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Attualità

Come siamo rimasti fregati dal mito del 'lavoro dei sogni'

Quando non puoi permetterti la carriera dei tuoi sogni non sentirti un fallimento: quella del lavoro in Italia è una gara falsata in partenza.
Alessandro Pilo
Budapest, HU
LM
illustrazioni di Lorenzo Matteucci

Fin dall’adolescenza ci hanno sempre raccontato che basta seguire un determinato percorso per farcela nella vita, ottenendo così il proverbiale “lavoro dei sogni.” 

Cresciamo così con grandi speranze e facciamo di tutto per realizzarle, ma a un certo punto ci scontriamo fatalmente con la realtà: quel titolo di studi non aprirà le porte come si pensava; oppure è impossibile arrivare alla fine del mese facendo quel lavoro tanto agognato, una condizione che accomuna soprattutto chi ambisce a un lavoro in ambito creativo o ha intrapreso un percorso accademico umanistico senza un significativo capitale economico o sociale alle spalle. 

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Salvatore [per ragioni di privacy tutte le persone intervistate hanno chiesto di non usare i loro nomi reali], ad esempio, sognava di fare il giornalista. Le prime esperienze nel settore le aveva fatte al liceo in Sicilia, poi all’università a Messina aveva scelto appositamente un corso di Editoria, comunicazione multimediale e giornalismo. Dopo la laurea sembrava che la dedizione e il duro lavoro fossero stati ripagati: era stato scelto per uno stage in una redazione giornalistica a Roma. 

Ma dopo tre tirocini in tre redazioni diverse, in alcuni casi senza nemmeno ricevere la cifra di per sé modesta pattuita all'inizio, le porte continuavano a non aprirsi e la speranza di trovare una sistemazione stabile nel settore si rivelò illusoria. “Passai per una crisi esistenziale. Non volevo abbandonare quella strada, altrimenti avrei dovuto ammettere di essere stato un ingenuo e aver perso tempo, in più pensavo che non sarei stato in grado di fare altro nella vita,” mi racconta.

A malincuore Salvatore si è dovuto reinventare: per vari anni ha fatto l'operatore in un call center, mentre ora lavora come grafico freelance, ma dato che non riesce a guadagnare abbastanza arrotonda come rider. Nel frattempo prova a specializzarsi come merchandiser nel retail: “Ormai ho intrapreso un percorso lavorativo e di vita alternativo, però per anni ho continuato a tormentarmi, mi ripetevo che non ce l’avevo fatta perché non ci avevo provato abbastanza.”

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Non volevo abbandonare quella strada, altrimenti avrei dovuto ammettere di essere stato un ingenuo

Quando le speranze professionali non si concretizzano ci si convince che se avessimo perseverato di più, forse le cose sarebbero andate diversamente. Secondo lo psicologo Carsten Worsch, di solito è il contrario: si è più a rischio di inseguire un sogno più a lungo del necessario, che ad abbandonarlo troppo presto.

Per cercare di capire cosa c’è dietro questa sensazione di fallimento e lutto che tante persone provano ho interpellato Chiara Volpato—per anni docente di Psicologia Sociale all’Università di Milano Bicocca e autrice di un saggio sulla psicologia delle disuguaglianze

Volpato mi spiega al telefono che queste vicende possono essere interpretate alla luce del neoliberismo, che oggi costituisce l’ideologia imperante non solo da  un punto di vista economico, ma anche culturale. “Il pensiero neoliberista impone a tutti di farsi imprenditori di se stessi e di prendersi le responsabilità dei propri insuccessi,” dice. “Ciò porta a una visione del mondo centrata sull’individuo, in cui le sconfitte vengono interiorizzate: se hai fallito è colpa tua. Ma chiaramente le nostre vite sono in gran parte dettate dalle condizioni socio-economiche di partenza, che sono profondamente diseguali." 

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Col tempo Salvatore ha smesso di farsene una colpa, “semplicemente non mi potevo permettere di lavorare gratis e non potevo dipendere dal supporto dei miei genitori a oltranza.” Ma quella ferita è ancora aperta, conclude: “Provo un profondo senso di amarezza quando vedo amici e colleghi che sono riusciti a diventare ciò che volevano. Alcuni ho deciso di nasconderli sui social perché mi faceva male vedere i loro successi.”

Carlo* invece è un ragazzo di 27 anni di Roma con il sogno di lavorare come traduttore, anche se riuscirci gli sembra sempre più improbabile. Ha iniziato a lavorare fin dagli anni del liceo e ha continuato a farlo per pagarsi gli studi universitari nella facoltà di lingue straniere. Trovare lavoro come cameriere non era difficile, ma se cercava di mettere a frutto le sue conoscenze linguistiche in ambiti più appaganti riceveva solo offerte per degli stage e lui non poteva permettersi di essere lungimirante. 

“La mia priorità era guadagnare dei soldi ogni mese e quei tirocini, anche se prestigiosi, non erano retribuiti abbastanza,” mi racconta. “Chiaramente poi sono stato penalizzato, visto che senza uno stage alle spalle molte aziende non ti assumono.”

