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Droga

Ho smesso con la cocaina e questa è la mia storia

"In genere andava così: arrivavo, cercavo qualcuno disperato quanto me, facevo una chiamata e subito dopo tutti sembravano più interessanti."
Foto di Marco Verch via Flickr.

Sono passate circa 74 ore dalla mezzanotte del Capodanno 2018. Guardo la mia faccia sfatta riflessa nello specchio di un hotel orribile. Il mascara e i glitter sono ormai sparsi ovunque. Sono troppo vecchia per tutto questo, ma sento di essere sul ciglio del classico e patetico comedown da pillole misto a crisi esistenziale.

Ho passato quasi tutta la sera nel bagno del Capitol, il locale dove ho trascorso molte altre notti da ventenne. L'obiettivo della serata, ovviamente, era pippare quanta più coca possibile di quella che il mio collega era riuscito a procurarsi. Dopo qualche riga, sento gli occhi delle persone addosso, probabilmente ho il sorriso ingessato da matta, ma ormai non mi frega più di nulla. Inseguo un tizio per una sigaretta. "Non le trovo, va' fuori e vedrai che ne trovi subito una." Ha ragione. Effettivamente la trovo subito. Ma il tizio che me la dà, quando scopre che ho lasciato la costa per venire a Toronto, inizia a dirmene di ogni: "Siete voi il problema!" sbraita, e sputa. È già passata quasi mezz'ora dall'ultima botta, cioè non esattamente il momento migliore per avere questa conversazione.

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Corro dentro, cerco il mio giaccone nella pila accanto alla porta e mi avventuro tra la neve e il ghiaccio della città che una volta consideravo casa. Torno in hotel da sola, a struggermi per tutti i madornali errori di valutazione che ho fatto quella sera. Primo tra tutti, quello di andare in bagno a pippare.

Ho provato a smettere. Giuro, ci provavo da almeno sette anni ormai. Ma party e cocaina erano sinonimi dalla prima volta in cui l'avevo provata. Mi facevo una striscia a tutti quegli eventi in cui temevo di annoiarmi, quando c'era dell'alcol, musica dal vivo, qualcuno che amavo o qualcuno che odiavo. Senza quello, come avrete sentito dire a molti altri, la festa non era una vera festa. In genere andava così: arrivavo, cercavo tra la gente qualcuno disperato quanto me, facevo una chiamata e subito dopo tutti sembravano più interessanti. Su di me potevi sempre contare, fino all'ultimo grammo.

Dopo l'ultima crisi, però, ho ridotto drasticamente il consumo. Prima di tutto, perché tutte le persone intorno a me hanno quasi smesso, molte di loro sono ormai ripulite e alcune hanno messo su famiglia. Altre addirittura si sono buttate sulla carriera. Poi, a causa della mia depressione, non mi fa bene andare a letto all'alba. In genere rimango sveglia, a ruminare, e mi sento terribilmente in colpa per tutti i soldi che ho speso, per le cose terribili che ho detto, per aver scopato con gente con cui non avrei dovuto scopare, per avere fumato troppe sigarette e per questa mia vita da mostro.

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Ma il motivo principale è che la coca non è più quella di una volta. Io lo dico da un bel po', col rischio di sembrare una rompiscatole, ma di questi tempi sembra più anfetamina, ed è così dal 2010 circa. Si sa, viene tagliata. Poi viene tagliata di nuovo e poi ancora. Sempre più spesso, però, viene tagliata con il fentanyl e altre sostanze. E il vero motivo per cui devo smettere, e forse non ci crederete, è che ho paura di morire.

Sette persone sono morte a Toronto il mese scorso dopo aver assunto droghe che contenevano fentanyl o carfentanil. In Ontario, il fentanyl ha ucciso più persone di qualsiasi altro narcotico, e spesso queste persone non l'avevano preso intenzionalmente: secondo un'indagine dell'Health Canada’s Drug Analysis Service, il composto si può trovare in sostanze come cocaina, MDMA, eroina, codeina, alprazolam (Xanax) e in alcuni acidi.

