane ancora oggi “il maggiore attore della penalità italiana: il 35 percento dei detenuti italiani è dentro per la violazione di questo articolo.”

È una cazzata, dunque, dire che con le leggi attuali non si arresta abbastanza. E pensare a un intervento del genere significa solo una cosa: infliggere ancora più carcere. Per spiegarmelo, De Caro cita un caso che ha trattato personalmente. Qualche anno fa, tre ragazzi erano stati fermati in macchina con 100 grammi di marijuana; i tre avevano poi dimostrato “l’uso di gruppo,” ed erano stati assolti dall’accusa di spaccio di lieve entità.

Se passasse la riforma della Lega, ora quegli stessi ragazzi rischierebbero dai tre ai sei anni—e dunque, visto che la pena è più alta—potrebbero essere arrestati in flagranza. In questo modo, mi dice l'avvocato, invece di arrivare all’udienza liberi “passeranno la notte nella camera di detenzione o nelle camere di sicurezza della polizia, producendo il fenomeno delle ‘porte girevoli’: gente che va in carcere due o tre giorni in attesa dell’udienza di convalida, ed entra in contatto con certi ambienti.”

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La percentuale dei detenuti per reati di droga dal 2006 al 2017. Tabella tratta dal nono Libro Bianco sulle droghe del 2018.

L’enorme confusione coinvolge anche la delicata distinzione tra spaccio e consumo personale o di gruppo. Nel corso della conferenza stampa, Salvini ha dichiarato di “non essere per lo stato censore dei consumi,” ma che “è chiaro ai poliziotti e ai giudici quale quantità porta al consumo e quale allo spaccio.”

In realtà, non è affatto chiaro. “È la prima volta che sento qualcuno che abbia una ricetta salvifica su quale sia quel quantitativo,” mi dice De Caro. “Da anni, infatti, si dibatte sull’individuazione di quei quantitativi di presunzione per la cosiddetta ‘destinazione a terzi’ o a uso personale.”

Nel 2006, una commissione del ministero della salute presieduta dal farmacologo Silvio Garattini aveva fissato delle soglie di principio stupefacente per ogni sostanza, superate le quali si passava dall’uso personale allo spaccio. Col tempo e le modifiche sia normative che di “mercato,” quei parametri (comunque molto bassi) non sono però più decisivi per stabilire la distinzione.

Facendola breve: non conta solo il quantitativo, a differenza di quello che dice Salvini. Per esempio, prosegue l’avvocato, “conta se hai 10 grammi di hashish in un unico pezzo a casa tua; oppure 10 grammi in dieci bustine mentre sei in giro. Conta se c’è un confezionamento frazionato, arnesi da taglio, denaro in banconote di piccolo taglio, eccetera. Ci sono quindi diversi indici di ‘destinazione a terzi’ e di una condotta detentiva.”

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Inoltre, ricorda ancora De Caro, l’uso personale di droghe non è una “condotta libera”; è comunque sottoposta a “sanzioni amministrative, che possono essere la sospensione della patente e del passaporto da uno a tre mesi, la sottoposizione a un procedimento amministrativo, l’ammonimento del prefetto a non farne più uso, e così via.”

A ogni modo, per De Caro questo disegno di legge non può che avere effetti negativi: “Irrigidirà le cose, creerà degli arresti, intaserà le udienze di convalida, escluderà la possibilità di accedere a misure alternative, e riporterà l’Italia alla situazione che ha determinato la condanna della Corte di Strasburgo.”

Tutto questo, però, solo in caso di approvazione. L’unica fortuna—se così la si può chiamare—è che al momento non ci sarebbero abbastanza voti in Parlamento; lo stesso Salvini, del resto, ha riconosciuto che “ci sono sensibilità diverse su questi temi.” Giusto qualche settimana fa il senatore del M5S Matteo Mantero ha presentato un ddl per la legalizzazione della cannabis, e nel commentare la proposta di Salvini ha detto che “togliendo la modica quantità si perseguono i clienti e si salvano gli spacciatori.”

Come fa notare Grazia Zuffa, resta comunque il fatto che ancora una volta “la macchina repressiva è orientata verso il basso, non verso i reati più gravi.” Questa norma va a colpire pesci piccoli e consumatori, non i narcotrafficanti che muovono tonnellate di droghe. E la propaganda leghista sulle droghe non solo riporta indietro il dibattito pubblico di svariati decenni; ma ci pone fuori dal contesto internazionale delle politiche sulle droghe, in cui l’Onu ha auspicato una decisa inversione di rotta—meno repressione, più riduzione del danno, e più attenzione alla dimensione socio-sanitaria.

Certo: tra i deliri su Achille Lauro e il “satanismo” a Sanremo, nonché la mera esistenza di personaggi come Fontana, mi rendo conto che quelle dell’Onu—e ormai di mezzo mondo—siano utopie lontane anni luce dalla realtà italiana.

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