Per lo stesso motivo Carlo non può fare scelte professionali rischiose. Dopo la laurea la sua relatrice di tesi gli aveva proposto di provare il concorso per un dottorato di ricerca, ma lui ha rifiutato: anche se vincesse una borsa non sarebbe sufficiente per vivere, in più un’eventuale carriera da ricercatore—nota per la sua precarietà—non gli sembra quella più adatta a chi si deve mantenere da solo.

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Davanti alla mancanza di sbocchi professionali Carlo ha deciso di trasferirsi in Germania, cerca lavoro nel settore delle traduzioni ma al momento è disoccupato. Non gli sfugge l’ironia della sua situazione: “Rimanendo in Italia forse sarei anche riuscito a trovare un impiego in linea coi miei studi e le mie speranze, ma le condizioni lavorative sarebbero state assolutamente precarie. In Germania ho una rosa di opportunità meno prestigiose, ma almeno posso ambire a uno stipendio dignitoso che mi garantirà una vita serena.” 

Quando viveva ancora in Italia Carlo ha sofferto di depressione, causata soprattutto dalla frustrazione professionale e la sensazione di avere fatto tanti sacrifici inutilmente, “a un certo punto mi sono rivolto ad uno psichiatra per farmi prescrivere degli antidepressivi, i momenti in cui piangevo tutte le mattine erano insopportabili e avevo paura di quello che mi passava per la testa,” confida. Da quando si è trasferito all’estero è migliorato tantissimo.

Si è più a rischio di inseguire un sogno più a lungo del necessario, che ad abbandonarlo troppo presto

Luigi D’Elia è uno psicoterapeuta e presidente di Psicoterapia Aperta, un’iniziativa in cui professionisti del settore offrono delle tariffe calmierate a pazienti non in grado di sostenere i costi delle terapie psicologiche del privato.

D’Elia mi dice via mail che circa un terzo dei suoi pazienti cerca aiuto per via di condizioni lavorative impossibili o eccessivamente stressanti, “da quello che vedo gli ambienti lavorativi disfunzionali non sono più occasionali, ormai siamo di fronte a formule organizzative collaudate basate sulla precarizzazione.” 

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Anche per questo motivo, secondo D’Elia sarebbe necessario ripensare le psicoterapie. “Non bisogna dimenticare che sono nate in ambientazioni socio-culturali novecentesche, pertanto l’incubatore del disagio lo si cerca solitamente nell’individuo, nel suo mondo intrapsichico o al massimo nella famiglia,” spiega. “Ma in questo modo non vediamo le radici politiche del malessere di tanti giovani.” 

Per lo psicoterapeuta un altro fattore di disagio mentale può essere identificato nella convinzione che solo un lavoro dei sogni darà un senso alle nostre esistenze: “Occorrerebbe decolonizzare radicalmente questo immaginario che porta ad associare il proprio valore individuale all’occupazione professionale.”

Sara* ha 27 anni, vive a Milano e lavora all’interno dell’industria musicale. Si dice consapevole di tutti i privilegi che le hanno consentito di entrare nel settore: ha vissuto coi genitori più a lungo e ha potuto contare sul loro supporto economico, in questo modo si è potuta dedicare liberamente a fare esperienza in un sacco di progetti in cui non veniva pagata, “tutte cose che non avrei avuto il tempo o l’energia di fare se mi fossi dovuta mantenere da sola.”

Successivamente ha frequentato un master da settemila euro noto per aprire le porte del settore. Secondo Volpato, la consapevolezza di Sara sulla propria condizione privilegiata non è comune: “Mentre chi ha meno risorse è portato a interiorizzare i propri fallimenti, chi parte da una condizione di privilegio tende solitamente ad attribuirsi i propri successi e a esaltare la propria tempra; c’è ovviamente nei ‘vincenti’ tutto l’interesse a creare una mitologia che sottolinei il proprio valore individuale.”

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Sara racconta che, soprattutto a inizio carriera, le condizioni lavorative possono essere fatte di orari impossibili e paghe da fame: “Paradossalmente il privilegio ti può aiutare a ottenere un impiego prestigioso, ma non necessariamente uno con meno sfruttamento.”

L’unica forma di emancipazione a disposizione è una gara falsata in partenza

In più, visto che si fa un lavoro così ambito in un mondo particolarmente edulcorato, ci si sente quasi degli ingrati a lamentarsi per le condizioni lavorative poco dignitose. In un settore competitivo come quello di Sara c’è anche chi riesce ad accedervi nonostante circostanze socio-economiche più avverse e a costo di grandi sacrifici, ma dal suo punto di vista la romanticizzazione di queste storie di successo individuale è particolarmente problematica.

“Ci si dimentica che queste persone pur di realizzare il proprio sogno sono state costrette per anni a fare una vita di stenti, e che tante altre ugualmente meritevoli non ce l’hanno fatta,” riflette. 

Secondo Volpato questa riflessione è essenziale per capire la condizione giovanile odierna. “Provare a cambiare il mondo del lavoro attraverso una coscienza collettiva o forme di lotta condivise appare inutile, c’è un generale senso di sfiducia e disillusione,” dice. 

Si cerca dunque di migliorare “la propria situazione individualmente, sperando di essere uno di quei pochi fortunati che cammineranno meglio degli altri.”

Ma visto che la mobilità sociale in Italia è bloccata da anni, conclude la docente, “per gli appartenenti a una classe sociale svantaggiata l’unica forma di emancipazione a disposizione è una gara falsata in partenza.”

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