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Ho passato dodici ore dentro l'IKEA di Roma

Mi è sempre sfuggito il motivo per cui le persone passano la loro domenica all'IKEA, ma forse è perché ho una casa senza mobili. Ho deciso di rimediare passando un'intera giornata, dall'apertura alla chiusura, in un punto vendita di Roma.

L'autore fuori dall'IKEA prescelta. Tutte le foto di Elena Fortunati

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C'è un detto che fa, "L'amico si vede nel momento del trasloco," e infatti nell'ultimo periodo della mia vita ho dovuto fare così tanti traslochi da non sapere più chi sono e dove sto andando. L'unica consapevolezza che mi porto dietro in ogni spostamento è che non ho amici.

L'altra cosa che ho scoperto è che, pur essendo un individuo occidentale in linea di massima al passo con i tempi e tutto sommato integrato nella società, finora per me IKEA era rimasta un mondo quasi totalmente inesplorato. Così, anche se è un po' deprimente andarci da solo senza la possibilità di fare battute sui nomi strani dei mobili, mi sono sentito in dovere di colmare questa lacuna passando una giornata intera, dall'apertura alla chiusura, in uno dei due punti vendita di Roma. Perché tutti hanno passato "un pomeriggio all'IKEA" nella loro vita, ma in pochi ci hanno passato 12 ore.

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Prima di avventurarmi mi sono messo a fare le pulci all'IKEA nel tentativo di scovare degli aneddoti interessanti, e ho scoperto che nonostante le simpatie naziste del fondatore Ingvar Kamprad e la vicenda delle polpette con la carne di cavallo di un paio d'anni fa, tutti vogliono bene a IKEA: perché i mobili costano poco, perché protegge le foreste, perché hanno messo in vendita le polpette vegetariane.

C'è addirittura un ragazzo cinese che vuole così bene a IKEA che è scappato di casa ed è andato a vivere lì, un posto talmente meraviglioso che in Marocco, in vista dell'apertura di un punto vendita, si sono candidati in quasi trentamila per 360 posti di lavoro. Solo verso la decima pagina di Google si incominciano a intravedere gli scioperi—tra i più recenti quelli di Piacenza e Roma—per la revoca senza preavviso dei contratti integrativi o dei sospetti subappalti in fabbriche asiatiche dove si lavora 90 ore a settimana per 11 euro al mese (in Bangladesh).

Arricchito da questo nuovo bagaglio culturale ho preso un Polase, sono saltato in macchina sotto il sole di inizio estate, ho imboccato il Grande Raccordo Anulare e ho raggiunto il punto vendita dell'Anagnina (uno dei 21 in Italia, più di quanti ce ne siano in Svezia).

Avevo scelto la domenica in modo da poter vivere quest'esperienza all'eccesso, ma arrivato lì scopro subito che il caldo ha spinto quasi tutti al mare, e durante la giornata il luogo rimarrà pressoché vuoto. Un commesso mi ha poi spiegato che il caos ingestibile arriva quando piove, perché allora tutti si rintanano lì.

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L'apertura è prevista per le nove e io arrivo puntuale all'appuntamento assieme a una manciata di persone. Per la fretta ho dimenticato di fare pipì a casa e perciò la prima cosa che faccio è correre al bagno. Solo dopo aver espletato questo bisogno realizzo di essere già all'interno del grosso ventre della modernità e sin da subito entro in contatto con una sensazione che mi ha accompagnato per tutta la permanenza: da IKEA non c'è spazio per l'esistenzialismo. Nessun dubbio, nessuna incertezza, per ogni domanda c'è una risposta intelligente e sensata. Per esempio nel bagno un cartello mi spiega perché dovrei asciugarmi le mani, ma purtroppo ho dimenticato già il perché––comunque aveva senso ed era qualcosa di ecologico.

Vado verso il bar e lì, non so come sia possibile, trovo molte più persone di quante ce ne fossero fuori con me in attesa dell'apertura. L'unica spiegazione è che abbiano trascorso la notte chiuse qua dentro.

