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L'America ha perso un'altra guerra

Il documentario di Eugene Jarecki mostra il fallimento delle politiche americane della guerra alla droga.

Eugene Jarecki è il documentarista americano che negli ultimi dieci anni ha scosso la coscienza degli USA con più stile di Michael Moore e meno chiacchiere di Oprah. Da The Trials of Henry Kissinger (2002) sui crimini di guerra della presidenza Nixon a Reagan (2011), il lavoro di Jarecki ha avuto come unico scopo mettere a nudo le menzogne del potere, e dove possibile indicare strade alternative. Il suo corto online Move Your Money (2010) ha avuto un ruolo fondamentale nel convincere milioni di americani a spostare i propri risparmi dalle grandi banche a sistemi di credito meno “infallibili”.

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Dopo un Gran Premio della Giuria al Sundance per Why We Fight (2005), critica al complesso militare-industriale americano dalla Guerra del Vietnam all’invasione dell’Iraq, Jarecki è tornato a vincere l’anno scorso con The House I Live In, che racconta con le voci di chi opera e la vive dall’interno la Guerra alla Droga americana. Dagli house projects a una fiera di prodotti carcerari in Florida, dai confini col Messico alle aule di tribunale e del congresso a Washington, il panorama che ne emerge è catastrofico.

Pur contando solo il 5 percento della popolazione mondiale, gli USA hanno il 25 percento dei suoi detenuti. Di questi, oltre 500 000 sono in carcere per crimini non-violenti legati alla droga. A partire dal 1971 la Guerra alla Droga, voluta fortemente da Nixon, è costata oltre 1.000 miliardi e ha causato 45 milioni di arresti. L'uso di droga tuttavia non è mai diminuito, mentre il settore carcerario è sempre più fiorente. In quarant’anni la Guerra alla Droga ha trasformato quello che era un comprensibile problema di salute pubblica in un incubo di giustizia criminale.

Domani Jarecki sarà in Italia per presentare THILI al Biografilm Festival di Bologna, prima dell’uscita nelle sale italiane con il titolo 25%. Dopo averlo visto, circa un mese fa, ho subito chiesto agli organizzatori di Biografilm di poter parlare con lui.

VICE: L’uso della parola “guerra” non è già di per sé un modo sbagliato di porre la questione? Una guerra presuppone un nemico, che non è più la droga in sé ma chi si droga, quindi lo stesso popolo americano. E in guerra a nessuno viene chiesto di comprendere le ragioni del nemico.
Eugene Jarecki: L’America ha imparato dalla storia che, soprattutto in epoca “democratica”, se deve svolgere una politica contraria agli interessi della popolazione ha bisogno di una ragione forte, capace se possibile di annullare lo spirito critico. Una guerra, o la minaccia di una guerra, può essere usata da chi ha il potere per agire senza il consenso del governo e del popolo. Che sia contro il terrorismo, contro la droga o l’obesità, l’America usa la parola “guerra” per controllare le persone senza il loro consenso.

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È incredibile la corrispondenza che si trova, fin dagli inizi della storia americana, tra le leggi contro la droga e il razzismo.
La guerra alla droga dà al governo il potere di interrompere la relazione tra un essere umano e il proprio corpo. Questo potere può servire di volta in volta scopi diversi. Una volta era il desiderio di alcune amministrazioni locali di preservare la gerarchia sociale attraverso il controllo delle minoranze etniche. Prima i cinesi in California con la condanna dell’oppio, poi i neri con la cocaina, quindi i messicani con la marijuana, infine gli stessi bianchi—poveri—con le metanfetamine e ancora i neri con il crack. Notare che nell’Ottocento erano tutte droghe legali. Un paese come l’America, che si pone a baluardo di democrazia, libertà e uguaglianza, non può dire “Ehi, sto facendo una legge razziale,” per cui dirà “Sto facendo una legge su qualcosa che solo incidentalmente ha ripercussioni su un’etnia specifica, o su una classe sociale.”

Però fino al 1971 queste leggi avevano carattere locale.
Sì. Con la dichiarazione della Guerra alla Droga nel 1971, le leggi anti-droga diventarono un programma nazionale, assumendo tutti gli aspetti di una vera guerra, con l’escalation che produce l’industria della guerra e l’intasamento burocratico che ne consegue. Una volta che ci si invischia in una guerra, non è facile interromperla o chiamarsi fuori. Per cui si instaura un meccanismo in cui diventa necessario finanziarla.

