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La Biennale e i casi umani dell'architettura

Mi sono sempre chiesta se alla Biennale di Architettura di Venezia si recassero più o meno le stesse persone che popolano una tipica facoltà di architettura italiana, così sono andata a farci un giro.
Sonia Garcia
Milan, IT

Foto di Piotr Wiśniewski.

Per qualche motivo mi sono ritrovata a scrivere queste righe in università, nella biblioteca centrale della facoltà di Architettura e Società del Politecnico di Milano, in mezzo ai casi umani. Sono quindi circondata dall’Architettura in ogni sua forma e incarnazione: libri di giardini settecenteschi, gente che disegna piante di cessi su Autocad, coppie che studiano fisica tecnica limonando. Riflettevo su come sia colpa di questo posto se tutt’ora persevero nell’infelice condizione di studentessa fuorisede, munita di una laurea triennale utile più o meno quanto questa introduzione, ma vabe’, sono cose a cui si sopravvive.

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La Biennale di Architettura di Venezia è uno dei tanti eventi che pur avendo un’attinenza imbarazzante con quanto studiato non ho mai frequentato in tre anni e mezzo, quasi quattro di università. Il fatto che quest’anno sia curata dal più duro, Rem Koolhaas, unito alla notizia che a Venezia avrei avuto un team di accoglienza particolarmente gradito—tre piccoli e adorabili architetti, uno dei quali mio ex compagno di corso—hanno battuto di poco la scarsa propensione a finanziare Trenitalia, o in generale ad accettare di passare un’intera giornata in una città dove le brioche costano due euro e i vaporetti sette. Chiariamoci, Rem Koolhaas ha fatto tanta merda nella sua vita, ma gli rimarrò sempre affezionata per avermi introdotto ad Archigram, una roba che se siete malati di mente probabilmente riuscirà a destare il vostro interesse.

Venezia e il mio fotografo visti dal vaporetto.

Mi sono sempre chiesta se alla Biennale di Architettura vi si recassero più o meno le stesse persone che popolano una tipica facoltà di architettura italiana—generalizzo perché voglio credere che Italia = Politecnico—ossia: gente munita di skate, chitarra e tavole A0 arrotolate; ciellini fuorisede con gli occhiali col bordino rosso; l’esercito dei Freitag-muniti, etc.

Sembra Bovisa e invece no.

Al nostro arrivo ai Giardini ad esempio abbiamo incontrato queste due architette tedesche, perfettine e col Moleskine. Sono state gentilissime nel raccontarmi dei loro studi a Monaco, del workshop di tre giorni a Venezia, ma di loro amo ricordare il totale anonimato.

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L’altra non mi ha mai cagato.

I Giardini erano mezzi vuoti, ma forse è stato giusto così. Del resto, pensavo, l’architettura può interessare solo a tre categorie di persone: gli architetti, gli APPASSIONATI di strutture e spazi che però non hanno passato il test d’ingresso e quindi hanno fatto lingue e i fidanzati/e delle precedenti due tipologie. Di questi ultimi in effetti era pieno, facilmente riconoscibili dall’espressione sfavata con cui attendevano che il partner facesse ritorno dall’ennesimo padiglione pieno di porte/solai/maniglie, di cui a loro fregava molto, troppo. Il ragazzo qua sotto per esempio veniva dall’Australia ed era fuori dal Padiglione Centrale che aspettava il rientro della sua tipa, architetta. “Non mi interessa quasi niente, ma la mia ragazza dice che è rimasta un po’ delusa dal Padiglione Centrale e io mi fido.”

Un po’ Matteo Corradini.

Non potevamo credere alle nostre orecchie, così siamo corsi dentro, ansiosi di verificare se la mostra principale di tutti i Giardini, Elements of Architecture, curata dallo stesso Koolhaas, fosse effettivamente la disfatta del buonumore.

A me è parso fico.

