L'Isola, o cosa succede quando il New York Times parla di un quartiere di Milano

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L'Isola, o cosa succede quando il New York Times parla di un quartiere di Milano

Dopo l'articolo del New York Times che celebrava Isola come centro caldo milanese, e dopo anni in cui di Isola si è parlato come di un quartiere "esaurito", siamo stati a vedere cosa si dice nel quartiere.

Mentre pensavo a come imboccare questo articolo, un amico mi raccontava divertito di come la parola NoLo fosse finita su Google Maps a poca distanza da un suo servizio fotografico uscito su un outlet internazionale, quando in una scherzosa didascalia aveva fatto riferimento al forse-esistente-forse-no quartiere milanese di North of Loreto. Non sapeva se fosse proprio "colpa" sua. Come sempre, però, lamentava a ragione che ci vuole una benedizione straniera perché noi pecoroni provinciali ci accorgiamo di quello che ci circonda, e del valore che ha.

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Del fatto che l'Isola fosse cambiata, ovviamente, tutti i milanesi si erano accorti ben prima che il New York Times pubblicasse un articolo intitolato "Five Places to go in Milan"—locali e ristoranti stranoti della zona, e un negozio di vestiti di seconda mano. Il pezzo, che a giudicare dall'url avrebbe dovuto chiamarsi "Cinque posti dove andare a Isola, Milano" ed è stato forse rinominato per chiarezza più che per fare uno statement, ha immediatamente scatenato il reblogging di quotidiani e siti d'informazione. L'equazione che è venuta spontanea—che fosse effettivamente voluta o solo incidentale—è che il place to be, a Milano, è l'Isola. Ancora.

"Ancora" perché se vivete o circolate per Milano, saprete che di Isola negli ultimi anni si è parlato un sacco. Anzi: l'Isola è stata data per scontata e quindi—per quel meccanismo per cui di una novità dopo che ne hai parlato una volta non ne parli più, perché è già vecchia, ne parlano già quelli che arrivano sempre secondi e quindi forse è meglio tacersi—è stata taciuta nella conversazione quotidiana. Bollata come cosa nota: il quartiere popolare in una posizione favorevole, poi invaso dagli artisti e ora in attesa di finire come Brera, come i Navigli—tutto turismo. La gentrificazione è anche valsa un nuovo nome all'Isola, inserita nel progetto di Porta Nuova, "l'area di Milano dove fanno i grattacieli e le villette con i fondi sovrani del Qatar."

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Via Pepe, uscita posteriore dalla stazione di Garibaldi F.S. e confine sud dell'Isola.

Prima del NYT, del quartiere si era quasi smesso di parlarne anche perché nel frattempo la riqualificazione ha interessato altri quartieri, i grattacieli si sono costruiti da altre parti e le prossime case che non potrò permettermi sono a NoLo, in Giambellino, in Ripamonti, al Portello; i nuovi grattacieli in cui vivono i ricchi e famosi vengono eretti in modi intuitivamente verticali a City Life. Insomma, dell'Isola si è parlato nell'istante del fuoco incrociato, del "tutto finito per l'arte, tutto finito per le associazioni, tutto finito per le tradizioni," e poi mai più. Eppure la sua storia di cambiamento comincia molto prima.

Quando era un quartiere proletario, l'Isola era anche il centro della mala milanese, la cosiddetta "ligera" di origine siciliana, calabrese e pugliese che gestiva commerci di droga, armi, prostituzione, ricettazione e bische. "Negli anni Ottanta venivo con mia nonna al mercato dell'Isola, che era allora il classico quartiere di periferia," mi racconta Matteo Donini, proprietario della Don Gallery in via Cola Montano. "A 13-14 anni, quando ci venivo con gli amici, i ragazzini che vivevano qui e che erano già molto più scafati di noi figli della media borghesia ci menavano o ci facevano biciclette, scarpe, soldi. Venivano anche a farci spedizioni punitive in Maggiolina." La situazione è decisamente cambiata: "Ora quelli che mi menavano sono i genitori dei compagni di classe di mia figlia."

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Il cambiamento ha avuto inizio più di dieci anni fa, con lo smantellamento di via Garigliano e via della Pergola, quartieri che comunque non erano mai stati al centro, per esempio, del consumo e dello spaccio di droga del quartiere—"ma era inevitabile, per la posizione in pieno centro."

"Ma io qui sono venuto a vivere per motivi affettivi e perché nel 1997-8, quando ho comprato questo spazio, costava poco," mi spiega Matteo. "Non ho mai seguito gli investimenti, come nell'arte, devi fare le cose perché ti piacciono e devi avere un fiuto al di là dei soldi." Quando ci ha comprato un'ex officina, l'Isola era ancora un posto dove ti serviva un protettore, anche se già c'era chi ristrutturava le vecchie case di ringhiera e i laboratori. "Era pericoloso comprare casa se non conoscevi nessuno, ma io ero protetto dal meccanico qui davanti, dove un tempo si smontavano le macchine rubate e poi si ricettavano i pezzi—conoscevo il figlio e il padre conosceva mio nonno: a 14 anni portavo qui il motorino a sistemare."

