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A9N6: Il settimo annuale di narrativa

Felicità

Un racconto di Hannah H. Kim estratto dal nostro annuale di narrativa.

Foto di Sorryimworking.

Mia madre comprò una casa con il suo gruppo di preghiera. La casa era un edificio dei primi anni Ottanta, spaziosa e a un piano con un portico tutt’intorno. Il gruppo di preghiera appese uno striscione alla ringhiera che diceva, RITIRO DELLA SANTA MADRE, e sotto, . L’uomo che ci viveva prima era anziano, e i figli avevano fretta di vendere la casa a poco prezzo perché era sul mercato da molto. Lasciarono dentro tutti i mobili e le stoviglie e le tende. La famiglia era nel campo della falegnameria, e il tavolo da pranzo in particolare era bellissimo—intarsiato con legno di quercia, solido e snello.

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Mia madre considerava la casa come l’inizio di un sogno più ampio che condivideva con Padre Park, un prete gesuita ed erudito—il suo consigliere spirituale. Si erano messi in società con altre cinque famiglie per acquistare la proprietà la settimana prima che venisse tolta dal mercato, e mia madre ne parlava sopraffatta da tutti i piani che avevano. Per ora era solo una casa come tante, ma veniva venduta con una dependance, però priva di acqua corrente e riscaldamento, e un terreno di quattro ettari su cui potevano costruire e ingrandirsi. La mia famiglia era nell’edilizia e nella gestione delle proprietà. Avevano costruito scuole e centri anziani e condomini in tutta Los Angeles e avevano appena portato a termine i lavori di un gazebo in stile coreano vicino al parco su Olympic. L’azienda aveva fatto fortuna negli anni antecedenti la recessione, e da allora lottava per tenersi a galla.

Dopo l’acquisto della casa, la Compagnia di Gesù notificò a Padre Park che avrebbe fatto ritorno all’Università di Sogang a Seul. Una notizia improvvisa. Il gruppo di preghiera e mia madre, soprattutto, erano inconsolabili. Dopo la sua partenza, il gruppo aveva continuato sul tracciato, passando insieme ogni fine settimana al loro ritiro, dove pregavano e andavano a messa alla chiesa di Nostra Signora delle Nevi a mezz’ora di distanza, su una strada che si inerpicava in montagna. Affittarono la casa ad altri gruppi parrocchiali a un prezzo forfettario per notte.

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Qualche mese dopo la transazione, mia madre cominciò a parlare di quanto fosse difficile tenere la casa, e di quanto fosse frustrante distribuire i lavori e le responsabilità tra i membri della comunità. Diceva che le bollette dell’acqua erano ben più alte del mutuo, e che il terreno, anche se molto vicino ai sentieri di trekking e agli impianti da sci, era essenzialmente rinchiuso in un deserto inaccessibile di yucca a causa della superstrada e dei ranch recintati tutt’intorno. Gli ulteriori progetti per la proprietà avrebbero dovuto attendere ancora non si sapeva quanti anni, a causa dell’esiguità delle risorse. Iniziò a pensare se magari un altro gruppo di gesuiti avrebbe potuto vivere nella proprietà.

Assistetti a questo cambiamento nell’entusiasmo di mia madre mentre vivevo in Corea del Sud. Allora, lì, tutto mi sembrava così lontano, venivo a sapere delle difficoltà sul filo del telefono e attraverso uno schermo, non solo della mia famiglia, ma dei miei amici, che non riuscivano a trovare un lavoro, e anche del declino e della vicina rovina del museo d’arte in cui avevo lavorato, e delle ristrettezze finanziarie che sembravano prostrare tutti. Quando tornai, notai quanto affaticate fossero diventate le facce dei famigliari.

Commisi l’errore di arrivare alla casa di preghiera, il ritiro, di notte. Era inverno, e per tutto il pomeriggio avevo guidato verso il sole che tramontava. Mi ero fermata a mangiare un hamburger e fare benzina. Quando uscii dall’autostrada e cominciai a salire con cautela per i tornanti, l’oscurità cadde spessa intorno ai fasci di luce dei fari.

