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Scritta antisemita su un muro di Milano. Foto via Giovanni Dell'Orto/Wikimedia Commons.
Attualità

Perché, nonostante la memoria dell'Olocausto, il negazionismo è in crescita

Valentina Pisanty, autrice de 'I guardiani della memoria', ci ha spiegato perché antisemitismo e negazionismo sono oggi così forti.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Negli ultimi decenni alla memoria dell’Olocausto sono state dedicate sempre più commemorazioni dentro e fuori le scuole, giornate apposite, libri, film e documentari, tutto nella convinzione—soprattutto da parte della politica—che fosse sufficiente “non dimenticare” lo sterminio nazista per contrastare il razzismo e l’intolleranza di oggi.

Evidentemente, non è così. E per accorgersene non serve andare così tanto indietro nel tempo: basta dare un’occhiata alle cronache di questi giorni, tra le scritte antisemite fuori da due scuole di Pomezia (con l’annesso invito a “parlare delle foibe”) e stelle di David e frasi ingiuriose apparse sulle abitazioni di discendenti di staffette partigiane e deportate di origini ebraiche e Mondovì e Torino. Per non parlare di altri episodi eclatanti, come la vandalizzazione delle pietre d'inciampo nel ghetto di Roma o gli insulti a Liliana Segre e l’assegnazione della scorta alla senatrice a vita.

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La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, rispondendo alla ministra dell’interno Luciana Lamorgese, ha detto che “in Italia non c’è alcuna emergenza odio, né tanto meno razzismo.” Per il segretario della Lega Matteo Salvini, invece, la diffusione dell’antisemitismo in Italia sarebbe dovuta principalmente alla “massiccia presenza di immigrati provenienti da paesi musulmani.” Ma se un atteggiamento del genere non sconvolge più di tanto—visto da chi proviene—lo fa molto di più una recente rilevazione dell’Eurispes, secondo cui il 15,6 percento degli italiani non crede alla Shoah o comunque la minimizza. Quindici anni fa, quella percentuale era il 2,7.

Le modalità del ricordo della Shoah, dunque, starebbero perdendo la loro efficacia. Da un lato sono considerate come “divisive” (nel novembre del 2019 il sindaco di Predappio ha detto che le visite ad Auschwitz sarebbero “di parte”), mentre dall’altro vengono apertamente sbeffeggiate—oppure, per l’appunto, negate. Di certo non aiutano neppure le false testimonianze di persone che si spacciano per sopravvissuti, com’è accaduto all’inizio di febbraio.

Qualche settimana fa è uscito un saggio, I guardiani della memoria, che si occupa proprio di questi temi. L’ha scritto la docente di semiologia all’Università di Bergamo Valentina Pisanty, che da parecchio tempo si occupa di negazionismo. L’ho sentita per cercare di capire come siamo arrivati a questo punto, e cosa comporta questa rimozione in un periodo di avanzata delle destre xenofobe.

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VICE: Salve professoressa Pisanty. Una delle tesi centrali del suo libro è che la memoria dell’Olocausto—nonostante tutti gli sforzi delle istituzioni nate dal dopoguerra e da quelli che lei chiama “guardiani della memoria”—stia mostrando segni di stanchezza. Come mai?
Valentina Pisanty: I motivi sono diversi. Uno molto generale è quello della sovraesposizione di una certa narrazione dell’Olocausto, che viene percepita come calata dall’alto. Si tratta poi di un tipo di memoria cristallizzata in modalità commemorative molto prevedibile e ingessate, che perdono dunque la loro pregnanza.

Questa stanchezza è evidente soprattutto tra i ragazzi a scuola. I quali sanno che, ad ogni ricorrenza del Giorno della Memoria, verranno loro sottoposti programmi molto simili e legati a una forma piuttosto vuota e poco problematizzante—volta soprattutto a stimolare l’empatia e le emozioni, che a forza di essere sollecitate tendono un po’ a irrigidirsi.

Un altro motivo, forse più rilevante, è legato invece allo schema narrativo con cui si pretende di inquadrare ogni conflitto—dalle guerre agli scontri sociali—in termini di vittime e carnefici. Se poteva funzionare in merito a quell’evento storico particolare, nel nostro presente non lo fa più.

Mi sembra che un altro segno sia l’aumento della—chiamiamola così—“goliardia” sulla Shoah. Mi vengono in mente casi recenti che abbiamo visto in Italia, come la maglietta “Auschwitzland” a Predappio o gli adesivi di Anna Frank della tifoseria della Roma, oppure i meme dell’alt-right negli Stati Uniti. Sono solo manifestazioni di estrema destra, o c’è dell’altro?
Certamente i casi che citi sono ricollegabili a quella matrice, ma il fenomeno è più complesso. Siamo infatti di fronte al circuito della falsa risata, di quella che “virgoletta le virgolette.” Nel senso che si presenta come una provocazione “ironica,” dalla quale ci può sottrarre dicendo che “si stava solo scherzando.” In realtà, è il meccanismo razzista ad annullare questa pseudo-virgolettatura: si faceva finta di dire che si faceva finta.

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In questo modo, chi promuove attivamente contenuti antisemiti e razzisti lo fa a diversi livelli. Con chi la pensa come loro si comunica a livello letterale; con chi non è completamente convinto, invece, si rimettono in circolo frammenti di discorso antisemita ammantandoli di umorismo, facendo così abbassare le difese e rendendoli più accettabili. Ovviamente, non tutti quelli che si scattano i selfie ad Auschwitz sono consapevoli di questi meccanismi, ma ci entrano dentro inconsapevolmente.