Tra gennaio e giugno di quest'anno, solo nella British Columbia, sono stati registrati 742 decessi per overdose involontaria, la maggior parte dei quali, si sospetta, causati dal fentanyl. Nello stesso periodo in tutto il Canada i morti per la stessa causa erano 2923.

Secondo il ministro della salute canadese Jane Philpott il bilancio delle morti per oppioidi è "più grave di quello di qualsiasi altra epidemia infettiva in Canada, compresi i picchi di vittime per AIDS e dai tempi della spagnola che circa un secolo fa costò la vita a 50mila persone."

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Tornando alla crisi in hotel di cui vi parlavo prima. Ho pianto perché mi sentivo in colpa. Il senso di colpa e la paura, però, non erano dovuti al consumo di droga: di quello non mi sono mai vergognata. Il problema era che non riuscivo a togliermi dalla testa l'immagine di tante persone a me care riverse a terra senza vita dopo aver sniffato. Alcuni dei miei migliori amici sono stati trovati accasciati a terra con buste di roba discutibile attorno. In quel bagno del Capitol mi sentivo al sicuro, il rituale mi dava sicurezza. Le persone con cui lo facevo mi davano sicurezza, se non altro perché l'altra persona non si sarebbe ricordata nulla di quello che gli avevi detto.

In quella stanza d'albergo, per la prima volta in tanti anni, ho capito che non ero al sicuro. Che nonostante la depressione e la sensazione che tutto sarebbe stato più semplice se fossi morta… in realtà, volevo vivere.

Qualche mese fa sono stata via per un weekend con un vecchio amico. Nello zaino ho messo il pigiama, un paio di mutande, gli occhiali da sole e una borraccia. Nell'armadio ho una piccola scatolina in vetro dove tengo i miei tesori e qualche ciondolo. Mi è capitato spesso di vederla mentre preparavo lo zaino. Contiene due piccole ciotole in rame dove tengo gli anelli, qualche forcina e una pietra rossa. Poi ci sono delle conchiglie raccolte in spiaggia, del carbone del deserto del Mojave, e una scatolina in ceramica con sopra un gatto e dentro un grammo di cocaina. È lì da ottobre. Ho guardato la scatolina spesso, chiedendomi se dovessi portarla con me o meno. Alla fine non l'ho fatto.

Salgo in macchina del mio amico, e sulla strada parliamo delle persone che abbiamo in comune. A un certo punto lui mi dice che ne ha portata un po'. Gli chiedo se è buona, e lui mi dice, "Certo, viene dal vecchio coinquilino dell'amico del mio amico Matt. È uno a posto." Certo. Ok. Verso l'1.30 di notte, proprio quando iniziavamo ad annoiarci, ecco che arriva. La mettiamo sul suo telefono e io mi faccio una striscia. Sento subito un'ansia opprimente. Vago assente per un po' e verso le 2.30 sono già a casa, ho una fetta di pizza in mano e guardo un episodio di un programma scemo alla TV.

Lui torna all'Airbnb verso le 7.30 del mattino. Lo sento rientrare, rimango sveglia ad ascoltare il suo respiro. Al risveglio, mentre gli faccio il caffè, gli dico che se lui fosse morto, per me sarebbe stato un grosso problema.

Un'altra volta, passo un weekend con degli amici a Montreal. Stappiamo del rosé. Qualcuno lancia l'idea ma nessuno fa la telefonata. Per la prima volta, non insisto. La mattina dopo ci alziamo alle 7 e andiamo a fare yoga.

Sono allo stesso tempo serena e devastata all'idea di essere diventata la persona che speravo di diventare. Sapevo che avrei dovuto smettere, e l'ho fatto. E ora mi sento sorprendentemente bene.