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La prima cosa che dovevo fare, da istruzioni, era attivare il contatore dell’acqua situato sotto una bassa recinzione di legno di là dalla strada. Aprii un cassonetto nel garage e trovai una torcia e due arnesi di metallo—una maniglia per aprire lo sportello del contatore, e un bastone con in cima una pinza per girare la valvola. La strada che dovevo attraversare era una sporca strada informe con un cartello, incrocio tra Twin Pines e Skyridge. C’erano quattro caselli dove stavano i contatori. Ne aprii tre, il quarto congelato non si apriva e piegai l’arnese finché il metallo si spaccò dalla plastica. Usai la pinza per girare tutte le valvole, e i manometri sembravano tanti orologi e non si muovevano. In un contatore la freccia si mosse, anche se lentamente, e quando rientrai in casa lo sciacquone e il lavandino erano ancora in secca. Non ricordavo come riportare la valvola alla sua posizione originaria, e mi vidi responsabile del congelamento e dell’esplosione dei tubi del vicinato.

Quella prima notte, feci avanti e indietro tra i contatori e la casa, ogni volta trovandomi davanti al busto di un Cristo piangente vicino all’immondizia. La statua era piccola e di un bianco scolorito, torreggiava dove il portico di cemento conduceva al garage e attraeva i raggi della torcia ogni volta che ondeggiavano tra i colori neutri dei cespugli e dell’immondizia. Mi fermai di fianco alle porte scorrevoli della cucina e attesi che il busto si voltasse a guardarsi sopra la spalla, che si girasse con la sua corona di spine e la testa contorta sul lato.

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C’era stato un tempo in cui non ero in grado di stare seduta e ferma nella quiete immobile della notte. Prima di andare all’estero, una volta al tramonto mi ero svegliata da un lungo sonno e avevo visto il sole rosso cadere. Avevo paura. Nel deserto, nelle sue notti senza fine, l’aria d’inverno era muta e fredda, e potevo guardare su, dritto alle stelle, dritto al passato. Se non c’era un Dio, mi chiedevo a chi stessi guardando, a chi si rivolgesse il mio io interiore.

***

Mi trasferii in Corea da sola quando avevo 21 anni e ci vissi per due anni. La prima città in cui trovai un lavoro fu Incheon, nel distretto di Yeonsu-gu. C’era un ponte illuminato che connetteva l’aeroporto internazionale con questa cittadina industriale sulle coste del Mar Giallo. L’acqua non la vedevamo, ma sentivamo l’odore del sale. Insegnavo inglese in una scuola terribile e avrei potuto trovare qualcosa di molto meglio se non fossi stata incredibilmente ansiosa di andarmene dagli Stati Uniti, quando me ne andai. Ci rimasi per sette mesi, e poco prima che la scuola finisse in bancarotta mi licenziai e mi trasferii a Seul, nel distretto di Kangnam, per un altro anno.

Quando riporto alla mente questo periodo della mia vita all’estero, è difficile per me ricordare senza ira, e per anni dopo che sono ritornata non ero in grado di farlo senza che la mente si chiudesse in spire per quello che vi era successo. Quando tornai, bevvi da mattina a sera il giorno che gli amici di mio fratello e io gli organizzammo una festa di fidanzamento nel giardino sul retro. Trovai lavoro più in fretta di quanto mi aspettassi quando un pezzo grosso si offrì di mettermi in contatto con sua sorella, che lavorava in un giornale di Koreatown. Mio fratello aveva avuto il suo grande matrimonio fastoso nella cattedrale, e io vivevo in casa con la mia famiglia e lavoravo e portavo il cane a passeggio e facevo bozzetti di nudi a un corso serale del community college.