Ma quest'ultimo ventennio, e decennio in particolare, sono volati da un punto di vista del cambiamento. "Rispetto altre città in Europa, noi a Milano siamo bravissimi a fagocitare tendenze a una velocità pazzesca. Secondo me il quartiere è stato un po' snaturato, privato della sua atmosfera trasversale, oggi è un po' troppo quieto," pensa Matteo. "C'è quella specie di piattume—l'hamburgeria, la paninoteca, la tramezzineria: sta diventando un po' turistico. E la cosa ancora più spaventosa è che è diventato turistico per gli stessi milanesi che vengono alla ricerca della vita 'alternativa', delle officine Mermaid che customizzano le moto, del Deus, del Ratanà, del negozio di bici fisse, abbiamo tre negozi di tatuaggi. Mi sembra una condizione di anestesia premorte."

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Se, come dicevo, questo è inevitabile, per Matteo è venuta a mancare la consapevolezza che caratterizzava i movimenti di quartiere quando il Nord Est [bar nella zona nord di Isola] era meta degli intellettuali di sinistra, e le associazioni rappresentavano lo spirito progressista di un quartiere in cui anche l'integrazione era andata liscia. Di queste associazioni resistono oggi forse solo il Piano Terra e Isola Pepe Verde.

L'Associazione Isola Pepe Verde ruota fisicamente intorno al progetto di un giardino condiviso, aperto in via Pepe nel 2013. Mariette, Edith e Afrika, che ho incontrato proprio qui, vengono da percorsi associativi diversi ma con il comune obiettivo di non lasciare Isola alla mercé del progetto Porta Nuova. "Io sono parte di Isola Art Center," mi racconta Mariette, "gruppo nato durante l'occupazione della Stecca degli Artigiani per dare al quartiere quello che gli mancava: un centro sperimentale per l'arte contemporanea." Nel 2007, una volta buttata giù la Stecca, l'IAC è diventata un centro disperso ma ha continuato a lottare insieme ai Mille e ad altri comitati per difendere l'eredità di un quartiere operaio e la realizzazione di spazi per l'arte "condivisa".

Interessi pratici e ideologici si sono poi uniti nella lotta: oltre agli spazi per l'arte, con la "cementificazione" nel quartiere erano venuti a mancare anche gli spazi verdi. "In generale, mancava spazio. Se non hai uno spazio dove dare vita alle idee, non avrai nemmeno mai idee," aggiunge Afrika. Quando si è liberato il deposito edile dove ha sede Isola Pepe Verde, i gruppi volevano occuparlo "con la consapevolezza e saggezza di tutti, solo se era una necessità condivisa. Così […] un sabato mattina al mercato comunale abbiamo raccolto 1500 firme, e forti di quelle abbiamo cominciato a incontrarci ovunque, per strada, sul binario 20 di Porta Garibaldi, in librerie, bar, piazze."

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A quel punto, complice il tempismo con la campagna e poi l'elezione di Pisapia, è scattata la trafila burocratica e i viaggi tra assessorati e consiglio di zona. "Alla fine abbiamo avuto la convenzione annuale, che ci è stata rinnovata per tre anni, e l'anno scorso come regalo di Natale ci hanno rinnovato la convenzione per tre anni," mi spiega Mariette. "Ma questa zona resta edificabile, quindi in ogni momento, se qualcuno compra, il comune ci può chiedere di andarcene."

Uno degli inquilini di Isola Pepe Verde.

"Noi non ci opponiamo gratuitamente ai grattacieli," mi spiega Mariette, "anche tra di noi, ad alcuni piacciono e ad altri no, non ci interessa che siano belli o brutti. Ci interessa che non siano opere urbane ingiuste." Quella contro il Bosco Verticale, pur essendo la più sonora, non è stata l'unica lotta del gruppo—anzi. "La famosa strada a Y che doveva collegare via Volturno a Garibaldi FS, sventrando il quartiere, non è stata realizzata anche per i nostri otto ricorsi al TAR."

L'opposizione di Isola Pepe Verde non è un mero muro ideologico al cambiamento, né è cieca al destino di Milano città metropolitana: si insinua negli spazi ancora disponibili e risponde a bisogni pratici—il verde, un posto dove stare senza dover consumare drink per forza.

Maria, 31 anni, lavora come collaboratrice editoriale per varie case editrici e vive all'Isola da due anni.

A differenza di altre zone in città, e nonostante "l'arte", l'Isola non è forse mai stata un quartiere di rottura: è stato un quartiere consapevole, sempre unito, a sé. Gli estranei che gli sono valsi la fama di centro hip arrivano quando cala la sera. Di giorno, ci passa quel mostro di convergenza biologica e geografica di industrie creative, tecnologiche (Google) e finanziarie (UniCredit). Quelli che poi ci vengono anche a vivere, magari per comodità magari per "atmosfera". Sono in parte le "macchiette" di cui mi parla Maria, 31 anni, che lavora nell'editoria e nella gestione di uno spazio per l'arte: quell'intellighenzia che va alla ricerca della birretta in piazzetta o della pizzetta più economica invece che fare la spesa. E che con il suo bighellonare contribuisce alla dimensione paesana.

