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Tutte le immagini per gentile concessione di Lab80.

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25 aprile

La storia meno nota delle donne della Resistenza

Abbiamo parlato di cosa ha significato la Resistenza per le donne che facevano da staffette, e non solo.

Se avete una nonna piemontese, come l'ho avuta io, forse avrete già sentito racconti di corse in bicicletta con le direttive da passare da una brigata partigiana all'altra nell'elastico della gonna. Se, più probabilmente, a un certo punto della vostra carriera scolare vi è capitato di leggere Il partigiano Johnny, ricorderete il recalcitrare del protagonista nel riconoscere pur brevissimamente l'importanza del ruolo che le donne—spesso adolescenti—svolgevano:

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"Il latente anelito di Johnny al puritanesimo militare, appunto, gli fece scuoter la testa a quella vista [delle numerose ragazze che facevo parte della brigata]. […] Esse in effetti praticavano il libero amore, ma erano giovani donne, nella loro esatta stagione d'amore coincidente con una stagione di morte, amavano uomini doomed e l'amore fu molto spesso il penultimo gesto della loro destinata esistenza. Si resero utili, combatterono, fuggirono per la loro vita, conobbero strazi e orrori e terrori sopportandoli quanto gli uomini."

La Resistenza è passata alla storia come una cosa da uomini, ma nelle file dei partigiani c'erano anche ragazze di poco meno o più di vent'anni, che oltre a contribuire in maniera importante alla lotta, hanno vissuto gli anni formativi in un ambiente—non solo politico, ma anche emotivo—particolarissimo.

Di cosa ha significato quel periodo per le donne italiane, e di come tutte le promesse maturate allora si siano poi risolte in fumo, parla Rossella Schillaci nel documentario Libere. L'ho contattata per saperne di più.

VICE: Il film è una selezione di materiale d'archivio audio e visivo, tra cui interviste ma soprattutto scene di vita—immagini che non credevo nemmeno esistere…
Rossella Schillaci: È stata Paola Olivetti, direttrice dell'Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, a propormi di realizzare un progetto che si concentrasse sulla partecipazione delle donne. Le interviste sono state raccolte nell'arco di cinquant'anni, principalmente dall'Archivio in collaborazione con altri enti di ricerca nell'ambito di singole ricerche sulla resistenza nelle varie località. Anche il resto è principalmente dell'Archivio Nazionale della Resistenza, ma molti altri archivi, pubblici e privati (dall'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico all'Istituto Luce, ma sono davvero tantissimi) ci hanno fornito del materiale prezioso, fotografie, estratti da documentari d'epoca e riprese familiari in super 8.

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Se il ruolo delle donne come staffette durante la lotta partigiana è piuttosto noto, il tuo documentario ha un altro focus: il fatto che questa partecipazione sia stata a tutti gli effetti anche un moto di liberazione della donna. "Ognuna l'ha fatto perché voleva sentirsi libera," dice un'intervistata.
Sì, sentendo tutte le interviste ho notato che emergeva questo aspetto, che a mio parere non era mai stato raccontato e toglieva tanta retorica dalla narrativa sul periodo—è un periodo talmente mitologico che è difficile non renderlo retorico. Invece queste riflessioni spesso amare e ironiche riuscivano a dare una chiave di lettura nuova.

Le donne entravano nel vivo della lotta magari per motivi "contingenti": avevano un fratello, il padre, il marito tra i partigiani—e infatti per esempio una dichiara di aver visto i propri cari ridotti in fin di vita, l'altra dice "c'era la rissa e nella rissa volevo esserci anch'io"… Ma il sottinteso comune è che fosse un anelito verso la libertà che in virtù del momento storico è venuto fuori.

Non c'era niente da perdere: erano sfollate, non studiavano, lavoravano nelle fabbriche o nelle campagne al posto degli uomini da quando avevano 13-14 anni. Si sentiva che c'era un cambiamento necessario in atto, per cui bisognava lottare. E in questo cambiamento molte dicevano di aver scoperto cos'era la politica, dopo vent'anni di dittatura e dopo che per tutta la storia era stata considerata una cosa da uomini. Insomma, hanno capito di essere assolutamente capaci di fare tutto quello che facevano gli uomini.

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Spesso il loro ruolo era di staffette, ma molte nel tuo documentario lamentano che in seguito si sia sempre usato il termine in senso diminutivo. 
È vero, il loro ruolo, di collegamento, era fondamentale a livello strategico. Senza di loro che portavano informazioni, armi, cibo, che curavano i feriti etc, gli imboscati non avrebbero potuto far nulla. E spesso lo facevano rischiando molto, perché se venivano prese le pene non erano certo più miti che per gli uomini…

Inoltre è andato dimenticato il loro ruolo nelle città, dove sono stati creati i Gruppi di difesa della donna, sia per tutelare le lavoratrici, sia per raccogliere aiuti da portare alle brigate, sia per difendere i carcerati e le loro famiglie. Era un tessuto capillare ed estremamente ben organizzato, a cui partecipavano 100mila donne. C'erano poi le fabbriche, dove le donne davano vita a scioperi e sommosse, veri e propri sabotaggi bellici; e portavano avanti un discorso di propaganda politica clandestina, sia con giornali e ciclostili, sia con comizi e informazione orale.