Come poi giustamente abbiamo concluso con Piotr, ad essere cagosa era sicuramente la qualità grafica dell’allestimento—ad esempio le pareti esplicative—ma le installazioni in sé non solo spaccavano, ma era pure interessante il concept secondo il quale sono state disposte. A ogni sala corrispondeva un “elemento architettonico” diverso—parete, solaio, scale, rampe, porte—e ovviamente quello su cui mi sono soffermata di più non poteva che essere il bagno.

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Anche loro.

È stato qui che ho incontrato la prima vera coppia italiana che tanto aveva popolato le mie fantasie, lui architetto preso bene uscito dal Politecnico di Milano—”È la mia terza Biennale di Architettura”—e lei studentessa di giurisprudenza spaesata—”È tutto abbastanza incomprensibile per chi non è del settore.” Mi stavo giusto convincendo di quanto fossero sembrate persone a posto quando, al momento della foto, c’è stato il “Conosco il taglio degli articoli di VICE, meglio di no” da parte di lui e boh, nel dubbio ho chiesto scusa.

Poco più in là, accanto a una parete piena di maniglie, ho beccato lei.

Studentessa al quinto anno di architettura al Politecnico di Milano, sede di Leonardo, si trovava lì con un pass di tre giorni perché aveva partecipato ad Atmospheres, esposizione organizzata dallo stesso Polimi—perdonate la parola Polimi—che già ai tempi del Salone del Mobile aveva fatto parlare di sé. In pratica gli studenti, tra cui la nostra amica, si sono ingegnati per trovare mille modi diversi di riempire un cubo di plexiglass 25x25x25 cm, creando quindi mille “atmosfere” diverse e avanguardiste, che poi sono andate a colonizzare le Sale d’Armi dell’Arsenale di Venezia—non ho foto, ma se volete questa l’ho scattata ad aprile in università, che sogno.

Sollevati dall’aver smentito il tipo australiano disilluso di prima, io e Piotr siamo usciti dal Padiglione Centrale belli contenti, e poco fuori dal Padiglione della Finlandia ci siamo imbattuti in un paio di ragazzini seduti per terra che disegnavano a mano il creato a loro circostante.

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Dobbiamo disegnare o guardare l’obiettivo?”

È molto tipico tra piccoli architetti la pratica del disegno a mano ovunque ci si trovi—non sono solo gli studenti di belle arti ad adorare questo rito. Loro ad esempio erano a Venezia per un workshop di quattro giorni su “disegno e analisi di case” e per l’appunto, stavano disegnando il Padiglione della Finlandia. Abbiamo trovato molti altri ancora più spalmati a terra di loro, ma i due ci sono sembrati senza dubbio i più simpatici—anche perché quello a destra mi ricorda troppo un mio ex compagno delle medie.

Dopo averli salutati ci siamo messi alla ricerca dei nostri due fidi compagni, fino ad allora dati per dispersi. Li abbiamo trovati fuori dal Padiglione dei Paesi Nordici—architettonicamente uno dei più belli, di Sverre Fehn, cemento a vista, setti, giochi di luci e ombre. Abbiamo fatto amicizia con due sgargianti sciure dall’aria milanesissima, che però erano olandesi. In un italiano più che dignitoso mi hanno assicurato di essere assidue frequentatrici della Biennale da almeno trent’anni. Ho chiesto loro se intendessero quella di Arte o di Architettura, e per risposta la signora in rosso ha subito precisato che “Io lavoro in radio in Olanda, ma la mia passione è l’architettura.” Benché non sia stata capace di cogliere il nesso tra la Biennale, la radio e l’architettura, è bene ricordarsi di loro.

Il Padiglione più brutto è stato senza ombra di dubbio quello della Russia: il suo Fair Enough: Russia’s Past Our Present, ovvero la riproduzione di un fiera di architettura immaginaria, era grottesco e potenzialmente divertente in quanto tale, ma in quel momento avevo troppa fame e troppo caldo per riuscire ad apprezzare ogni forma di ironia, compresa quella.

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C’erano poi installazioni che ti spingevano solo a chiederti perché.

Tipo questa.

Non credo, ma ok.

O questa.