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Ovviamente, allora non avevo realizzato che il mio cuore si era chiuso. Non sapevo ancora quanto dura sarebbe stata l’espiazione che avrei dovuto sopportare, o chi sarebbe diventato Jacob per me dopo che ci incontrammo il primo giorno di lavoro al giornale. Il quartier generale era a Seul, e lui e io eravamo tra i quattro soli di lingua inglese della redazione di Los Angeles. All’inizio mi chiedeva spesso di tradurre, e io dicevo che non ne ero capace. Non parlavo quasi il coreano. Ci incontravamo sul tetto e ci sedevamo sui mattoni di cemento nell’ombra e guardavamo la foschia pomeridiana che si depositava sulla scritta Hollywood che vedevamo in piccole lettere bianche in fila sulle colline nella distanza. Mi parlò di un amico che stava tornando dall’Afghanistan. Tutto quello che voleva fare, per mesi, diceva, era camminare per le pianure. Gli dissi che doveva andare in Mongolia. Sarebbe stato così bello, ma ci sarebbe stata così tanta tristezza nel cielo.

Immagino che fosse in Corea che avevo imparato a essere sola, motivo per cui durante il mio secondo anno a casa andai al ritiro per tornare alla solitudine. La casa era così fredda la prima notte che la bottiglia d’olio nell’armadietto della cucina congelò. Accesi il riscaldamento, sistemai una lampada a infrarossi sul tappeto del salotto. Era la casa di mia madre, mi dicevo, e non dovevo avere paura. Su ogni parete e su ogni superficie, le facce di angeli e martiri e santi alzavano gli occhi da vetri coperti di polvere. Riconobbi un dipinto appeso in una cornice d’oro sopra il divano, Il dipinto dei martiri coreani benedetti, perché i miei genitori avevano appeso lo stesso dipinto nella teca sopra il caminetto.

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Il salotto del ritiro aveva finestre aperte a occidente. Era spazioso e dava su ogni altra stanza della casa. C’erano molte poltrone e lampade enormi. Dal divano riuscivo a vedere entrambe le porte scorrevoli in cristallo e la porta d’ingresso, tutte nel mio campo visivo, in caso qualcuno entrasse da una e io fossi costretta a scappare da un’altra. La cucina si univa a un’estremo del salotto con due porte senza battenti. A nord c’era una grande sala, con una vetrinetta e un tavolo da pranzo di quercia, che dava nel salottino dove da un angolo sorgeva una statua bianca di Maria, alta quasi un metro. Tre divani erano rivolti uno verso l’altro in questa stanza, e tante, tantissime sedie stavano impilate in file ordinate.

Il corridoio che si inoltrava dal salotto verso sud conduceva a un piccolo bagno sulla sinistra, a una camera da letto sulla destra, e a una porta che dava sulla camera padronale alla fi ne del corridoio. La porta si apriva esattamente ai piedi dell’ampio letto. La luce del corridoio proiettò la mia ombra sul tappeto, sottile e lungo. Un crocifisso stava appeso al centro della parete. C’era una scrivania e una tastiera e nient’altro. Entrai nella stanza più piccola. Questo crocifisso riuscivo a vederlo meglio, Cristo emaciato appeso per le mani, le membra sottili e fragili come legnetti. Mi arrampicai sul letto e lo tirai giù.

Nel corridoio e in tutte le stanze levai dai muri le statue i dipinti e i santini che mi spaventavano. Li girai, li misi negli armadi, e chiesi scusa a ognuno e chiesi loro di capirmi. Lasciai al suo posto la statua di Maria, perché era troppo grande, i dipinti dei martiri, e tutto quello che rimaneva nella camera padronale perché non volevo entrare, il più lontano possibile da tutte le porte.

