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Alcune cose che forse non sai sul caso Moro

In occasione del 40esimo anniversario dell'omicidio del presidente della DC, abbiamo deciso di raccontare alcuni dettagli dimenticati.

Questo articolo fa parte della nostra rubrica sugli anni Settanta in collaborazione con Spazio70, una pagina Facebook di approfondimento sociale, culturale e politico su quel periodo della storia italiana.

Oggi cadono quarant'anni dall’uccisione di Aldo Moro, il cui cadavere venne ritrovato il 9 maggio 1978 nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani a Roma. A distanza di anni quella vicenda—che è stata definita “un caso Kennedy all’italiana”—continua a dividere gli studiosi e gli appassionati tra chi pensa che sul caso Moro ormai si sappia tutto quello che si deve sapere e chi continua a sostenere l’ipotesi di una grande cospirazione politica internazionale con il coinvolgimento della criminalità organizzata italiana.

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In occasione dell’anniversario abbiamo provato a raccontare alcuni passaggi strani e alcuni particolari poco conosciuti di quella vicenda, tenendo conto di quanto emerso dai documenti dell’ultima Commissione parlamentare d’inchiesta che ha concluso i lavori lo scorso dicembre e cercando di mettere in fila i fatti.

IL BAR OLIVETTI DI VIA FANI

Il bar Olivetti negli anni Settanta si trova a Roma Nord, esattamente all'incrocio tra via Fani e via Stresa, il luogo in cui il 16 marzo 1978 si verificò l'agguato a Aldo Moro. Su questo esercizio pubblico, al cui posto oggi c'è un ristorante, si sono concentrate le attenzioni della nuova Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro per due motivi. Primo: secondo le testimonianze, la mattina dell’agguato il bar era aperto—nonostante il fallimento della società che lo gestiva. Secondo: nel 1977 il titolare del locale, Tullio Olivetti, era stato coinvolto in una storia di traffico di armi [ Relazione nuova Commissione Moro, dicembre 2016, pag. 166].

Che il bar fosse aperto o meno non è ovviamente indifferente per la ricostruzione dell’agguato, ma su questo punto sono state raccolte dichiarazioni di segno diverso. Nel luglio 2015 la Commissione ha ascoltato l'attore Francesco Pannofino, che all’epoca abitava con la famiglia in via Fani e quel giorno, mentre andava all’università, aveva notato la saracinesca del locale abbassata. Secondo quanto ricordato dal testimone, il bar Olivetti era in piena attività: Pannofino, al tempo cliente abituale, attribuì quella chiusura al riposo settimanale. Le sue dichiarazioni trovano parziale riscontro nelle testimonianze dei giornalisti Rai Diego Cimara e Alessandro Bianchi: Cimara ha riferito che, arrivato in via Fani poco dopo l’attentato, era entrato nel bar Olivetti per telefonare in redazione e lì aveva incrociato Bianchi che usciva dopo aver preso il caffè.

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Via Fani pochi minuti dopo l'agguato delle Brigate Rosse. Foto via Wikimedia Commons.

Nella sua deposizione, Cimara ha descritto con estrema precisione alcune delle persone che quella mattina sarebbero state all’interno del locale: due baristi (uno alla cassa e uno al bancone), due giornalisti (uno dell’ANSA e uno del Messaggero) e soprattutto tre persone con divise dell'aeronautica, che dall’aspetto potevano sembrare del nord Europa ed essere di lingua tedesca. Cimara ha anche riferito della presenza all'interno del bar di uomini delle forze dell’ordine che, a un certo punto, abbassando la saracinesca del locale, lo avrebbero invitato risolutamente a uscire.

La testimonianza di Cimara è molto precisa, ma lui stesso ha invitato la Commissione a prenderla con le pinze per il gran tempo trascorso dai fatti. La testimonianza dell’altro giornalista Rai, Alessandro Bianchi, conferma sostanzialmente i tratti salienti della versione del collega, pur collocando diversamente alcuni particolari (i tedeschi in uniforme sarebbero stati due e non tre, fuori dal bar e non dentro). Ancora più interessante è un documento della Stasi—l’ex servizio segreto della Germania Est—citato nel lavoro dello storico Gianluca Falanga Schleyer e Moro: due sequestri illustri a confronto, che parla del ruolo del bar Olivetti nell’agguato di via Fani dimostrando una buona conoscenza della vicenda. Nel documento si afferma che “alcuni degli attentatori si sono trattenuti, prima di entrare in azione, in un bar che dà sull’incrocio.”

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Nonostante tutti questi elementi, le indagini della Commissione non sono state in grado di rispondere una volta per tutte alla domanda se il bar fosse stato o meno aperto quella mattina. Come non è stato chiarito del tutto il ruolo di Tullio Olivetti, titolare del locale, il cui nome è stato rimosso—come confermato dal pubblico ministero titolare dell'inchiesta, Giancarlo Armati [Seconda relazione Commissione Moro, dicembre 2016, pag 167]—da un’indagine su un traffico d’armi. Su questo punto emergono criticità nel lavoro di indagine a suo tempo svolto dagli inquirenti: a colpire sono soprattutto le dichiarazioni rese alla polizia da Luigi Guardigli— imprenditore attivo nella fornitura di armi a paesi africani e mediorientali secondo il quale Olivetti sarebbe stato in contatto con gruppi armati libanesi.

