“Una giovane donna ha dovuto licenziarsi: il marito non voleva che lavorasse. Era geloso — pensava che il datore di lavoro [della moglie], un uomo giovane, l’avrebbe sicuramente conquistata.”
L’avvocato Giovanna Fava, Presidente del Forum delle Donne Giuriste, racconta a VICE News la storia di una sua assistita.
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“Il marito era più grande di età e le diceva: ‘Senza di me non sei nessuno.’ È stata costretta a cedere la casa di sua proprietà, ha dovuto vendere i suoi gioielli, ha persino disdetto un’assicurazione per riscuotere il premio accumulato negli anni. Il tutto perché lui non lavorava, e ha impedito anche a lei di farlo.”
“La donna si era convinta di non valere nulla, e quando finalmente è uscita da questa situazione ha dichiarato al giudice: ‘Se mi guardo indietro, se guardo quella donna, non mi riconosco. Ero completamente soggiogata dal suo volere.’”
È questa la violenza economica, un problema purtroppo molto frequente ma spesso ignorato o non riconosciuto. La violenza economica, infatti, rimane un fenomeno spesso difficile da individuare e denunciare, anche per le stesse vittime. Rispetto alla violenza fisica o sessuale si manifesta in forme più subdole, radicate in dinamiche di controllo che sono tipiche di una struttura familiare – e non solo – tradizionalmente patriarcale.
“La violenza economica identifica tutta quella serie di atti che tendono a rendere la donna dipendente dall’uomo, o comunque nella condizione di non poter gestire in autonomia dei soldi, o di gestirli secondo un input che viene dato dall’uomo,” spiega l’avvocato Marianna Ulivi, Presidente della Casa delle Donne Maltrattate di Milano (CADMI).
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Si parla dunque di violenza economica quando il denaro o il patrimonio vengono usati per limitare la libertà e l’indipendenza della donna. Nonostante sia spesso percepita come un reato minore, la violenza economica gioca un ruolo fondamentale nel mantenimento di relazioni violente. Senza risorse finanziarie, e spesso isolata dal contesto lavorativo e sociale, la donna non può permettersi di denunciare e lasciare il compagno, nonostante gli abusi.
In Italia la violenza domestica è considerata reato secondo la Convenzione di Istanbul contro la violenza nei confronti delle donne, entrata in vigore nel 2014. La Convenzione riconosce espressamente la violenza contro le donne come violazione dei diritti umani, ed è il primo strumento normativo internazionale giuridicamente vincolante sul tema.
All’articolo 3 si legge che per violenza nei confronti delle donne si intende “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti.”
Proprio il CADMI, oltre ad altre case delle donne, ha stilato dieci anni fa una guida sulla violenza economica che classifica questa forma di maltrattamento in diverse tipologie, che vanno da quelle ‘normali’ a quelle ‘criminali.’
Risulta infatti più immediato comprendere come si possa parlare di violenza per casi ‘criminali,’ in cui la donna si trova costretta a fare da prestanome, firmare mutui, ipoteche o assegni scoperti, accumulando debiti al posto del compagno e mettendo a rischio la propria credibilità creditizia. Ma rientrano nel quadro della violenza economica anche molti altri esempi di controllo e limitazione, che vengono spesso ignorati.
Si parla quindi di violenza economica anche quando alla donna viene proibito di studiare o lavorare, di avere pieno accesso al proprio stipendio o ai conti comuni. Non solo: molti uomini decidono di gestire in maniera esclusiva il reddito familiare, ne tengono nascosti i dettagli e riconoscono alla donna soltanto un mensile fisso — con la pretesa, magari, di un dettagliato resoconto delle spese.
A volte va anche peggio: la donna si trova a dover elemosinare al compagno i soldi per la spesa settimanale o giornaliera, o si vede negato l’acquisto di medicine e altri beni primari. Nel tentativo di impedirne la fuga dalla relazione, soprattutto le straniere vengono derubate del passaporto, del permesso di soggiorno o di altri documenti di vitale importanza. Per le donne separate o in via di separazione, non sono rari i casi in cui l’ex compagno svuoti i conti correnti comuni o si rifiuti di pagare gli alimenti dovuti.
La violenza economica in Italia
Secondo un’indagine ISTAT stilata nel 2014 e pubblicata lo scorso giugno, la violenza economica risulta in calo dello 0,6 per cento rispetto al 2006.
Nonostante il segnale positivo, però, Ulivi evidenzia che il tasso di denunce per maltrattamenti familiari è sempre stato molto basso. “C’è una ragione per cui non ci sono abbastanza denunce: questi procedimenti non sono poi sempre utili per le donne, perché vanno a rilento, perché a volte le donne stesse vengono indagate, gli si chiede perché hanno fatto la denuncia. C’è un ribaltamento dell’attenzione dal reo, cioè chi commette il fatto illecito, a chi lo ha subito, e questo non va bene,” spiega l’avvocato.