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Sedetti davanti alla lampada a infrarossi con la sua faccia rossa e lucente e tolsi tutti i vestiti che avevo addosso per cambiarmi. Quella notte avrei dormito sul divano con tutte le luci accese. Quando vivevo a Kangnam, tutti si vestirono per un’estate intera da diavoletti, con le corna rosse e le code. Si riversavano in strada a tutte le ore per vedere i Mondiali. Tutte le sere alle dieci, una giovane donna percorreva le stradine, di negozio in appartamento in ufficio e urlava. Tutto quello che capivo della sua litania era Appa—“Padre.” I foglietti lucidi delle prostitute insozzavano le panchine di marmo. Uomini d’affari cadevano addormentati in giacca e cravatta per strada. L’estate era umida e calda e con rovesci monsonici, e una di queste notti nel mio appartamento, mi entrò dentro il diavolo. Parlammo per un po’ della morte inevitabile e di come avevo sempre saputo che me ne sarei andata da questo mondo per mia decisione, era solo il quando che non sapevo. Ma il momento non era quello, e lui se ne andò, e il giorno dopo il sole sorse e io andai al lavoro e lì non c’era più nulla di cui avessi paura. Non ho mai più incontrato il diavolo come allora. La luce della lampada ardeva e mi scaldava il petto.

***

Per anni ho fatto incubi in cui scopavo e mi svegliavo sudando e con il corpo teso e tutto mi faceva male.

***

Il riscaldamento ronzò tutta notte, e al mattino la casa era calda. Aprii tutti gli scuri e lasciai entrare la luce del sole e il cielo era tiepido e blu e ti diceva benvenuto. Misi gli stivali e attraversai la strada fino ai contatori, e il quarto sportello si aprì con facilità perché il ghiaccio si era sciolto. Il busto a fianco della strada sembrava più piccolo di prima. La camera padronale aveva l’unica doccia funzionante, ma era l’unica stanza ancora fredda. La attraversai correndo fino al bagno dove scartai una saponetta alla lavanda nuova. C’era una doccia, e una stretta finestra sopra, da dove avrei potuto fuggire strisciando.

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A quanto pareva, ero andata al ritiro sola per disegnare e scrivere, e la settimana successiva dormii sul divano e guardai la luce viaggiare da una finestra all’altra, dal giorno alla notte. Le mattine le passavo al tavolo di quercia di fronte alla finestra che dava a est. Organizzai un piano di lavoro con un blocco per gli schizzi sul tavolo, e se mi alzavo prima dell’alba potevo vedere il sole sorgere e cambiare colore attraversando la pagina. Poi tornò quella tristezza incredibile, si era gonfiata dentro di me e aveva invaso anche il sole. Ricordavo le cose che avrei voluto non sapere, e il blu si infittiva sull’orizzonte, e la luce che saturava le nuvole si faceva abbagliante.

Se il passato non esiste, dove va a finire? Viene assorbito nel nostro essere, in un posto il più umano e velato e intoccabile? Provavo un tale senso di estraniamento dai miei ricordi che mi costringevo a guardare indietro; e indietro, e ancora indietro. Ricordavo le due settimane di primavera in cui si erano aperti i boccioli di ciliegio, e che erano arrivati i temporali e in un pomeriggio avevano soffiato via tutti i fiori. La neve si accumulò sugli alberi e cadde quella notte dai rami. La mattina, la primavera era tornata e prima che iniziassi a tracciare a carboncino sul foglio, mi piaceva, sempre, fare scorrere la mano su e giù, da un lato all’altro della pagina, per toccare il momento in cui comincia il vuoto.

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Pranzavo e riposavo, poi mi davo a passeggiate quando il pomeriggio si faceva più caldo a fianco alla strada provinciale e ai ranch. C’erano montagnette di neve che si raccoglievano nelle zone d’ombra. Le macchine sfrecciavano per le strade e mi piaceva moltissimo che gli alberi di yucca fossero così brutti, con i pantaloncini pelosi e le gambe spinose, e come sembrasse che tutti cercassero di tenersi agguantati al cielo. Una voce vagava nella mia mente disegnando dei cerchi e diventava fi gure prima che mi addormentassi la notte. Vedevo il mio corpo tagliato in mille quadrati perfetti. Ogni notte la figura si faceva più delineata e più a fuoco—vedevo i cubi gelatinosi dei miei seni, e perle rosse di tessuto grasso che piangevano dalla mia pelle informe.