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"Anche quando vivevo fuori Milano con i miei, e poi quando mi sono trasferita a Gioia, la sera uscivo sempre all'Isola—ma all'inizio, quando avevo 18 anni, avevo paura a tornare a casa da sola. Perciò, quando due anni fa ho dovuto cambiare casa, mi è venuto spontaneo cercarla qui," mi racconta. "Poi d'affitto non pago molto." E infatti, a Isola la gente resta: è pieno di giovani famiglie con figli che corrono per le strisce pedonali mentre facciamo le foto.

Forse la posizione barricata dietro la stazione, di fianco ai grattacieli più interessanti e più moderni, oltre lo shop di Moschino in Gae Aulenti, stanno paradossalmente proteggendo l'Isola almeno dai turisti da grande magazzino—dopo averla snaturata. "Io non vendo, qui, ma il grande boom di commercio in questo quartiere non c'è mai stato," mi racconta Chiara, 34 anni, pittrice. "Anzi, recentemente la rappresentante dell'Associazione Commercianti di Isola mi ha detto che i proventi sono scesi, da dopo Expo."

"Ora all'Isola tutti vogliono trovarci casa perché c'è il Bosco Verticale, la Torre Aria e tutte 'ste minchiate, ma io penso che questo passerà, come passerà la moda e i ristoranti pettinati e che non dicono niente. Le nicchie e l'anima del quartiere, invece, resteranno."

Giorgia, 26 anni, co-gestisce il negozio di abbigliamento di seconda mano Ambroeus, comparso sul

NYT.

Ma perché le cose restino ci vuole consapevolezza che esistono e che vanno conservate. Ne parlo anche con Giorgia, una vecchia conoscenza che dopo aver lavorato a Londra anche come buyer in un negozio di vintage è tornata a Milano e insieme a suo fratello e un amico ha messo insieme un po' di fondi e deciso di aprire Ambroeus. Il negozio, comparso sulla lista del New York Times, si trova in un laboratorio di via Pastrengo, "perché non volevamo un posto che fosse troppo saturo. Sui Navigli, per dire, non puoi aprire nulla che non sia temporaneo, mentre qui fanno ancora contratti di affitto da quattro-sei anni e ci sembrava che il quartiere potesse recepire una cosa del genere. Conta che i negozi diurni, qui, cominciano ad aprire adesso, un po' di vita diurna c'è solo nei weekend."

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Giorgia non vive in Isola perché Città Studi costa meno, dice, ma pensa che la natura della zona non sia davvero in pericolo: "Alla fine è ampio come quartiere, e i turisti o anche i milanesi che escono qui fanno le solite due vie e non si azzardano oltre."

Afrika, Mariette ed Edith dell'Isola Pepe Verde nel Giardino Condiviso.

Ci sono, mi pare, tre vettori in questo diagramma culturale che chiamiamo cambiamento dell'Isola: c'è la tradizione—quella che Matteo ha proposto come base di un futuro articolo che sia una "guida del loffio, dell'Isola dark, dei baretti degli zanza che ancora ci sono, delle case popolari che ci entri e provi paura e meraviglia"; c'è l'innovazione calata dall'alto—la gentrificazione piatta senza sfogo sociale o culturale, i bar berlinesi e "Unicredit che ha trasferito qui tutti i suoi uffici, la sede di Google, il Bosco Verticale, la Fonderia Napoleonica che un tempo era una fonderia vera"; e ci sono gli sviluppi autoctoni. Quel processo lento e individuale, palazzo per palazzo, associazione per associazione, per cui una zona cambia ma mantiene un'identità, in cui per forza di cose alcuni che hanno fatto la storia dell'avanguardia diventano pop e la Stecca degli Artigiani diventa Isola Pepe Verde.

Qualcosa si perde. La vita notturna di rottura si è ampiamente trasferita a Macao, e il fotografo di cui all'inizio dell'articolo per pagare poco lo studio ce l'ha in piazzale Udine. Quando si scontrano anime così radicalmente diverse non va sempre tutto liscio—"Ci vivo da quando era un quartiere di operai," mi ha raccontato un intervistato, "e ora sotto casa mia c'è questo studio di architetti che fanno solo cose gigantesche, avanguardiste. Quando sono venuti qui, ogni tre mesi alcuni tizi gli rubavano tutti i Mac. Se chiedevano a me, dicevo che non ne sapevo niente, che io usavo solo PC."

A Milano, è vero, il processo per cui un quartiere viene fagocitato e passa dall'operaio all'edgy all'hip al mainstream avviene talmente in fretta che non fai in tempo ad aprire bocca per dire che a te, sinceramente, quella zona piace, che ti senti rispondere con lo sbuffo blasé "ci vanno tutti, non ci si può più vivere." A me pare che l'Isola non sarà finita finché la morale del penso a resistere, io, solo dei posti ora frequentati da shabby chic che però sono ricettatori di bici rubate in Moscova, della singola casa popolare, del locale nel centro di un cortile, continuerà a sposarsi con il sentimento di fare parte di qualcosa.

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