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Musica

Paolo Pietrangeli cantò il caos della sinistra italiana

Con 'Cascami' (1979), il cantautore di protesta italiano ha prodotto l'opera definitiva degli anni di piombo.
Paolo Pietrangeli, foto via Wikitesti.

Il fatto è che qualche anno fa era molto più facile spiegare qualcosa a qualcuno. Ogni gesto, ogni azione aveva il suo nome, il suo odore, il suo colore: la barba era di sinistra, le canzoni erano di sinistra, e anche la sinistra per unanime convinzione… era di sinistra. Adesso mi rendo conto che parlare di qualunque argomento è di gran lunga più complicato. E Pietrangeli non fa eccezione alla regola. Basti dire che prima cantava prendete la falce impugnate il martello; adesso canta “e mi tura le orette e fa uguale granchette e violassa”. C’è una bella differenza, si passa dall’inequivocabile all’equivocabilissimo. Da quell’abicì semplice, elementare e superdidattico a questa Babele di parole in libertà.
Michele Serra, dalle note di copertina di Cascami, anno 1979

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Ebbene sì, le parole che leggete qua sopra sono proprio di quel Michele Serra. Evidentemente anche nel suo caso, da maître à penser di sinistra abbastanza inequivocabile, ora è diventato quanto di più equivocabile possibile. Come da sue parole, già a fine anni Settanta non si capiva più un cazzo e la sinistra era già in crisi: oggi però cadono tutti dal pero nonostante il lento disfacimento fosse palese fin dalla “destra del PCI” sessantottina che poi ha creato i vari baciapile stile Giuliano Ferrara.

Fortunatamente c’è una differenza abissale tra questi bei tomi e il Paolo Pietrangeli di Cascami, anno 1979, disco nel quale il nostro paladino cerca di sbrogliarsi dai luoghi comuni(sti) che in un certo senso l’avevano reso popolare anche al di fuori della sua parte politica. Perché oggi che anche Salvini straparla di “compagni”, Pietrangeli rimane forse l’unico a volersi fregiare ancora di tal epiteto. Nulla lo sposta da "Contessa" (il famoso incipit “compagni dai campi e dalle officine“ è oramai un classico della canzone di protesta italiana), nonostante per anni si sia esibito cocciutamente, volutamente e per due spicci o gratis, solo alle feste di Rifondazione e derivati.

E, soprattutto, nonostante sia stato e sia ancora regista di alcune delle trasmissioni TV più oscene di sempre, e per di più prodotte da Fininvest: il Maurizio Costanzo Show, Amici, C’è posta per te. Tutta roba condotta da quei due criminali di guerra che voi ben conoscete. Detto questo chiunque si aspetterebbe una giustificazione morale: "È soltanto lavoro" e cose del genere. Del resto il nostro Paolo ne sapeva, essendo figlio d’arte (suo padre era Antonio Pietrangeli) e avendo lavorato come aiuto regista per Visconti e Fellini, nonché avendo lui stesso girato Porci con le ali, tratto dal famosissimo bestseller cartaceo, e Bianco e nero, coraggiosa inchiesta/documentario sui fascisti portata avanti infiltrandosi nelle sedi dell’MSI.

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Invece no, magari la mettesse su quel piano. Lui è scisso: dice che il vero direttore è sempre stato Costanzo (con cui ha collaborato nella prima sit com italiana di sempre, Orazio) e che ci è rimasto venticinque anni perché è amico di Costanzo. Che Costanzo è di sinistra (nonostante quella famosa tesserina della P2), che C’è posta per te è antropologicamente lo specchio dell’Italia di oggi. E le sue inquadrature di Berlusconi sono sempre state lusinghiere, come da ordini superiori. C'è una chiara crepa, qualcosa che non torna e che cozza con la rigidità dell'ideologia. C'è una separazione netta tra arte e lavoro.

Ma in Cascami, invece, spunta fuori un Pietrangeli inedito, sganciato da tutto e da tutti, che rimette in discussione la sua bolla per ricominciare su basi diverse, mettendo in gioco una lotta diversa, prima di tutto contro le proprie illusioni, una lotta vistosamente incoerente e per questo difficilmente manovrabile dal potere, qualsiasi esso sia.