Un mio amico del college aveva due pistole—me le aveva mostrate una notte mentre bevevamo sul portico sul retro della casa di suo zio in downtown, di fianco all’avocado. Una era una Glock, l’altra un piccolo revolver. Le tirò fuori dalle loro scatole e mi disse le tre regole della sicurezza, che ora come ora non riesco a ricordare. Aveva caricato il revolver e me l’aveva appoggiato in grembo, perché ne sentissi il peso. Lo presi in mano per qualche secondo, e lui lo riprese subito e lo disarmò. Ricordo quel peso come una realtà che mi si materializzava in grembo, un senso di potere simile a quello che avevo provato sparando con una mitragliatrice in un poligono in Vietnam. Il soldato, allora, mi aveva aggiustato un paio di cuffie rotte intorno alla testa per proteggermi le orecchie, ma ad ogni sparo un fischio acutissimo mi sconquassava l’udito, e questo amico con le pistole era sempre stato carino con me e mi diede il revolver quando gli dissi che volevo andare a sparare nel deserto con mio fratello.

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Mi sentivo ossessionata e potente e mezza impazzita per l’eccitazione quando pensavo alla pistola, come quando pensavo ai quadratini di sangue. Due cani abbaiarono e mi accompagnarono su per il sentiero dove restai in piedi a guardare un uomo che caricava legna sul suo pick up giù, vicino alle gole. Dal pick up usciva musica country e l’uomo cantava, e i cani mi leccarono le mani e avevano il pelo corto e ispido come capelli. Poi tornai coi piedi per terra, sentii lo sporco che sguazzava e scricchiolava sotto le suole, e quanto caldi fossero i raggi del sole sui miei capelli. Persi quel potente sentimento, quello che poteva portarmi via dalle regole della realtà quando volevo, e mi ritrovai a terra, proprio come mi succedeva quando lavoravo o parlavo ai miei amici. Ridiscesi per il sentiero fino a casa, i cani erano corsi avanti, poi dietro le mie gambe.

***

Mio padre una volta andò a Pyongyang. Mi aveva chiesto se volevo andare e io avevo detto sì, ma lui era il presidente di una qualche associazione che aveva organizzato il viaggio con il governo della Corea del Sud, e così avevo i miei dubbi che fosse davvero serio sul fatto che andassi anch’io. Tornò con enormi rotoli dipinti di paesaggi—capanne arrampicate in montagna con cascate roboanti. Disse che la gita era stata molto bella e che tutti erano stati molto gentili. Avevano girato Pyongyang ed erano stati a una cerimonia dove i governi della Corea del Nord e del Sud riunivano le famiglie divise, una volta all’anno. Accennai a un’amica di Daegu quanto fosse triste che il paese fosse ancora diviso in due, e lei disse che non ci aveva mai pensato davvero e che non le interessava granché. “È passato così tanto tempo,” aveva detto. “Si sentono popoli diversi.” Mio padre aveva appeso uno dei rotoli sopra il divano in ufficio dove riposava dopo pranzo. Appese l’altro in sala da pranzo, a casa nostra, e il dipinto mi metteva molta ansia perché la cascata nel centro sparava in fuori a campitura piatta e rigida come un pezzo di legno senza rocce sotto, nemmeno immaginarie, a reggere l’acqua.

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Quando ero tornata dalla Corea avevo visto la mia famiglia torcersi le mani per i soldi con molto nervosismo per mesi. In realtà se le torcevano da anni, ma per molto di quel tempo non me ne ero accorta, e poi ero partita. All’improvviso mi iniziai a preoccupare che la nostra azienda sarebbe andata in bancarotta e che avremmo dovuto vendere tutto e perdere la casa. Trecento inviti vennero spediti per il matrimonio, e in un attimo divennero cinque. La maggior parte degli invitati erano della mia famiglia, così mio padre vendette gli uffici per pagare le spese del matrimonio e si trasferì in un piccolo ufficio che avevano preso in affitto su Wilshire. I soffitti erano bassi e le pareti rosa salmone. La prima volta che ci andai, mia madre si sedette con me e disse, “Dio è con noi quindi tutto bene.”

“Mi sento male,” dissi. “Ti fa male la testa?”

“No, è solo che non sto bene. Triste.”