Fanno colazione e chiacchierano con uno spirito che mi ha ricordato quello dei villaggi turistici: nei loro occhi ho visto la luce di chi si aspetta una grande giornata tra giochi, balli di gruppo e partite a beach volley. Il cliché dei mariti frustrati che inseguono le mogli con il carrello non è pervenuto, le persone sono felici e sono qui perché vogliono essere qui. Questo è il loro svago, e me lo confermano quasi tutti, perché chiedo, "Cosa ci fate qui?" e la risposta che ricevo è quasi sempre "Un giro!" Nessuno sembra essere qui per una reale necessità. Proprio come me, evviva!

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Questa cosa mi conforta e con tutta calma sorseggio un caffè, leggo il giornale, guardo fuori dalla grande vetrata la periferia e lo sfondo industriale. Non ho fretta, sono solo le dieci e io ho un sacco di tempo davanti, perciò mi trattengo ancora un po' in questa zona di accoglienza.

Guardo il telegiornale e chiacchiero con i baristi che pur indossando una maglia gialla di IKEA non riescono a conferire allo spazio un'aria neanche vagamente nordeuropea. Sembra piuttosto di stare in un qualunque bar di Roma; l'unica differenza è che le persone al bancone non discutono di politica o di calcio ma fanno continui riepiloghi di quello che devono acquistare. Ho potuto riscontrare che in molti di fronte a un cappuccino hanno avuto delle illuminazioni e si sono ricordati di qualcosa che gli stava sfuggendo.

Attacco bottone con talmente tante persone e partecipo a talmente tante illuminazioni che quando torno in me le 11 sono passate da un pezzo e sono pronto per addentrarmi. Ma non ho pianificato molto le tappe della mia gita, non ho portato con me nessun libro, non ho le cuffie per ascoltare la musica, ho anche poche sigarette––in parole povere ho sopravvalutato moltissimo me stesso, perché tutte queste mancanze si riveleranno deleterie. Dodici ore sono molte, e l'ho scoperto quando era troppo tardi.

Affronto quindi il labirinto che mi aspetta. La prima zona è uno spazio generico, che non si focalizza su nessun punto della casa in particolare; vengono esposte varie alternative di casa ideale. Io ne trovo una un po' minimal e principalmente bianca che fa al caso mio, con un angolo cottura in stile famiglia americana che nei film si riunisce a colazione.

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Dopo essermi fatto ipnotizzare per mezzora dagli spot con delle reiterate musichette a metà tra Yann Tiersen e i Sigur Ros provenienti dall'apparecchio che pubblicizza la nuova tv IKEA incorporata nel mobile, decido di soffermarmi sul contenuto degli scaffali, perché credo sia giusto conoscere meglio gli autori e i musicisti preferiti delle ipotetiche persone che vivono nelle ipotetiche casette (quasi tutte coppie eterosessuali che si sposano o che stanno per sposarsi, almeno a giudicare dalle foto appese sui muri).

A quanto pare, gli autori più gettonati sono:

- Renate Dorrestein: scrittrice e giornalista olandese. Iniziò a lavorare come giornalista per il settimanale Panorama e pubblicò il suo primo romanzo (Buitenstaanders) nel 1983. Il suicidio di sua sorella ha avuto una grande influenza sulla sua produzione.
- Ward Ruyslinck: pseudonimo di Raymond De Belser, scrittore belga cresciuto in una famiglia cattolica. Aveva l'Alzheimer.
- Chris Powling: autore londinese, scrive storie per bambini e ha collaborato con diversi giornali occupandosi di scuola e istruzione.
- Robert Kagan: nato ad Atene ma cittadino statunitense, politologo repubblicano, da sempre a favore dell'interventismo e sostenitore di una politica estera aggressiva degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda i dischi, con sommo rammarico vi comunico che non esiste nessuna di quelle band, sono tutte inventate, è tutto finto. Quanto ai dvd, non mi ricordo assolutamente nulla.

