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Perché True Detective non è la rivoluzione

Ora che la prima stagione di True Detective è terminata e tutti hanno gridato da più parti alla serie definitiva, possiamo interrogarci sul perché di tanto clamore.

DISCLAIMER: Se non avete ancora visto tutti e otto gli episodi della serie, questo pezzo potrebbe contenere degli spoiler.

In Quinto Potere di Sidney Lumet, una assistente sintetizza a una splendida Faye Dunaway, dirigente di un network televisivo americano, alcune sceneggiature in ognuna delle quali c’è sempre un tizio “burbero ma dal cuore d’oro.”
Era il 1976.
Trentotto anni dopo, il mondo, o sarebbe meglio dire le bacheche di Facebook sulle quali una piccola parte della popolazione fa professione quotidiana di apostasia nei confronti dell’orrido “sceneggiato italiano” e le sue legioni di preti, medici e sbirri buoni, ha gridato a più voci alla rivoluzione e alla serie definitiva per l’arrivo di True Detective e per il “detective Rust”, “un burbero dal cuore d’oro” che ha letto più libri dei suoi omologhi un po’ scemi e alcolizzati degli anni Settanta.

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Ora che la prima stagione di questa serie antologica è terminata (ogni anno storia, personaggi e location diverse, altra cosa che ha eccitato gli animi), si può tranquillamente affermare che la portata della sua tanto decantata visionarietà si limita al rinnovamento di un ambito ben specifico: quello del crime con potenzialità generaliste. Generaliste per gli standard di un Paese che sa produrre narrativa di qualità, ovviamente. In True detective non c’è nessuna tragedia contemporanea, né collettiva come in The Wire, né personale come in Breaking Bad: non siamo di fronte ad un capolavoro, ma a una serie interessante soprattutto per i suoi elementi di sperimentazione.

In True detective c’è l’eterna lotta fra il male e il bene che però occupano campi ben definiti, opposti e inconciliabili. Alla fine di un lungo percorso di morte si compie l’esorcismo e l’equilibrio si ricompone, la classica struttura del giallo.
Perché dunque tanto clamore?

Prima di tutto, alcune cose nella struttura narrativa di True Detective funzionano molto: i diversi piani temporali e il gioco di verità e menzogna nel racconto del passato fatto dal presente permettono la creazione di una tensione che il plot da solo non produrrebbe. Detto questo, bisogna intendersi su che tipo di crimesia True Detective. Prima ancora che andasse in onda l'episodio pilota, Nick Pizzolatto aveva dichiarato al New York Times, “True Detective non è più complicato del fatto di usare l’indagine attorno a un crimine come una specie di formaggio fuso in cui immergi un’indagine sul carattere umano.”

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Frase che, oltre a dirci che è meglio tenere Pizzolatto ad almeno 300 metri da una metafora, rispecchia effettivamente quelle che sono le priorità della serie. Nel corso delle otto puntate, il plot riguardante l’indagine è tutt’altro che a prova di bomba: a un certo punto ad esempio un detenuto, potenziale testimone chiave, muore, e Pizzolatto non riterrà mai necessario farci sapere chi l’ha ucciso. Peggio ancora, la svolta finale dell’indagine arriva in una maniera talmente estemporanea che se fosse accaduto alla terza puntata avrebbe funzionato ugualmente. Allora perché le altre cinque? Il problema che si percepisce chiaramente nello snodarsi del plot è che come in quasi tutte le storie di serial killer il male è assoluto, cupo e si scopa una consanguinea, il bene è retto, magari non perfetto (nel caso del secondo, e più umano, detective Martin) ma sa sempre bene dove sta il confine. La struttura è manichea e questo non permette ai personaggi secondari di esprimere se stessi. In più il ritmo della serie è lento come i discorsi soffiati fuori da Matthew McConaughey e nello spazio pneumatico che si crea attorno ai due protagonisti nessun comprimario riesce ad andare oltre lo stereotipo. Emily Nussbaum sul New Yorker ha scritto, e non era un complimento, che True Detective è una serie con così tanta gravitas che potrebbe candidarsi alle presidenziali.

E qui veniamo al punto: uno dei motivi di tanto interesse è sicuramente il personaggio del nichilista Rust, interpretato da Matthew McConaughey, recente premio Oscar per un film dove nessuno dice la parola “fessa”.

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Rust mentre fissa il muro.

Presentato nel più classico dei modi con il nome di “tax man” e nel ruolo di polarità “nerd” della coppia di investigatori, diventa via via più interessante quando ci spiega quello che sappiamo da quando abbiamo imparato a leggere qualcosa che non fosse l’etichetta dei biscotti: la vita fa schifo, l’universo è in preda all’entropia, strusciarsi di nascosto su un orsetto di peluche non è esattamente come scoparsi una modella ecc ecc.

Summa del Rust pensiero.

Diciamo la verità: il detective Rust ha sicuramente un suo fascino, e intendo anche per i maschi eterosessuali. Come non invidiarlo per il fatto che può partire con le sue geremiadi nichilistiche e ricevere in risposta dal suo partner Martin alternativamente qualcosa di brillante tipo “sei il Michael Jordan dei figli di puttana” (qui Pizzolatto vendica il formaggio fuso) o male che vada segnali di sfinimento provenienti dal mondo delle sfumature? Al contrario di quello che succede ai nichilisti che abitano il mondo reale, nessuna coppia che l’ha invitato a cena scuote la testa compatendo le sue parole piene di razionalità, né fa sfoggio del tipico senso di superiorità sociale di chi si sveglierà nel cuore della notte per pulire il culo di un bambino.