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Serve una guerra per mantenere il controllo, ma non è poi detto che si riesca a controllarla. E ora sembra che la situazione sia sfuggita di mano.
La politica non è diversa dagli altri aspetti della vita, ci sono cose che controlli e altre che sfuggono. Quello che fa il potere è capitalizzare su queste ultime: quando a seguito dei danni causati da un’azione politica emerge un’area incontrollata, se hai già un sufficiente controllo sulla società presto o tardi controllerai anche quell’area. Per esempio, ci siamo sempre preoccupati delle droghe tradizionali—cocaina, eroina, metanfetamina—ma da un giorno all’altro si sono accorti che anche ossicodone e pseudoefedrina e altre sostanze facilmente reperibili in farmacia erano rischiose. “Che errore!” ci hanno detto, “Non ci eravamo accorti del disastro! Dobbiamo fare nuove leggi!” E così anche una difficoltà può essere sfruttata per aumentare potere e controllo, così che il sistema possa perpetuarsi in tutta sicurezza.

Uno scrittore italiano del secolo scorso ha espresso questa triste opinione del potere: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
È l’atteggiamento di chi porta avanti questa guerra. È vero che ci sono aree incontrollate, ma è anche vero che le si può assimilare gradualmente. Per questo bisogna valutare con cura le trasformazioni. Francis Scott Fitzgerald ha detto: “Civilizzazione è la capacità di tenere a mente due idee opposte nello stesso momento.”

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Questo mi fa pensare ai poliziotti e ai giudici che hai intervistato in THILI. “Facciamo il nostro dovere” raccontano, “ma allo stesso tempo sappiamo che questo sistema è sbagliato.” C’è una guardia carceraria che paragona quello che sta succedendo nelle prigioni americane al nazismo. Cosa dovrebbe fare chi lavora all’interno del sistema per cambiare le cose?
Deve trovare ispirazione e motivazione dalla comprensione profonda che ha del proprio lavoro, trovare la forza di parlarne con i colleghi, nella polizia e in tribunale, per non lasciarsi convincere dal modo in cui le cose funzionano ora. Ci vuole coraggio, e l’unico modo per trovarlo è l’unione con gli altri. La diffusione di THILI sui mass media serve a far sapere che ci sono molte persone all’interno del sistema che la pensano allo stesso modo, molte più di quante immaginiamo. Parte del mio lavoro è dare loro una voce. Sono un esempio ammirevole. Il coraggio di cambiare le cose è la linfa della democrazia.

Hai cercato espressamente persone con questo punto di vista?
No. Io cercavo persone con un’esperienza diretta, e quel che ho scoperto è che spesso le persone con un’esperienza diretta sono quelle con la visione critica più forte. Vedono l’insensatezza di ripetere le stesse azioni aspettandosi che il risultato cambi.

È ormai chiaro che la situazione è insostenibile anche a livello economico, perché questa cultura della disperazione non trova più mercato. Cosa succederà quando il sistema avrà toccato il fondo?
La domanda giusta è: qual è il fondo? In America il fondo viene spinto sempre più in basso. Abbiamo un talento per reinventare il fondo, ma questo non risolve i problemi. La guerra alla droga è costata così tanto e ha fatto così poco che il suo fallimento è ormai riconosciuto non solo dai liberali ma anche dai conservatori. Se i primi si preoccupano delle implicazioni umanitarie, i secondi sono preoccupati dai costi economici. Al governo si combattono su tutto, ma sono d’accordo sul fallimento della Guerra alla Droga. È probabilmente il più forte punto in comune di tutta la storia americana, per cui penso sia un buon momento per cambiare le cose. Il problema, ancora una volta, è come cambierà. Non si può lasciare la gestione della riforma a chi ha avuto il potere fino adesso e non ha fatto niente.