L'edizione straordinaria del Tg1 del 9 maggio 1978 con l'annuncio del ritrovamento del corpo di Aldo Moro

LA TESTIMONE MINACCIATA DI VIA GRADOLI

La storia della mancata perquisizione del covo delle Brigate Rosse in via Gradoli a Roma è piuttosto nota: due giorni dopo il sequestro Moro, il 18 marzo 1978, la polizia si reca per un controllo allo stabile, senza però perquisire l'appartamento che si sarebbe poi rivelato il covo dei brigatisti Moretti e Balzerani. Solo più tardi, quando la base viene effettivamente scoperta, si apprende della mancata perquisizione dalle dichiarazioni degli inquilini del palazzo. Tra questi c’è una Lucia Mokbel, informatrice della polizia.

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Durante il primo processo Moro, Mokbel dichiara che il giorno prima del controllo di polizia aveva sentito rumori simili a segnali Morse provenienti da un appartamento vicino riferendo la cosa alla polizia durante la mattina del 18 marzo e compilando anche un appunto indirizzato al funzionario della squadra mobile Elio Cioppa, suo conoscente. Questa versione venne confermata da Mokbel nel settembre 1982 in occasione del confronto con i poliziotti che avevano controllato lo stabile, anche se la donna non era riuscita a ricordare a quale dei due avesse consegnato il biglietto.

“[Quel mattino] arrivarono due poliziotti in divisa che bussarono alla mia porta e mi chiesero se nascondessi qualcuno,” ha raccontato Mokbel di fronte alla nuova Commissione Moro. “Io dissi ovviamente di no, anzi chiesi ai due poliziotti se potevano riferire a Cioppa che durante la notte avevo sentito dei rumori che ricordavano l'alfabeto morse, così mi sarei risparmiata di andare in Questura. Tali fatti li ho scritti su un foglio: la penna me la prestarono i poliziotti, i quali mi dissero anche come indirizzare la nota. Dissi loro di portare il foglio al dottor Cioppa, loro mi confermarono che avrebbero provveduto a consegnarlo”.

Riguardo al biglietto, Cioppa ha detto di fronte alla Commissione: “Durante la perquisizione la Mokbel dice al brigadiere Merola [uno dei due poliziotti che hanno perquisito lo stabile il 18 marzo]: ‘guardi questi due ingegneri, che necessità hanno di battere a macchina con l’alfabeto Morse durante la notte? Stanno tutto il giorno in ufficio e non capisco il perché…’ In definitiva, era un’intuizione. (…) Pare che Merola si fece dare anche un biglietto in cui la donna si rivolgeva a me dicendo di fare accertamenti su questo ingegner Borghi”, cioè il brigatista Moretti. Ma quel biglietto non è mai pervenuto a Cioppa, come riferito in Commissione dallo stesso poliziotto [Relazione Commissione Moro, dicembre 2017, pag. 226]

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Nel periodo in cui rilasciava dichiarazioni e testimonianze, Lucia Mokbel ha detto di aver ricevuto minacce finalizzate a farla ritrattare. Ha riferito di aver ricevuto anche offerte di denaro allo stesso scopo: “Non mi sono mai sentita di denunciare perché non mi sentivo difesa. Se sono le forze dell'ordine a farmi ciò non mi sono sentita di denunciare… Tra l'altro non sapevo neanche chi fosse la persona che mi aveva offerto soldi…” Mokbel si è infine detta convinta che nel suo appartamento di via Gradoli si siano verificati degli “strani accessi” quando lei non era in casa.

LA LETTERA DI MORO NON CONSEGNATA DALLE BR

Per ragioni politiche o per difficoltà oggettive, le Brigate Rosse hanno recapitato ai destinatari solo una parte delle lettere scritte da Moro a personalità pubbliche e alla famiglia. Tra quelle non consegnate ce n’è una particolarmente significativa: si tratta di una missiva indirizzata a Luca Bonini, nipote di Aldo Moro, il “piccolo Luca” a cui Moro faceva spesso riferimento durante i 55 giorni del rapimento. Verrà diffusa solo nel 1990 dopo il secondo, incredibile, ritrovamento di armi e documenti durante i lavori di ristrutturazione dell'ex covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano (già perquisito senza successo nell’ottobre 1978).

La lettera, che inizia con un “mio carissimo Luca, non so chi e quando ti leggerà, spiegando qualche cosa, la lettera che ti manda quello che tu chiamavi nonnetto” sembra all’apparenza una dolce dichiarazione d'amore di Moro per il nipotino, ma in realtà contiene diversi riferimenti sul luogo (o uno dei luoghi) in cui Moro potrebbe esser stato tenuto prigioniero. Ad accreditare una simile interpretazione, in un’intervista dell’ottobre 1990, è proprio uno degli ex brigatisti coinvolti nel sequestro, Prospero Gallinari.

