Tra le cose che amo fare perdendo tempo, tre riguardano il cibo:
mettere cuori a profusione a qualsiasi foto con hashtag #foodporn rosa e carina;
Leggere i commenti delle persone che litigano sul cibo;
guardare documentari sul cibo su Netflix.
Il primo “hobby” nasce da un’ossessione consapevolmente malsana che mi porta poi a ingerire tutto ciò che è di colore rosa e vagamente commestibile; il secondo, invece, nasce dal bisogno recondito di capire un po’ di più quanto la cultura di una data società influisca sul comportamento di chi la compone. Se infatti a stabilire cosa renda bello o meno un cibo è notoriamente frutto di un gusto soggettivo (tranne i cupcake rosa, quelli sono OGGETTIVAMENTE carini), le influenze culinarie faticano a rientrare nella scatola della soggettività, perché quasi tutte le culture percepiscono la propria tradizione gastronomica come la migliore al mondo (principalmente per l’attaccamento emotivo e sentimentale che taluni piatti evocano). La terza attività, infine, ha appena racchiuso le prime due in un inception di hobby grazie alla nuova docuserie targata Netflix che debutta venerdì 23 febbraio: Ugly Delicious.
Diretta da Morgan Neville, la prima stagione di
Ugly Delicious
segue il noto chef
David Chang
in giro per il mondo, portando un po’ d’intersezionalità e "cultural appreciation” dalla tavola agli schermi.
Ma andiamo per gradi.
Fondatore del
Momofuku Group
(di cui fa parte il
Momofuku Ko
di New York con le sue due stelle Michelin), David Chang non è estraneo agli schermi televisivi né a quelli letterari, e ha con gli anni accresciuto una sorta di aurea mediatica pulita e accattivante. Sarà con
Ugly Delicious
(il cui nome deriva dal celebre hashtag
uglydelicios
che lui stesso usa per descrive piatti visivamente brutti ma deliziosi), che lo chef coreano-americano darà una piega antropologica, filosofica e critica alle politiche del cibo.
Ogni episodio della docuserie (in totale saranno 8) ha lo scopo di abbattere i pregiudizi che, a seconda delle varie culture, si hanno nei confronti del cibo e della sua estetica, e che spesso ci portano (anche inconsciamente) a fare 'cose' come tacciare una data pietanza come “sublime” solo perché proveniente da un ristorante fine dining. Chang stesso, per lungo tempo, aveva voltato le spalle alle proprie tradizioni gastronomiche familiari coreane per focalizzarsi su una più (all'apparenza) raffinata cucina francese, rivedendo con gli anni le proprie posizioni e rituffandosi senza vergogna in quelli che erano i cibi amati da bambino (il leitmotif dell'importanza del comfort food ricorrerà a lungo nella serie).
Ogni puntata, quindi, demolirà i cliché culinari portando in tavola questioni legate al concetto d'identità, d’etnia, oppressione, innovazione e tradizione, senza curarsi troppo dei fronzoli e delle luci carine da #foodporn che siamo abituati a vedere (e che comunque continueranno a piacermi). Prepariamoci dunque a un Mario Carbone concitato e intento a stabilire se sia meglio la cucina asiatica o quella italiana, ai gamberetti eretti a simbolo di cambiamento e tradizione, e ai cameo stellati come quelli di René Redzepi.
Ma soprattutto, prepariamoci a chef,
food writer
ed esperti enogastronomici
che discutono liberamente fra di loro,
senza mezzo di filtri, punti esclamativi e intere righe in caps lock per decretare chi detenga la verità assoluta sul cibo. Anche perché, a quanto pare, proprio non c'è.