Guardando il documentario colpisce il fatto che le donne usino per descrivere la propria partecipazione alla Resistenza termini come "avventura", "incoscienza", "evasione" dall'ottocentismo dei genitori—l'aspetto della guerra vera e propria è secondario. Una donna racconta che andava a prendere in bici il plastico paracadutato dagli inglesi, e ride ripensando all'ufficiale che le diceva di stare attenta sulla via del ritorno perché cadendo con cinque chili di plastico addosso "avrebbe fatto un bel buco."
Be', una cosa a cui non avevo mai pensato è che allora molte, pur essendo considerate donne, avevano 15-16 anni e per noi sarebbero state poco più che bambine. Sicuramente c'era molta incoscienza, in parte dovuta all'età. Ma un'altra donna mi ha detto una cosa importante: "Voi oggi non potete capire, in quel periodo per un niente venivi imprigionato, potevi morire, e comunque anche se non ti uccidevano si moriva di fame. Non avevamo niente da perdere." C'è quest'idea che sia tutto un periodo straordinario, e il grande entusiasmo con cui molte hanno partecipato dipende anche dal fatto che non esistevano alternative.

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Le partigiane raccontano di essersi trovate per la prima volta libere, alla pari con gli uomini, anche nell'aspetto delle relazioni: amicizie, storie d'amore, sesso—"si faceva all'amore, e molto" dice una, "eravamo tutti compagni amici," dice un'altra. È andato davvero tutto così liscio?
In verità sono cose che non venivano chieste spesso, nel Dopoguerra, per pudore. Ma quelle che ne parlano dicono che il rapporto era paritario e improntato sul rispetto, sull'amicizia. Nonostante la situazione, nessuna ha mai parlato di violenze etc. In molte interviste viene fuori che spesso c'era davvero una ragazza sola in mezzo agli uomini (anche loro avevano 16-18 anni, in molti casi), però c'era sempre un parente o il capitano che le tutelava—e spesso nemmeno ce n'era bisogno. Di certo sono nati molti amori, e ho scoperto che ci sono stati anche moltissimi matrimoni partigiani, celebrati in brigata dal capitano o da un curato.

A proposito di cose che non venivano chieste, stavo pensando che siamo gli ultimi ad avere la possibilità di parlare dal vivo alle persone che hanno vissuto quegli anni…
E fare le domande giuste. Io ho anche intervistato alcune donne (purtroppo sono poche quelle ancora in vita), e mi sono resa conto che la testimonianza cambia tantissimo a seconda delle domande che fai. Tante cose, alla fine della Guerra, non erano state chieste per una sorta di pudore. Conta che era sconveniente anche per la sinistra dire troppo a voce alta che le donne avevano avuto questa libertà, che erano state insieme a uomini senza la tutela dei genitori… Quindi si è tenuto tutto sottotono, e per questo tante cose non sono state proprio chieste—motivo per cui la storia di quegli anni è un po' omologata.

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Così come tante interviste si fermano alla Liberazione, anche se è importantissimo quello che succede dopo la Liberazione: c'è una grossa delusione per le donne, perché le aspettative, le speranze, le promesse maturate durante la guerra non sono state tutte mantenute. C'è stato un ritorno al passato.

Infatti, le donne che avevano vissuto quell'indipendenza lavorativa ed esistenziale, alla fine della guerra vengono rimesse al posto che avevano prima. Una di loro fa notare che "nonostante fossimo mogli di partigiani, i nostri mariti erano ancora dominanti." La società non era pronta?
Non posso darti una risposta da storica, perché non lo sono, ma le persone che ho sentito hanno parlato di un periodo estremamente duro: pochissimo lavoro, poche case, pochi soldi; inoltre gli uomini sono tornati dal fronte e a tutti, donne e uomini, è sembrato naturale che le donne lasciassero loro i posti di lavoro. C'era anche una grossa diffidenza nei confronti dei partigiani, che venivano considerati teste calde—nel documentario una donna racconta che era più facile trovare lavoro per un ex fascista che per un partigiano. Essendoci pochi posti per tutto, sul lavoro come anche nei partiti, le donne sono state retrocesse e rimesse in casa a occuparsi delle famiglie.

Una donna in particolare sostiene che il femminismo degli anni Settanta e Ottanta si è dimenticato che molte cose erano già state fatte durante la Resistenza.
Diciamo che subito dopo la guerra si è voluto che si dimenticasse, non si è fatto nulla per conservare o far sapere quello che era successo. Nemmeno alcuni rappresentanti dei partiti di sinistra volevano che le donne sfilassero durante la Liberazione, per non far vedere in quante avevano partecipato. Allo stesso modo, se alle donne è stato dato da subito diritto di voto, all'inizio non potevano essere elette— poi per fortuna questa legge è stata cambiata in fretta, in tempo per le prime elezioni.

Come sempre nella storia, comunque, i risultati non sono univoci né di facile interpretazione: una partigiana, per esempio, fa notare che il fatto che le donne abbiano avuto subito il diritto di voto ha garantito tre decenni di governo della DC.
Certo, è interessante che siano state proprio alcune donne, le più impegnate, a dire che non volevano il voto. Perché sapevano del grande lavoro che negli anni dopo la guerra ha fatto la Democrazia Cristiana per spostare voti, mi pare che addirittura si paventasse la scomunica per chi avesse votato il PCI. Sarebbe bello che se ne parlasse di più: ma il problema resta lo stesso, il grande vuoto di informazioni reali su quegli anni.

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