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Cosa succede quando sei detenuto e lavori in un carcere italiano

Solo un terzo dei circa 52.000 detenuti italiani lavora. E nonostante la legge preveda un aggiornamento della loro paga, gli stipendi sono rimasti gli stessi - e molto bassi - del 1994.
Foto di Paola Rizzi via Flickr

Sono passati quasi due mesi da quando decine di migliaia di detenuti americani ha lanciato uno sciopero per protestare contro la paga misera (o nulla) che ricevono per il lavoro che svolgono in prigione.

Circa 900.000 detenuti lavorano nelle prigioni americane, con mansioni che variano dalle pulizie, alla manutenzione, alla produzione di beni di consumo o la raccolta del cotone. Spesso i detenuti guadagnano meno di 40 centesimi di dollaro l'ora; e in stati come la Georgia, il Texas, e l'Arkansas, lo fanno addirittura gratuitamente.

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Ma gli Stati Uniti non sono il solo paese dove i detenuti sono pagati meno del dovuto. Anche in Italia la paga bassa dei reclusi rappresenta un problema significativo, e la mercede - come viene chiamato il loro stipendio - è rimasta invariata da più di venti anni, finendo per assomigliare più a una paghetta o a un'elemosina che a uno stipendio.

Come denunciato a marzo scorso da Carte Bollate, una rivista scritta e pubblicata dai detenuti del carcere vicino Milano, i carcerati vengono pagati in media 2,50 euro l'ora per il loro lavoro, ben al di sotto dei livelli minimi previsti dalla legge.

La normativa in merito, infatti, prevede che "il compenso sia calcolato in base alla quantità e qualità di lavoro prestato, in misura non inferiore ai 2/3 del trattamento economico previsto dai contratti collettivi nazionali," — incluse le stesse garanzie assicurative, contributive e previdenziali.

Tuttavia, come ha sottolineato addirittura il ministro della Giustizia Andrea Orlando nella sua relazione al Parlamento relativa al 2015, la commissione che dovrebbe stabilire l'entità di questo compenso non si è più riunita dal 1994 "per carenza di risorse economiche."

"Da quella data," si legge nella relazione, "gli importi delle mercedi non hanno più avuto aumenti e questo comporta il proliferare di ricorsi al giudice del lavoro da parte dei detenuti lavoranti, ricorsi rispetto ai quali l'amministrazione è, naturalmente, sempre soccombente."

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Lo Stato, quindi, si ritrova a dover rimborsare i detenuti per gli stipendi e i contributi non pagati, oltre agli interessi e alle spese giudiziarie.

Ma secondo Alessio Scandurra, coordinatore dell'Osservatorio Nazionale sulle Condizioni di Detenzione di Antigone, la situazione continua a rimanere tale e quale, senza un aggiornamento degli stipendi, perché la spesa delle cause perse rimane comunque inferiore a quella necessaria per un adeguamento degli stipendi.

"Da un punto di vista economico conviene, perché è vero che arrivano le condanne, ma le condanne arrivano per quella minoranza di detenuti che va a processo," spiega Scandurra a VICE News. "La larghissima maggioranza, invece, a processo non ci va, e quindi alla fine si sono risparmiati soldi."

Ma la questione non ha soltanto un risvolto economico.

"Il punto fondamentale," dice Scandurra, "è quale voglia essere la funzione del lavoro in carcere. Sulla carta è uno strumento del trattamento, quindi dovrebbe essere una sorta di allenamento al lavoro, di formazione alla cultura del lavoro, per cui tu ti mantieni lavorando. Il lavoro assomiglia a quello che dovresti fare dopo, una volta fuori. Quello che succede nella realtà è che il lavoro è più che altro una sorta di welfare interno."

La possibilità di lavorare viene infatti fornita ai detenuti per contrastare i livelli di povertà estrema che spesso caratterizzano la realtà dei detenuti e delle loro famiglie. Lo scopo è di far arrivare in tasca a quanti più detenuti possibile qualche soldo, per comprare un pasto o le sigarette.