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È ora di pranzo, ma il ristorante è ancora lontano perché ho deciso di seguire un percorso lento e ferreo, e non sono neppure lontanamente a metà dell'opera. Mi rendo conto che indosso la stessa camicia da tre giorni, credo di avere la febbre, mi sto facendo del male e questa cosa proprio non avrei dovuto farla nel mio unico giorno libero. Vorrei aprire un frigorifero e trovare un po' di frutta, ma la frutta non c'è e i vestiti negli armadi fanno tutti schifo.

Tutti questi sintomi di disagio si leggono facilmente nei miei occhi mentre mi approccio alla sezione cucine, tant'è che gli addetti ai lavori si spaventano di fronte alla mia esaltazione quando scopro che è in corso d'opera l'allestimento. In effetti per loro non deve essere la cosa più interessante al mondo; è ciò che fanno tutti i giorni, mi spiega il capo dello staff di designer che non mi fa entrare per "motivi di sicurezza" e soprattutto, credo, per motivi di "non rompermi sono stanco che cazzo vuoi dalla mia vita ora tu da me brutto idiota col cappelletto cosa ci trovi di così interessante nel montare cucine?" In ogni caso mi spiega che per quanto riguarda gli arredamenti ci sono solo delle generiche direttive dalla sede centrale, ma ogni punto vendita ha uno specifico staff di addetti agli arredi che sceglie le composizioni secondo il proprio gusto e la propria fantasia. A causa dei lavori in corso ci sono poche cucine esposte al pubblico, e in molti mugugnano. Alcune coppie solidarizzano, "Siamo venuti solo per vedere le cucine, che peccato."

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Sono le 14:00 ed è l'ora di vuoto totale, sono diviso tra una sensazione di decadenza e degrado e uno strano e improvviso senso di appartenenza a questo luogo che a suo modo ormai mi sembra famigliare. Penso che non potrà accadermi nulla di brutto fintanto che sono qui.

Lo spazio successivo è quello delle stanze per i bimbi, anticipato da un sacco di peluche sparsi per terra senza tanta cura. Ci sono anche un sacco di lavagnette, ma mancano i gessetti colorati per scrivere ed esprimere la propria creatività. Lo faccio notare a Samantha, l'addetta del reparto camerette, che mi dice che nessuno da IKEA voleva limitare la creatività dei clienti, ma che purtroppo sono dovuti giungere alla decisione di abolire i gessetti all'ennesima bestemmia o simbolo fallico.

Vorrei approfondire la questione, ma proprio in quel momento sono distratto da una mamma che al proprio bambino nel carrello ripete un mantra che fa "questo posto è orrendo, questo posto è orrendo, questo posto è orrendo." È allora che mi torna in mente Alan Penn.

Penn, avevo scoperto durante le mie ricerche preliminari, è un docente dell'University College London autore di uno studio che dimostra come la struttura di IKEA sia labirintica e disorientante al punto giusto per stordire il cliente e spingerlo a comprare più del necessario, a maggior ragione perché obbligato a seguire un percorso unico che passa per tutti i reparti. A dire il vero io mi ero sentito frastornato già sulle scale mobili all'entrata.

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Perciò alle 14:30 mi esplode un mal di testa terribile.

Mi dispiace molto lamentarmi in continuazione e imprecare, perché qui sono tutti gentili e felici––persino l'omino asiatico nello schermo che mi ringrazia per i preziosi consigli che ho mandato via email da un computer in mezzo all'area dedicata all'ufficio che perciò è piena di scrivanie più o meno virili e imponenti.

Il massimo del mio smarrimento però lo raggiungo quando entro nei veri uffici IKEA scambiandoli per mobili in vendita. Il sospetto che non fosse così mi è venuto notando dei pasticcini veri sulla scrivania, ma ho pensato che fosse una scelta di marketing pregna di realismo all'ennesima potenza. Mi sbagliavo, perché è arrivata una tipa e mi ha cacciato. Del resto, per quanto io possa essere disorientato, siete voi i burloni se mettete i vostri uffici veri in totale continuità con delle simulazioni di uffici.