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Portando in tour THILI, quello che fai è proprio dare forza ai movimenti d’opposizione. Quali sono le reazioni che incontri? Non si alza nessuno per dire “No, bisogna sbattere i drogati in cella e buttare via la chiave”?
Succede anche questo, ma è raro. Gli americani sono più consapevoli di un tempo sulla fallibilità dell’America. L’11 settembre ci ha costretti a riflettere: perché ci odiano? Dove sbagliamo? Il governo al tempo fece di tutto per convincerci che no, non sbagliavamo, che quello era un odio senza ragione, folle: chi ci odiava, odiava la libertà. Ma quella in Iraq e Afghanistan è stata una grande lezione. Ci avevano detto che Saddam era dalla nostra parte, poi d’improvviso è diventato il nemico. Lo stesso per Bin Laden. E ora che il governo è in guerra contro la propria popolazione e commette errori ancora più grandi, nessuno crede più alle sue storie. Le persone vogliono vedere le prove e conoscere le responsabilità, e vogliono sapere se esistono modi migliori di affrontare il problema.

Ci sono altri paesi che hanno adottato un modello migliore?
Il Portogallo. È il modello esemplare di un paese che tratta le droghe con maggiore intelligenza e prospettiva. Undici anni fa ha decriminalizzato ogni possesso di droga entro certe quantità. Questo ha prodotto risultati fantastici: l’uso è diminuito tra i giovani, la diffusione di HIV è diminuita, le violenze legate alla droga sono diminuite, il carico di lavoro per la giustizia penale si è alleggerito e questo ha portato a un grande risparmio per lo stato. Il Portogallo ha preso una parte di questi risparmi e l’ha investita per creare uno dei più solidi sistemi di assistenza terapeutica al mondo, i cui risultati sono ecellenti.

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Non credo che i tempi per la legalizzazione in USA siano vicini, e neanche in Italia.
Io non sono per la legalizzazione.

Ah. Spiegami.
È la parola che non mi piace. Viene abusata e strumentalizzata, soprattutto dai suoi oppositori, per creare l’impressione che l’unica alternativa alla linea dura sia una folle deresponsabilizzazione del governo dal problema della droga, che lascerebbe così i “drogati” liberi di vagabondare per le strade, senza limitazioni e senza aiuto. Il governo USA ha seguito per quarant’anni un modello fallimentare di criminalizzazione e punizione, e non si può lasciare che ora se ne lavi le mani.

Un fotogramma da The house I live in.

Cosa ne pensi di Angela Davis e del movimento per abolire le prigioni?
Sono un amico e un ammiratore di lunga data della professoressa Davis. Lei offre un altro punto di vista sulla situazione: anche senza il problema della droga, gli USA sarebbero uno dei primi paesi carcerari. Se THILI mostra l’eccesso di condannare persone per crimini non-violenti legati alla droga, tutto un altro discorso è la facilità con cui si finisce in prigione in America, situazione da cui poi non viene offerta alcuna possibilità di riabilitazione. Se accettiamo che l’intera vita di una persona sia determinata da una singola azione avvenuta in chissà quali circostanze, la nostra visione come società è carente, e il nostro modo di rispondere al crimine è ottuso.

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Ci vuole tempo per un cambiamento.
Ci vuole tempo ma abbiamo cominciato un percorso. Vorrei vedere il governo prendere una strada responsabile per tassare e regolamentare le droghe. Cosa che sarebbe anche molto più redditizia per lo stato e più efficace nell’aiuto di milioni di persone.

Credo che il punto di svolta arriverà quando si troverà un modello economico più efficace per gestire il problema.
Sì. Bisogna che il settore sanitario introduca una tecnica per affrontare la dipendenza in grado di sottrarre gli affari all’industria delle prigioni. Quando proporranno un modello che dimostri la possibilità di recuperare i tossicodipendenti e allo stesso tempo risparmiare soldi, porteranno un argomento difficile da contestare. Ma siamo solo agli inizi.

Quali progressi si possono già notare?
Alle ultime elezioni, tre stati hanno cambiato le loro leggi in modo significativo. Grazie al voto dei cittadini, Colorado e Washington hanno legalizzato la marijuana, medicinale e non. La legalizzazione della marijuana è fondamentale per contrastare la Guerra alla Droga, e rallentare il flusso costante di arresti che la alimenta. Il terzo stato è la California, che alle elezioni ha votato a grande maggioranza (il 68 percento) per cambiare la legge “dei tre reati”. Prima di allora, al terzo reato venivi condannato a vita, a prescindere dal fatto che si trattasse di un’azione violenta o meno: rubare un panino poteva costarti l’ergastolo. Ora la legge si applica solo se il terzo reato è violento. Questo farà risparmiare allo stato di California 100 milioni di dollari all’anno. Presto anche altri stati vorranno risparmiare, riuscendo allo stesso tempo a fare qualcosa di buono.