Questo ovviamente è molto bello, ma nel corso della stagione ci si rende conto in fretta che il personaggio vero dei due detective è l’altro: Martin. Con i suoi conflitti, la sua umanità, il personaggio interpretato da Woody Harrelson ha una profondità e delle sfaccettature che lo rendono tridimensionale, cosa che non si può dire di Rust, il quale nonostante tutto il suo sbandierato nichilismo è un moralista di dimensioni giacobine. Con un passato da sbirro ninja infiltrato e un futuro da alcolizzato cronico senza troppe consegue fisiche, il detective è da un lato l’incarnazione dell’uomo in rivolta metafisica di Camus, dall’altro una persona che pur trovando tutto assurdo è provvista di un senso della giustizia pressoché totalitario sul quale modella ogni sua azione.

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Questa sarebbe ancora una posizione interessante, se non fosse che se i filosofi hanno ucciso dio, il detective Rust ha ammazzato i “non detti” e quando apre bocca due volte su tre tira fuori un monologo sull’assenza di senso dell’universo, e le volte restanti fa un lungo “mhhhh-hhhhhm” che preannuncia una tirata sul mondo che si disgrega e le stagioni che non sono più quelle di una volta; il che, come dire, toglie alla storia un po’ di imprevedibilità.

Il personaggio di Rust è la punta dell’iceberg di quell’estetizzazione varia e sostanzialmente muta onnipresente nella serie e che ha entusiasmato così tanto parte del pubblico. I paesaggi, le location, l’abbigliamento dei personaggi, la sigla sono curati in maniera maniacale all’insegna della solennità e della contaminazione, pur sforzandosi in tutti i modi di apparire minimi e “naturalmente” decadenti.

Carcerato della Louisiana, quartiere cool di Berlino.

L’art director della serie ha dichiarato di aver ricercato esplicitamente il connubio dei paesaggi naturali della Louisiana con quei relitti industriali che spesso si vedono sullo sfondo delle scene, relitti che sia detto esplicitamente non giocano alcun ruolo a livello narrativo ma sono parte fondamentale dell’atmosfera bradicardica e “stilosa” della serie.
Un particolare che può assumere un senso in questo contesto è che il regista Cary Fukunaga ha voluto girare tutto in pellicola 35 millimetri perché “forse era l’ultima possibilità di farlo." Non so se anche a voi sta suonando l’hipster detector. Le location come la chiesa con i dipinti rituali o la casa di Reggie Ledoux sono stati costruiti da zero e talmente bene che sembrano lì dalla notte dei tempi. Parallelamente le svolte e la creazione dei momenti di tensione nella storia sono il più delle volte appaltati dalla scrittura alla regia, come nella sequenza di chiusura della sesta puntata—quando con l’inquadratura da dietro del pick up di Rust si crea un pathos che il plot e quello che sappiamo dei personaggi fino a quel punto non sosterrebbero affatto. Poi c’è il famoso e acclamato piano sequenza di sei minuti che a me ha ricordato da vicino la schermata di gioco di GTA.

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Il riferimento è talmente chiaro che guardandolo ho provato l’angoscia che si prova di fronte agli automi in movimento. Qui però il rovesciamento è completo: sono movimenti umani mutuati da quelli della macchina e la parola giusta per quella scena è perturbante in accezione freudiana, facendo ovviamente finta di sapere cosa questo significhi.

Ciò che conta in questa sede però è che con quel piano sequenza da videogame un altro elemento di cultura popolare contemporanea viene integrato dentro la cifra stilistica della serie. Non che questo serva a qualcosa nell’economia della storia, ovviamente.

E il punto è esattamente questo: tutto nella fotografia e nella regia curatissima di True Detective evoca molto, ma a conti fatti dice poco. Ogni cosa è sempre troppo estetizzata per parlarci.

Il vero tema della narrazione non riguarda il territorio della Louisiana, le sue persone, l’indagine, e non è nemmeno veramente incentrato sulle vicende della vita dei due detective (ad esempio, esiste un personaggio più inutile della donna di Rust nella storia delle serie Hbo?): il tema sono il bene e il male, intesi come forze primordiali e concetti astratti, e il nostro modo di accettarli.

Attorno a questo nucleo circondato da alte pareti di immagini stupende in True Detective non c’è molto altro. Senza entrare nello spoiler, alla fine della prima stagione tutti gli elementi di novità contenuti nei personaggi rientrano confortevolmente all’interno dello stereotipo classico del genere, ricongiungendo la storia al suo set up iniziale. Così il nichilista radicale del 2014 torna a essere esattamente il burbero con il cuore d’oro del 1976 e la novità è stata riassorbita sì, ma con clamore.

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Pizzolatto dice di essere stato molto contento di passare del tempo sul set (il regista contrariamente alla consuetudine ne ha incoraggiato la presenza) perché altrimenti passa la maggior parte della sua vita chiuso in una stanza a scrivere. Se questo è sicuramente parte del lavoro dello scrittore, forse gli sarebbe tornato utile uscire un po’ di più in mezzo alle persone o magari concedersi quella writers' room che non ha voluto (scrivendo da solo 550 pagine in tre mesi) e che avrebbe potuto mettere un po’ più di carne umana attorno allo scontro fra potenze universali e ai dialoghi assertivi che stanno alla base di True Detective.

Così come è, True Detective è una serie che fila via abbastanza liscia, ma il suo merito (o demerito a seconda dei punti di vista) è esclusivamente quello di aver aperto all’estetizzazione hipster il genere crime, mostrando una possibile via per la tv generalista del futuro. Perché a quanto pare il mix di immagini curate e dialoghi che spiegano  esplicitamente l’universo piace parecchio. Da qui a chiamare True Detective un capolavoro però ce ne passa.

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