Contrariamente alla diminuzione dei casi di violenza economica, secondo l’ISTAT sono invece in aumento i casi specifici di partner che impediscono alle donne di gestire i propri soldi o quelli della famiglia, saliti dallo 0,9 all’1,2 per cento negli ultimi cinque anni.
Quest’ultimo dato è in linea con uno studio sulla violenza economica pubblicato nel 2014 da due centri antiviolenza della provincia di Pistoia, in Toscana – Aiutodonna e Liberetutte – che evidenzia infatti il prevalere di condotte limitanti nei confronti delle vittime. Tra questi rientrano, per esempio, i numerosi casi di partner che gestiscono in maniera totalitaria le risorse economiche familiari, e affidano alle donne solo un piccolo budget giornaliero o settimanale, destinato alla spesa alimentare, peraltro non sempre sufficiente.
Lo studio nasce dalla volontà di esaminare più da vicino le dinamiche subdole e lesive di una forma di violenza ancora poco riconosciuta e denunciata. Come si legge nell’introduzione all’opuscolo, i due centri d’aiuto – in attività dalla metà degli anni 2000 – hanno avviato l’iniziativa dopo aver rilevato diversi livelli di violenza economica.
Prendendo in considerazione le esperienze violente del passato e del presente, lo studio smentisce l’ipotesi di una diminuzione della violenza nel tempo, dovuta magari a una separazione nella coppia.
Invece, l’indagine mostra come anche in seguito all’accesso ai centri antiviolenza, il 78 per cento delle donne rimanga legata al compagno da matrimonio o convivenza. Il dato potrebbe ricollegarsi anche all’alto tasso di disoccupazione delle donne esaminate, il 56 per cento, e alla loro probabile necessità di far fronte ad una mancata indipendenza economica.
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In questo senso, la dipendenza delle donne dai loro partner è influenzata anche dalle condizioni lavorative e previdenziali femminili in Italia. “Le garanzie nel mondo del lavoro sono state spazzate via, e la precarietà è diventata la regola. Chi ne risente di più? Sono le donne, che accanto al compito di produrre hanno anche quello di riprodurre la specie,” afferma Fava.
“Purtroppo la precarizzazione nel mondo del lavoro ha spazzato via le garanzie che avevamo conquistato negli anni Settanta, la legge sulla maternità, la legge sulla parità, tutte queste leggi sono di fatto vanificate. Nel momento in cui io posso farti un contratto di 3 mesi in 3 mesi, o finché ho degli sgravi fiscali, sono interessato ad assumerti. Ma se non ci sono, non ti assumo più; perché dovrei assumere una donna in gravidanza? Il datore di lavoro non ha nessun interesse a farlo,” ha aggiunto.
Secondo i dati forniti dalla Casa delle Donne Maltrattate di Milano (CADMI), solo il 18 per cento delle donne che si rivolgono al centro lo fa per questioni legate alla violenza economica — rispetto al 68 per cento per violenze fisiche, il 91 per cento per violenze psicologiche.
L’avvocato Ulivi spiega che anche la demografia delle donne che si rivolgono al centro è cambiata: se un tempo erano maggioritarie le donne over 50, oggi il 55 per cento delle donne che si rivolgono al centro ha tra i 28 e i 47 anni, mentre le under-27 che si rivolgono al CADMI sono cresciute fino al 15 per cento del totale.
Un problema importante che spesso impedisce alle donne di riconoscere di aver subito violenza economica, per cui non si rivolgono ai centri antiviolenza, è proprio la mancanza d’informazione.
“Si fanno i corsi prematrimoniali per prepararsi a celebrare il matrimonio, e si fanno in generale sui diritti, ma nessuno solitamente parla di economia,” afferma Ulivi. “Parlare di soldi non dev’essere un tabù, ma ultimamente è diventato un tabù più del sesso: del sesso se ne parla, dei soldi no. Sembra che i soldi vadano in frizione con l’amore, ed è considerato ‘brutto’ e venale parlare di soldi quando ci si mette insieme,” prosegue l’avvocato.
“Come per tutte le specie di violenza, l’informazione, la conoscenza delle procedure, delle cose che una donna può fare, sono importantissime,” sostiene l’avvocato Fava. “Le donne sanno già fare un’economia domestica eccezionale, sanno amministrare i soldi, sanno come farli fruttare. Devono però imparare a difendere i loro di soldi e i loro beni — così come devono imparare a difendere il loro corpo e la loro dignità.
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