Giunto a questo punto ho un calo di zuccheri brutale e alle tre di pomeriggio mangio quello che ho in borsa (in borsa ho sempre qualcosa da mangiare). Si tratta degli avanzi del pranzo del giorno prima, quindi cracker e noccioline. Visto che mi trovo ancora nell'area scrivanie, mi siedo e mangio lì, e mi sento proprio come uno yuppie indaffarato e stressato che non ha tempo per un pranzo comodo e consuma la sua pausa a recuperare lavoro e a fare affari.

A metà pomeriggio noto un cambiamento nella qualità della clientela: di mattina l'età media è stata attorno ai 40/50 anni, prevalentemente persone che hanno deciso di farsi un giro senza impegno per occupare la domenica prima di pranzo. D'ora in poi invece aumenteranno quelle intenzionate a comprare e indaffarate a prendere misure, calcolare spazi, sfoggiare mappette e matite. Aumenteranno anche gli individui venuti da soli e le coppie giovani.

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La cosa veramente strana, in tutto ciò, è che a eccezione di qualche caso nel corso della giornata non ho visto per più di una volta lo stesso cliente. Le facce dei dipendenti ricorrono, ma lo stesso non vale per il bambino nel carrello o la coppia dispiaciuta per le poche cucine in esposizione.

Attribuisco la colpa di questo fenomeno alla mia lentezza, la stessa che mi permette di approdare faticosamente all'area soggiorno. Mi riposo su un divano, perché non sono più in grado di fare nulla di attivo.

Per fortuna nell'area divani i divani non mancano. Ne scelgo uno in bella mostra, ma dopo un po' mi vergogno perché nessuno si fa problemi a prendere misure con me in posizione supina che cerco di riposare un po'.

I commessi iniziano a guardarmi con curiosità e compassione perché è tutto il giorno che mi vedono girovagare senza meta oppure sistemare maniacalmente le tazze secondo un ordine cromatico. Così ho pensato che fosse il caso di fraternizzare. Scelgo quelli dell'area cucine che mi sembrano più stressati perché le persone rompono i coglioni e danno molta importanza alla cucina, ma soprattutto—mi dice il commesso Luca—a volte non capiscono che in due metri non c'è spazio per una cosa di tre metri.

Ho fatto compagnia a Luca per un'oretta: sostanzialmente il suo compito è quello di assecondare persone ansiose che chiedono conforto incondizionato. Luca ha 32 anni, fa questo lavoro da pochi mesi e quando gli chiedo degli scioperi mi dice che non sta seguendo molto la vicenda, gli dispiace per i suoi colleghi ma lui dopo l'estate andrà in Cile, perché è un paese in cui ci sono grandi possibilità per uno con una laurea in architettura come lui. Mi chiede perché sono lì e glielo spiego con un po' di imbarazzo, mi dice che gli capita di leggere VICE ma che la cosa più divertente è leggere gli insulti nei commenti sotto agli articoli. Concludiamo che in fin dei conti non sono molto diversi da chi si incazzata perché non c'è abbastanza spazio in cucina.

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Torno indietro per usare i bagni e decido di inoltrarmi fino al bar, anche se i camerieri sono cambiati e sembrano meno simpatici di quelli del mattino. O forse sono io che essendo qui da svariate ore odio tutti. Iniziano anche ad arrivare persone chiaramente tornate dal mare, perché sono in ciabatte e costume. Nel frattempo mi si è scaricato il telefono e quindi non potrò più avere contatti con il mondo esterno. A dire il vero non ho realmente voglia di sapere cosa accade fuori perché qualunque input esterno non fa altro che farmi rendere conto di quello che sto facendo.

Sono le 18:00, e forse è il momento di maggiore densità. Faccio ricorso alle mie ultime energie e il dissesto psico-fisico mi genera una strana e insana euforia, la tipica euforia di chi sta per crollare emotivamente. Alcuni clienti, vedendomi con una fotografa al seguito, mi chiedono, "È qualcosa che andrà in televisione?" Io rispondo che sicuramente ci scapperà un servizio al telegiornale quando impazzirò definitivamente.

Mi rimetto in cammino per concludere il percorso ma salto rapidamente la parte dei bagni perché sono tutti un po' oscuri e in linea di massima mi comunicano un senso di antigienico. Arrivo alle camere da letto. Ora che ci penso mi chiedo se le camere da letto siano messe quasi alla fine perché è come se si andasse tutti a dormire con la giornata che volge al termine. Non lo so.