Cascami esce nel 1979 e segue il disco Lo Sconfronto del 1976, in cui si trovano già i semi di una svolta (nella semi-buffa e patrimonio dell’improvvisazione orale "Parole" in primis, in cui si comincia già a dubitare della loro potenza didascalica, appunto perché usate come veicolo di potere più che come comunicazione). Ovviamente si sta avvicinando un periodo particolarissimo nella cultura italiana, soprattutto in quella musicale. Il punk, la new wave, la no wave e in politica il movimento del 77: le contestazioni al PCI, l’ascesa degli autonomi e il rilancio degli anarchici, le BR. Questa roba deve aver preso in contropiede Pietrangeli, che avrà ben capito che la sua “Caro padrone domani ti sparo” da “metaforica” (parole sue) è diventata reale. Ma nello stesso tempo suona preistorica perché gli manca l’aspetto apocalittico che invece coprirà gli anni di piombo come le ali di un enorme pipistrello. Ragion per cui Pietrangeli si prende due anni di pausa, cercando di elaborare la sua personale risposta al problema.

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Il risultato è un disco che sovverte la forma della canzone di protesta rendendola quasi “canzone di protesta demenziale”. I testi dipingono quadretti di esistenze che scricchiolano, situazioni di strada, prostituzioni morali e materiali, voglia di rifiutare un mito, quello del Sessantotto, che puzza di vecchio. Testi funambolici, incasinati, surrealmente metaforici, come "Jabberwocky" scritta da un Lewis Carroll con la tessera del PCI. La lezione degli Skiantos è forse introiettata e personalizzata in versione “combat”. Musicalmente, invece, c’è un coraggioso tentativo di rendere tutto più “atonale”, con sezioni di arrangiamento deliranti, forse di scuola Stormy Six, cori che sembrano spiriti inquieti aditi a dissonanze, profondi abissi, sberleffi al cantautorato classico. Un atteggiamento quasi punk/folk insomma, tra un David Peel e un futuro Alan Bishop, che già s’intravede nella copertina del disco in cui Pietrangeli viene investito dal vomito. Niente bandiere rosse o critica al capitalismo telefonata insomma, qui si passa alla dura pazzia della realtà già esplicitata da Lydon e accoliti in terra d’Albione (ma forse sarebbe meglio dire dagli Angelic Upstarts, gruppo che sempre ha contestato ai Sex Pistols la mancanza d'integrità politica).

Andiamo dunque ad ascoltare il primo brano, “Un testo emblematico". L’intro è chiarissima: chiedono a Pietrangeli testi di marxismo scientifico, l’ennesimo testo politico “che non sia scollato dal movimento”; ma a chi cantarlo? A una folla di rimbecilliti oramai ridotta a massa? Ed ecco che il nostro poeta del movimento (perché sulla capacità letteraria del nostro non vi è dubbio alcuno, così come in quella compositiva, da sempre tendente a soluzioni weird) si rifiuta di obbedire: lui "cerca la Titina, la cerca e non la trova”, parafrasando lo storico brano "Je Cherche Aprés Titine" di Léo Daniderff, reso celebre dall’interpretazione di Chaplin in Tempi Moderni e da Gabriella Ferri nella versione di Guido Di Napoli. La Titina, qui, è il proletariato, la sinistra, che in teoria dovrebbe trasformarsi in Titova (cioè la Titina nuova), ma anche qua pare più un blob che un autentico soggetto sociale. Nel testo fa anche grande polemica con la tradizione, che forse è il momento di superare, magari senza cercare di unirla al nuovo a tutti i costi (sarebbe come far correre un uomo con le caviglie incatenate). La musica, allo stesso tempo, è discordante: pianoforti honky tonk suonati in modo dimesso, un contrabbasso storto, un sax dissonante e drogato, quasi free jazz. Un’angoscia di fondo per una sinistra che usa “solo macchine lussose / solo rose” ma forse, semplicemente, non si ama più per stanchezza dopo una vita passata a rianimarla. Rimane però l’ansia di un rinnovamento che si vorrebbe trovare e che lascia invece un vuoto incolmabile, per quanto ricco di speranza (che è l’ultima a morire).