Lei sostiene che lo “sfruttamento dell’Olocausto come forma narrativa” è ormai egemone, ma paradossalmente è usato pure dagli antisemiti per rappresentarsi come “vittime” o dai nazionalisti—specialmente nell’Europa dell’est—per portare avanti le loro istanze. Come siamo arrivati a questo punto?
Per rispondere è utile partire proprio dall’Europa dell’est. Dopo la caduta del muro di Berlino, per entrare nella sfera Nato o nell’Unione Europea, ai paesi dell’ex blocco sovietico è stato chiesto di elaborare una memoria dell’Olocausto che mancava per varie ragioni storiche.

Si trattava però di una memoria europea dell’Olocausto filtrata dai prodotti dell’industria culturale americana e abbastanza recente come concetto, alla quale è stata molto difficile adeguare le narrazioni nazionali. Al punto che in alcuni paesi, come la Polonia, lo schema narrativo generale è stato svuotato dai suoi contenuti storici particolari—soprattutto quelli che implicavano una profonda presa di coscienza sul ruolo delle popolazioni locali nello sterminio.

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I nazionalisti hanno poi imparato a sfruttare la struttura vittime-carnefici per raccontarsi come vittime di pregiudizi e persecuzioni, e dunque ricoprendo le proprie rivendicazioni di una rinnovata legittimità morale. E lo stesso hanno fatto le destre xenofobe in altri paesi, Italia inclusa.

In effetti, certi esponenti della destra italiana dicono che non ci sono problemi di antisemitismo (o razzismo) e al contempo si alleano con movimenti che si rifanno a Corneliu Zelea Codreanu, oppure rilanciano teorie del complotto che rispolverano vecchi stereotipi antisemiti come quella dell’ebreo “usuraio.” Com’è possibile che questa lampante contraddizione non li danneggi?
Matteo Salvini, insieme a Giorgia Meloni e altri, sono parzialmente responsabili di una riattualizzazione dell’aspetto più pericoloso dell’antisemitismo—quello legato all’idea della cospirazione internazionale con tutti i loro riferimenti a Soros, e via dicendo.

Quello che li rende apparentemente coerenti è il loro supporto a Israele. Da un po’ di tempo, infatti, il governo israeliano ha accettato di ripulire l’immagine di vari soggetti xenofobi in cambio del loro supporto incondizionato all’attuale assetto politico. Questo “scambio” ha così generato un catastrofico equivoco che permette a Salvini, Orban o Trump—tutte persone che hanno alimentato il mito su Soros—di dichiararsi per sempre immuni a qualsiasi accusa di antisemitismo o razzismo.

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Lei si è occupata a lungo di negazionismo dell’Olocausto. Per combatterlo, dagli anni Novanta a oggi si è pensato di introdurre in diversi paesi—tra cui l’Italia—il reato di negazionismo. È una misura che funziona, oppure è controproducente?
È dimostrato che è controproducente. Tutte le volte che queste leggi sono state applicate hanno contribuito a far impennare la visibilità per i negazionisti. I quali infatti lo sanno, e a volte provocano apposta per potersi atteggiare a vittime perseguitate di un establishment che vorrebbe “imbavagliarli” per paura della “verità.”

Il caso di Roger Garaudy in Francia è esemplare. Negli anni Novanta questo intellettuale francese ha pubblicato I miti fondatori della politica israeliana, un pamphlet in cui si esprime in maniera visibilmente negazionista sulla realtà dello sterminio. È stato poi processato e condannato in base alla legge Gayssot, la prima approvata in Europa. Lo scandalo mediatico che ne è seguito si è tradotto in uno scontro tra chi evocava la libertà d’espressione, e chi riteneva che certe tesi non dovrebbero mai essere espresse. Ma è proprio lo spostamento del dibattito sul piano della libertà d’espressione a permettere al negazionista di presentarsi come martire.

Purtroppo, queste leggi si sono rivelate il miglior modo per ampliare i bacini di simpatizzanti—o comunque di persone che potrebbero dar retta a queste tesi, indipendentemente dalla matrice ideologica di partenza, grazie alla confusione che si crea sul principio della libertà di parola.

Per finire: visto che la memoria dell’Olocausto non riesce più a fare da scudo al razzismo, cosa servirebbe? Un’altra grande narrazione, o tutt’altro?
Credo che le grandi narrazioni non le decidiamo noi. Non si possono fare delle operazioni di “ingegneria semiotica” sulle culture. Detto ciò, mi domando se quella narrazione abbia mai funzionato veramente nei termini che si voleva. In Italia, il Giorno della Memoria non doveva essere il giorno in cui si ricordava la sofferenza delle vittime e basta, ma piuttosto cos’era successo storicamente per far sì queste persone diventassero delle vittime.

In altre parole, si è persa l’occasione di fare i conti con i propri trascorsi razzisti e quindi di fare un reale lavoro storico di autocritica. La Germania l’ha fatto, noi no. E sarebbe stato molto utile mostrare come si è arrivati per gradi all’esito finale antisemitismo nazifascista. Anche analizzando i casi che Primo Levi avrebbe attribuito alla zona grigia del collaborazionismo più o meno attivo, fatto di delazioni e piccoli opportunismi, che cumulativamente hanno messo gli ebrei italiani nella condizione di essere deportati senza alcuna possibilità di difendersi.

Ecco: se il Giorno della Memoria fosse stato impiegato per indagare e coinvolgere le nuove generazioni nei microracconti che riguardano questi episodi—un po’ meno epici ma più vicini alla nostra esperienza, anche attuale—forse avrebbe potuto assolvere a quella funzione che si proponeva.

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