Ad ogni modo, visto che siamo in tempi di Family day, Gay pride e sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, decido di tastare il polso del paese in quanto a coppie omosessuali. Incontro un ragazzo di nome Andrea P., mi sembra uno ok: sta comprando un sacco di piante finte, quindi è certamente pazzo. Gli dico che sto facendo un importante esperimento sociologico e gli chiedo di fingere di essere il mio fidanzato per andare a chiedere informazioni sulle camere da letto. Ci avviciniamo al commesso che tuttavia non fa una piega e ci indica i letti matrimoniali sorridendo. Test superato.

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Poi però per dieci minuti rimango a fissare un tappeto fatto di pelle di mucca vera, con la forma della mucca vera e la puzza e tutto il resto. Stronzi.

Per tutta la durata della mia permanenza, la radio ha mandato pezzi della peggio musica italiana––di quella che va in continuazione nelle palestre o dal parrucchiere, per intenderci––e ci sono anche fasi di soul jazz da quattro soldi. Ogni tanto poi si sente una voce gentile che dà consigli su come fare le cose fatte bene da IKEA e tutto il resto.

Arrivo dunque alla parte del mercato, che è un inferno perché ci sono un'infinità di oggetti esposti in serie. In quest'area mi sembra tutto un po' più alienante e a dire il vero mi intristisco, non saprei dire perché. Forse perché sta per finire la festa e per quanto possa essere stata dura, è sempre triste quando finiscono le feste.

Comunque è incredibile che ci sia ancora qualcuno disposto a comprare i quadri con la faccia di Audrey Hepburn e a proposito, avevo letto di questo tipo olandese che ha preso per il culo tutti i visitatori di un museo esponendo una tela pagata 10 euro da IKEA e riuscendo a farselo valutare due milioni e mezzo di euro. Sia come sia, le candele e le piante finte che emanano profumi artificiali sono benzina gettata sul fuoco del mio mal di testa, quindi accelero il passo e mi allontano.

Alla fine del mercato mi rendo conto di un'altra cosa: credevo che avrei comprato almeno qualche oggetto stupido, ma sono talmente stanco che solo l'idea di fare la fila alla cassa mi fa venire il voltastomaco. Io non lo so come fanno le persone ad avere questa resistenza fisica.

Sono le 20:00 e arrivo all'immenso magazzino, dove c'è una grande eco e un rimbombo di oggetti metallici. Sembra di stare in un hangar. In realtà è la parte più divertente perché è possibile fare delle lunghe corse con i carrelli. Inoltre, dopo tanta inanità si respira una sana aria di pragmatismo: non c'è spazio per le cazzate, qui i mobili sono imballati e bisogna solo caricarli sul carrello, stop.

Faccio un ultimo giro all'angolo delle occasioni dove vengono venduti oggetti fallati a prezzi inferiori, ma una signora mi dice che "un tempo si facevano buoni affari, mentre ora non c'è molta roba."

Così proseguo, e le trovo finalmente davanti a me: le casse. Ci passo in mezzo con le mani alzate, snobbo la bottega svedese, poi attraverso la puzza di piedi dei bambini che si sono tolti le scarpe per andare a giocare con le palline colorate, e attraverso anche gli sguardi delle mamme stanche che dicono ai bambini che giocano con le palline colorate che è tardi e che bisogna andare via.

Sono fuori. Raggiungo l'uscita, e l'afa e l'incertezza del mondo reale per un attimo mi spaventano e istintivamente vorrei tornare indietro, coccolato dall'aria condizionata e dal benessere scandinavo.

La luce fuori sembra la stessa di quella che c'è sempre alla fine di un lungo viaggio, e in effetti mi sembra di essere stato via per mesi dal mondo reale. A conclusione di questa giornata non ho imparato nulla, non voglio più traslocare, non voglio amici, non voglio niente.

Torno nella mia casa senza mobili che mi sembra bellissima.

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