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Hai viaggiato in 40 stati degli USA per realizzazre THILI. Quale pensi che sia il maggiore ostacolo per un cambiamento?
Ovunque tu vada l’ostacolo è sempre lo stesso: l’America è tenuta per le palle dai poteri corporativi. Chi è al governo manipola le leggi a uso e consumo di chi ha finanziato la sua candidatura. E nel caso del settore industriale delle prigioni, le risorse sono le più svariate. Il politico si alza la mattina e sa che per fare contento il suo benefattore deve passare leggi capaci di mettere in prigione più gente e più a lungo. Ma se si riesce a stigmatizzare questo processo come inumano e antidemocratico, e se allo stesso tempo si sostiene chi invece propone leggi che rafforzino il sistema sanitario, allora è possibile spostare il denaro da un contesto distruttivo a uno costruttivo. È una combinazione di resistenza popolare, critica illuminata e alternative sostenibili.

Perché hai scelto come titolo del documentario una canzone di Frank Sinatra?
Ho scelto in realtà la versione di Paul Robeson, successiva a quella di Sinatra. Cercavo un titolo che contenesse l’intera varietà dei temi trattati nel film, e che fornisse una prospettiva storica pur rimanendo contemporaneo.

È una canzone usata in un film alla fine della seconda guerra mondiale per contrastare le discriminazioni razziali e l’anti-semitismo crescente.
Infatti è anche un commento al fallimento americano per non essere rimasti all’altezza della filosofia anti-razziale degli anni Quaranta.

E hai chiesto di reinterpretarla a John Legend.
Sì. John Legend è riuscito a rendere attuale lo spirito e la potenza della canzone.

Un altro contributo fondamentale arriva da David Simon.
Sì. Se fosse per me David Simon avrebbe già vinto il Premio Nobel per la letteratura. È uno dei migliori contributi che l’America possa offrire al mondo.

Come forse saprai, VICE è famosa per la sua indulgenza verso l’uso di droghe.
Chi come me ha visto l’impatto distruttivo che la tossicodipendenza ha causato in America, ha difficoltà a parlare a cuor leggero della droga. Non contesto l’uso ricreativo delle droghe, è una scelta personale e ciascuno dovrebbe essere libero di farla. È anche vero però che l’America sta affrontando un’epidemia legata alla dipendenza. C’è una tremenda serietà nel mio modo di trattare il tema della droga, ma questo non ha nulla a che vedere con la scelta personale, se uno può scegliere da adulto informato.

Pensi sia chiara la differenza tra uso ricreativo e abuso?
L’uso ricreativo è tipico di una persona meno a rischio rispetto a chi deve affrontare una moltitudine di problemi ai quali la droga fa spesso da palliativo. Se vivi in una casa decrepita, sei senza genitori, non hai una buona scuola, nessuna possibilità, nessun sogno, la droga ha molto più fascino che per qualcuno la cui vita ha delle prospettive.

Quello che mi è piaciuto del tuo documentario è che non esprimi un giudizio sulle droghe.
Non discuto sul valore d’uso delle droghe. Alcune persone ne ricavano senza dubbio un ottimo aiuto: se Thomas Edison non si fosse fatto di coca, probabilmente non avrebbe dato i suoi contributi in campo scientifico e tecnologico. Lo stesso dicasi per Steve Jobs e tanti altri. Le droghe hanno senza dubbio valenze positive nella storia dell’umanità. Ma THILI si limita all’innegabile fallimento della Guerra alla Droga in America, e all’impatto sproporzionato che questa guerra ha avuto sulle comunità povere, in special modo di colore. Voglio mostrare l’ingiustizia e la disfunzione di tutto questo, e il costo immenso che ha comportato. È necessaria una riforma urgente. Questo è il mio unico scopo.

Segui Andrea su Twitter: @cosimospanti Il documentario di Eugene Jarecki uscirà nelle sale con il titolo 25%, distribuito da Biografilm Collection. Per consultare il programma della nona edizione del Biografilm festival, a Bologna dal 7 al 17 giugno, cliccate qui.