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È così che la priorità non è più quella del lavoro come strumento per il recupero del detenuto e per la preparazione al reinserimento in società, ma come tappabuchi per un sistema che non funziona e in cui i detenuti si ritrovano a "fare a botte per lavorare" con l'obiettivo di guadagnare qualche spicciolo.

Come spiega Scandurra, infatti, le opportunità di lavoro per i detenuti sono scarse, e la lotta per ottenere anche un turno di qualche ora è agguerrita.

Stando ai dati del Ministero della Giustizia, nel 2015 i detenuti lavoranti per l'amministrazione erano 14.570, mentre 1.413 lavoravano con delle ditte esterne. Con un totale di 52.164 detenuti registrati alla fine del 2015, meno di un terzo dei detenuti risulta occupato.

Di norma, per accedere al lavoro sono predisposte delle graduatorie, che fanno riferimento a diversi fattori, dall'anzianità di permanenza nell'istituto, alla posizione giuridica del detenuto, al fine pena. Nella realtà poi, non sempre le graduatorie vengono rispettate: a volte si cerca di privilegiare il detenuto che non ha una famiglia in grado di assisterlo economicamente, a volte di privilegiano gli stranieri che non hanno nessuno che possa portargli qualche soldo.

In altri casi, è l'istituto stesso che usa il lavoro come un premio, garantendolo a chi si comporta bene e togliendolo a chi non rispetta le regole, sempre a scapito della graduatoria.

"È un meccanismo gestito in parte con le regole, in parte col buonsenso e in parte è anche uno strumento di ordine per l'istituto," aggiunge Scandurra. "Ci sono tanti elementi che costruiscono questo sistema, alcuni più trasparenti, altri meno."

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Ma la fortuna di avere un lavoro in carcere non è certamente garanzia di un trattamento equo.

Come spiegano i detenuti stessi nella loro denuncia su Carte Bollate, l'intera struttura carceraria si regge sul loro lavoro, nonostante le mansioni siano dequalificate e le condizioni di lavoro molto precarie.

I detenuti si occupano della pulizia degli istituti, della manutenzione ordinaria - come lavori di muratura, carpenteria, idraulica - del funzionamento di laboratori, cucine, biblioteche, spacci e aree verdi. E spesso tutto questi avviene con delle dotazioni insufficienti.

Un esempio su tutti è quello di un detenuto citato nel pezzo che, costretto a pulire i corridoi del carcere a mano con spazzolone e stracci.

"Lo straccio in dotazione è quello classico da pavimenti che usate anche voi a casa, lo spazzolone invece è molto più grande; il povero carcerato posiziona sotto lo spazzolone tre stracci bagnati in acqua e detersivo e inizia a camminare in linea retta lungo il corridoio facendo attenzione a non lasciare impronte," si legge. "Dopo qualche metro gli stracci si sporcano, ma lui non ha il carrello con il doppio secchio acqua pulita e acqua sporca e quindi si deve fermare, prendere gli stracci e andare a risciacquarli nel bagno più vicino."

È così che per l'esasperazione, il detenuto in questione ha deciso di acquistare con i propri soldi un mocio industriale e un doppio secchio per "svolgere dignitosamente il suo lavoro."

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"Il fatto che guadagnino poco o molto meno di quello che guadagnano i lavoratori fuori non interessa a nessuno," spiega Scandurra. "Perché il senso non è che guadagnino o lavorino come i lavoratori fuori, il senso è che gli arrivi qualche soldo in tasca in cambio di un lavoro in tanti caso profondamente dequalificato, qualitativamente scadente rispetto a quelle che poi invece sono le aspettative di un datore di lavoro esterno normale."

"Finisce per essere una cosa che assomiglia poco al lavoro," aggiunge. "In tutto questo, il fatto che venga pagato diversamente da fuori e che venga concepito in maniera diversa da fuori non mette in imbarazzo nessuno."


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Foto di Paola Rizzi via Flickr, rilasciata su licenza Creative Commons