“Di cosa devi essere triste? Non hai il mutuo, non hai grandi responsabilità. Goditi il tuo tempo, riposa.”

“Non posso.” “Perché?” “Non lo so.”

Mi prese la mano. “Allora vai da Gesù,” disse. “Metti le tue preoccupazioni e i tuoi problemi in un borsa, e dalli a Lui, e Lui li reggerà per te.” Impose le mani sulla mia testa e parlò una lingua che non sapevo. Le chiesi cosa stesse dicendo. “Non importa,” scrollò le spalle.

Dovetti confessarmi per poter fare la comunione il giorno del matrimonio di mio fratello, e non ci andavo da sette anni almeno, a confessarmi. Andai a una messa per i giovani una sera di sabato con dei vecchi amici e mi inginocchiai sola in un confessionale senza luce di fianco a un prete con la faccia protetta da una grata.

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Quando ne uscii sedetti nei banchi e immaginai quanto sarebbe stato carino da parte degli angeli di pietra che si strappavano dalle travi venire in mio aiuto.

Avevo imparato molte storie sul sonno dalla chiesa. Quando ero piccola, avevamo la nostra cappella satellite con preti inviati da una diocesi sudcoreana, e i bambini e i genitori avevano due messe separate—inglese al mattino, coreana al pomeriggio. Ed era stato proprio durante queste attese che avevo imparato che lo spazio tra la veglia e il sonno era il più pericoloso, il momento in cui i nostri spiriti erano in entrambi i posti e molto vulnerabili a quello che i nostri corpi avevano fatto.

Tornai dalla mia passeggiata quel pomeriggio, la voce diceva in cerchio che avrei dovuto prendere il revolver dalla macchina, tornare e bere un sacco. Non dovevo fare nulla. Potevo solo sedermici, il revolver e io, lì. Era giovedì e da poco erano passate le tre. Entrai in cucina e accesi la radio collegata alla caffettiera. Ogni settimana Jacob parlava dei Clippers sulla ESPN. Non seguivo il basket e non capivo mai di cosa stessero parlando, ma lui e l’altro presentatore ridevano e discutevano e litigavano, e la sua voce riempiva la stanza con la vita che aveva in lui e me lo sentivo vicino di nuovo. Si stavano addentrando in un “azione per azione” della partita, io aprii le finestre e ripulii i tavoli dalla polvere e i paralumi e gli scuri. Un peso si sollevò dalla casa. Mi sentii meglio.

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Erano mesi che mi avevano licenziato dal giornale. Una discussione su un articolo sul giorno di San Valentino che avevo scritto per la sezione dedicata ai bambini era degenerata, e mentre raccoglievo le mie cose e mi dirigevo alla macchina Jacob mi aveva chiesto innanzitutto perché l’avessi fatto—perché avessi scritto di assassinii e massacri e antiche festività in cui ragazzi prendevano i nomi delle ragazze da un contenitore e poi le fustigavano con strisce di pelle animale imbevute di sangue. “Non lo so,” dissi. “Immagino di essermi stancata di scrivere di pinguini e cittadini modello e compiti e merdate.”

“Penso che ti saresti potuta salvare anche dopo,” disse. “Quello che ti ha fregato è stato chiamare _____ puttana.”

Andammo a letto insieme poco tempo dopo e poi smettemmo di parlarci per mesi perché c’erano di nuovo le voci, dicevano che avevo fatto una cosa cattiva e gli cambiavano la forma della faccia.

Smisi di pulire quando il suo segmento stava finendo e non volevo che se ne andasse e mi lasciasse sola di nuovo. È il momento in cui la solitudine colpisce più forte, il momento subito dopo che le voci smettono. La notte dopo il matrimonio, le damigelle condividevano una stanza d’albergo, e mi svegliai per cercare dell’acqua e camminai lungo i corridoi vuoti e silenziosi. Jacob continuava a tornare da me nei sogni. Mi ricordavo del mattino in cui il sole era sorto da dietro i palazzi e ci aveva accecato gli occhi. Gli scrivevo lettere quando non riuscivo a dormire, gli chiedevo se era diffi cile per lui vivere dentro se stesso, se sentisse qualcosa d’altro che gli parlava nelle ore zitte della notte. “Non ho mai sentito nessuna presenza ‘dentro di me,’” rispose. “A volte non sento nemmeno me stesso.”