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Alla domanda: “le risulta che il presidente della Dc scrisse lettere che le BR decisero di non recapitare? E perché?” Gallinari risponde che in alcuni casi “furono proprio le BR a chiedere a Moro di cambiare qualche espressione perché le parole che aveva usato potevano fornire delle informazioni agli inquirenti. Furono invece rarissime le occasioni in cui venne posto un veto alla spedizione dei messaggi: e una delle lettere non consegnate è stata proprio quella al nipotino Luca, perché conteneva vari elementi che avrebbero potuto favorire le indagini.”

Rileggendo la lettera alla luce di quest’ammissione, si notano tre passi interessanti: due indicazioni che sembrano riferirsi alla distanza geografica da Roma, luogo in cui si trova Luca (“ora il nonno è un po' lontano, ma non tanto…” e “il nonno che ora è un po' fuori”), e un riferimento finale a uno scenario marino (“e quando sarà la stagione, una bella trottata sulla spiaggia”) come se Moro si trovasse non lontano dalla capitale, forse vicino al mare. Una intuizione che, insieme al sorprendente stato di pulizia e tonicità muscolare del corpo del presidente DC emerso dall’autopsia, si incrocia con il ritrovamento nelle urine di tracce consistenti di nicotina [Relazione del prof. Claudio De Zorzi sulle indagini chimiche eseguite in ordine alla morte di Aldo Moro, Commissione Moro, volume XLV, pag. 810] come se Moro nei giorni che ne hanno preceduto la morte avesse fumato o respirato fumo passivo. Uno scenario, questo, incompatibile con la versione consolidata di una detenzione durata quasi due mesi nella “prigione del popolo” di via Montalcini—un bugigattolo di tre metri per due.

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Via Caetani a Roma, dov'è stato ritrovato il corpo di Moro. Foto via Wikimedia Commons.

LA SCORTA DI MORO NON FACEVA SEMPRE LO STESSO PERCORSO

Un aspetto particolarmente misterioso dell’agguato di via Fani è come abbiano fatto le BR a sapere con esattezza che Moro sarebbe passato di lì quella mattina. Una spiegazione parziale viene dalla testimonianza dell’ex brigatista Valerio Morucci secondo cui “il 16 marzo era uno dei giorni in cui sarebbe potuto passare l'onorevole. Sarebbe però anche potuto non passare: era stato verificato il suo passaggio lì in alcuni giorni, ma non era stato verificato che passasse lì sempre.” Secondo Morucci, il 16 marzo i brigatisti erano andati in via Fani sperando che Moro sarebbe passato di lì—se non l’avesse fatto sarebbero tornati il giorno dopo, e poi il giorno dopo ancora.

Le dichiarazioni degli agenti superstiti (cioè quelli che non erano di turno nel giorno dell’agguato) lasciano ulteriori perplessità. Quelle rese da cinque di loro nel 1978—Otello Riccioni, Ferdinando Pallante, Rocco Gentiluomo, Vincenzo Lamberti e Rinaldo Pampana—sono quasi totalmente sovrapponibili e spiegano che Moro si recava ogni mattina a messa nella chiesa di Santa Chiara e che “il percorso seguito era sempre lo stesso, il più breve e il più veloce.” Inoltre secondo Pampana Moro “usciva costantemente, salvo rare eccezioni, intorno alle ore 9. Era precisissimo nell’orario.” Ma queste dichiarazioni contrastano con quelle rese dalla moglie di Moro, Eleonora, interrogata qualche giorno dopo gli agenti e secondo cui il marito “non era un abitudinario” e che “negli ultimi tempi, a causa della crisi di governo, non aveva mai un orario preciso.”

Nessuna scorta al mondo compie sempre lo stesso percorso e una conferma esplicita di questo arriva anche da quanto dichiarato da Eleonora Moro: “Mio marito non faceva di solito la stessa strada per motivi di sicurezza. Ritengo di dover affermare che il percorso venisse deciso al momento.” Versione confermata anche da Agnese Moro, figlia del presidente DC, nel 1982: “Vorrei sottolineare che mio padre non faceva sempre gli stessi percorsi. Via Fani non era che una delle strade che potevano essere percorse la mattina come nel corso della giornata, anche perché è una strada stretta, disagevole, spesso trafficata.”

Secondo Agnese Moro, i percorsi del padre cambiavano spesso perché Moro era preoccupato per sé e per i suoi familiari. Le variabili che influenzavano la scelta del percorso erano il traffico, la preoccupazione per la sicurezza e l’orario in cui si sarebbe arrivati a destinazione. “Che il percorso da fare venisse stabilito la sera prima mi pare impossibile anche perché mio padre era un tipo veramente ritardatario,” ha raccontato Agnese Moro, “sono sicura che i percorsi venivano stabiliti la mattina stessa. Quindi ritengo che il percorso di Via Fani la mattina del 16 marzo venne stabilito casualmente quella mattina stessa.”

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