Una delle ultime coppie che ho avuto il piacere di conoscere ai Giardini era composta da due ragazzi cinesi. “Siamo qui per turismo,” mi spiega lei, “a lui interessa la Biennale perché è architetto, a me piacciono più i fiori e le piante.” Capa assoluta.

Sì.

La fame era immensa, ero delusa perché il Padiglione del Venezuela, quello disegnato da Carlo Scarpa—è vietato fare architettura senza adorare Carlo Scarpa—era chiuso e continuavo a perdere di vista gli altri, che a loro volta erano delusi per l’assenza di figa.

In un momento di totale solitudo mi sono imbattuta nell’ultima coppia della giornata, questa volta italiana e senza complessi nei confronti di VICE. La cosa curiosa è che nessuno dei due era architetto, lei era “artista” e lui era “venuto a fare un giro,” ma entrambi sembravano interessatissimi all’approccio architettonico della mostra nonostante non fosse il loro campo.

Una volta fuori abbiamo deciso che all’alba delle quattro di pomeriggio forse era il caso di mangiare qualcosa, che la figa magari poteva essere all’Arsenale e che in fin dei conti era valsa la pena, nella vita, aver studiato architettura.

Tutti soddisfatti di noi stessi siamo quindi usciti e, dopo aver perso quaranta minuti per trovare un luogo comodo dove gustarci le nostre focacce cinesi radioattive a soli tre euro e cinquanta l’una, siamo finalmente arrivati all’Arsenale. Strada facendo ci siamo incappati in un gruppo di gabbiani affamati quanto noi.

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L’Arsenale, Koolhaas l’ha destinato a Monditalia, un progetto che sul sito è definito come “una scansione dell’Italia costituita da 82 film, 41 progetti di ricerca e la fusione dell’architettura con i settori Danza, Musica,Teatro e Cinema della Biennale. Ogni progetto di ricerca in Monditalia rappresenta delle condizioni uniche e specifiche ma tutti insieme costituiscono un ritratto complessivo del paese ospitante.

Oltrepassata questa fotografatissima soglia—non so in che momento storico Piotr sia riuscito a scattarla, dato che era costantemente piena di cavalletti e gente ricurva su se stessa—mi sono lasciata trasportare in questo percorso di Danza, Musica, Teatro e Cinema fino in fondo, importunando una delle ballerine dell’installazione Punto Sulla Forma, Marina Giovannini.

Mi ha spiegato ciò che intuivo già, cioè che il suo ruolo, e quello delle altre performer, era creare un continuo fisico con l’edificio e le strutture a noi circostanti attraverso un movimento incessante del corpo, che possa portare idealmente alla fusione fisica e sensoriale della materia—sia organica che inorganica.

Stava saltellando.

Oltre a questo Monditalia verrà ricordata anche per l’ingente presenza di modellini aka maquettes, molto più che ai Giardini e molto più elaborati. Alcuni fattibili più o meno da qualsiasi studente al terzo anno di triennale svogliato, munito di cartoncino, taglierino e Bostik; altri fatti col legno, col plexiglass, con sostanze grigie strane, un po’ più sborone, da gente che crede davvero di dimostrare qualcosa.

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Roba agile.

Roba meno agile.

Dato che io non credo di dover dimostrare niente a nessuno, mi sarei potuta facilmente innervosire. E invece no. Questo perché credo che la gitarella alla Biennale sia stata utile a farmi riappacificare con l’architettura e i suoi magici elementi, dopo tanto tempo che non ne venivo così a stretto contatto.

Rem Koolhaas è riuscito a rendere Fundamentals—perché in tutto questo non avevo ancora detto come si chiamava la Biennale di quest’anno—un felice luna park dell’architettura, dove chi l’ha studiata si sente nel dovere di concludere che “ok, è una Biennale senza archistar… c’è solo Koolhaas,” chi ha pensato di poter fare come a quella di arte ci rimane di merda, chi è fotografo ha pur sempre di che campare e chi è emo come me va per sentimentalismo.

Quattro architetti.

Segui Sonia su Twitter: @acideyes