Alle quattro guardai il cielo farsi scuro dalla finestra a occidente, e in autunno quando il pomeriggio si faceva notte, il sole calava lungamente e lentamente per ore, ma in inverno, il cielo diventava nero d’un colpo, come se qualcuno avesse spento una luce. C’era una quieta immobilità nell’aria esterna senza il sole, e sentivo che iniziava a infilarsi anche in casa. Chiusi tutti gli scuri e mi sedetti di nuovo sul divano. “Caro Jacob,” scrissi. “Se ti stessi immaginando me che ti scrivo da una vecchia casa in mezzo al nulla, direi che hai proprio ragione. Ti piacerebbe. Vieni a trovarmi. _____ Twin Pine Road Wrightwood 92397.”

***

Il primo giorno che mi ero svegliata nell’appartamento di Incheon, avevo incontrato una mia nuova collega e una sua amica per il caffè. La collega divenne una mia buona amica, ma qui non è importante perché è la sua amica che ci parlò della ragazzina trovata quella mattina sotto un ponte con le interiora tirate fuori. Contestammo che era impossibile, anche se era piccola, che la forza del sesso non era abbastanza per tirarle fuori l’intestino da in mezzo alle gambe. Più tardi, la collega si era scusata con me per quella notizia il mio primo giorno. Le dissi che non mi aveva scosso. Disse che quello che era successo era che lo stupratore aveva usato uno sturalavandini per tirar fuori il proprio sperma, ed era così che le interiora della ragazzina erano uscite.

***

Ricevetti un messaggio da Jacob il mattino dopo. “Se vuoi, posso venire stasera.”

Per preparare tutto, avrei dovuto lasciare la casa e andare al negozio e comprare cose come legna da ardere e vino e cose buone da mangiare. Rimasi in piedi in cucina, accanto alla lunga finestra di fianco al lavello. Sembrava insopportabile, uscire e guidare giù per i tornanti e per le strade dove ci sarebbero state altre persone. A distanza, su per la collina, i cani stavano a guardia della porta del vicino. La camera padronale aveva l’unico letto grande abbastanza per farci entrare tutti i due. La stanza sarebbe stata fredda. Il ciclo mi era cominciato il giorno prima, che significava che se ci fossimo spogliati nudi, ed ero certa che l’avremmo fatto, allora il sangue avrebbe coperto le lenzuola e le nostre cosce.

“Sì, ci sarò,” risposi.

Già mi mancava l’alba e sedetti al tavolo senza aprire gli scuri per osservare il lavoro che avevo fatto. Mia madre chiamava Padre Park il suo compagno spirituale. Per un certo periodo aveva digiunato e indossava solo un vestito marrone e meditava sul divano per ore durante la notte. Mio padre diceva che la sentiva andare alla deriva, lontano da lui. Lui voleva andare alle cene sociali e giocare a golf e guardare film insieme. Lei diceva che anche lei lo sentiva, e che quasi poteva galleggiare fuori da sé. Forse, diceva, avrebbe potuto levitare lontano e non tornare mai più. Quando disegnavamo figure in classe, i corpi erano bellissimi. Per anni non riuscii a parlare in modo che gli altri potessero capire. Volevo allungare una mano e toccare tutti i modelli—ognuno doveva essere costruito dal di dentro. Il mattino dopo, al ritiro, mi alzai e notai come uno dei muri della camera padronale fosse luminoso. C’era una porta scorrevole di cristallo dietro a tende avorio che non avevo fatto abbastanza attenzione da vedere. Mi ricordai del contorcersi sotto un corpo con la paura come fiamme. Ma la stanza era silenziosa, e Jacob dormiva. Per lungo tempo guardai come la luce del sole si aprisse come una pozza tra le ombre e ristesse sulla nostra pelle.

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