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"L’alpino" è decisamente la porta d’ingresso ufficiale nella follia del disco. Il testo sembra la descrizione di una cena tra massoni, o come minimo di “bamboccioni di merda” che organizzano orge stile Salò di Pasolini, con l’ingresso della donna del protagonista all’interno di questo giro losco (che sa tanto di mostro del Circeo). Ma al protagonista non dà fastidio tanto il giro losco, quanto la presenza di quest’alpino, che in un certo senso rappresenta la miopia di una sinistra che si attacca a vecchi nemici invece di riconoscere i nuovi, che sotto sotto ti adulano per poi farti diventare "cadaverino". E i nuovi nemici non sono altro che la sinistra stessa, che sta diventando più borghese che mai (il “lavoro per snob”), proprio nel momento in cui sta nascendo una nuova “generazione”: la stoccata in realtà sembra chiarissima e diretta alle BR e all’assassinio di Guido Rossa, giustiziato nel gennaio 1978, che era appunto un alpinista. Ed ecco quindi una musica fatta di dissonanze che smontano una classica canzone folk trasformandola poi in una serie di grida, sottofondi con voce che imita un pianto mugugnato (manco fosse i Cure di Close To Me), un piano preso a cazzotti a caso, un contrabbasso sfondato e una specie di suono che sembra un nastro magnetico manipolato, una voce che imita un theremin, insomma un casino della madonna, come si respirava quotidianamente in quegli anni bui.

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“Alle cinque prendo il tè” è una presa per il culo dei veterocomunisti, che in cuor loro se ne sbatterebbero il cazzo di tutto preferendo alla lotta uno spumone e andare a donnine. Ma basta urlare un paio di slogan ed ecco qua “l’impegno politico” riemergere. Insomma, l’ammissione che un certo tipo di lotta stereotipata “ha rotto le palle” persino a chi l’ha incominciata, e i poser sono più numerosi dei veri rivoluzionari. Il brano dura poco più di un minuto, ma è un quadretto perfetto della faccenda. L’arrangiamento è quello di una specie di frizzante e stuporoso “pop bucolico”: flauto, una sorta di mandola, batteria, che si sovrappongono serpeggianti e vagamente psichedelici sottolineando comicamente le fasi schizofreniche del protagonista. Anche qui l’ispirazione free è lampante.

Ma veniamo a “Violette”: brano pare già edito nel 1969 in diversa guisa, si fa notare per l’arrangiamento quasi a la Capitan Beefheart virato sulla canzone di protesta, con due chitarre elettriche che sfilano fraseggi no wave. Storia su un abbordaggio inconsapevole di una prostituta. Grandissimi incasinamenti atonali tra chitarre, fiati, e violino con effetti vocali femminili che manco Yoko Ono, spacca timpani. E a questo proposito, chiaramente, Pietrangeli interpreta anche il personaggio “rosa” della canzone: “Io qui vendo violette, garofani e rosette”. Il brano si chiude in un delirio quasi horror di suoni cacofonici.

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“Ahi che fatica mi costa” continua su una struttura sghemba, con tre contrabbassi che viaggiano su binari jazzati “normali” cercando di deragliare leggermente dall’armonia come se un vagone barcollasse sui suoi binari. Canzone d’amore accorata, ma solo in apparenza: infatti, è la storia di un delitto passionale che finisce in crudo cannibalismo con contorno di mutilazioni, prevedendo poi una certa “prassi” nelle cronache nere degli anni Duemila, “se ti tagliai le gambe lo feci con affetto". Come le precedenti canzoni, tutto è sorretto dalla chitarra di Pietrangeli che è, diciamo l’unico appiglio sicuro alla “ascoltabilità” del tutto. Il disco si colora di humor nero.

In "Katia", a questo proposito, la fiera del casino esplode pura e semplice. Tromboni random che vanno per i cazzi loro in stratificazioni che ricordano il John Coltrane di Ascension, su un ibrido sonoro tra lo stornello e Kurt Weil. È la storia di una Katia che non è russa, di Pietrogrado, ma è purosangue bolognese. Una stoccata divertita sia al mito della madre Russia, sia al fatto che sì, in Italia si pronuncia CCCP e non SSSR (in questo Pietrangeli la pensava come Ferretti e co, ma molto prima). Il brano è una scheggia dal minutaggio minimo e, come pennellata ermetica, va a braccetto con “Alle cinque prendo il tè”.

“Il furto” scorre fluido con il suo piglio brasiliano, per una narrazione assurdista su un furto che porta la vittima a farsi aiutare da una zia slava la quale gli dà un formaggio di latte di drago (?), poi va dalla donna più bella che dice sempre di no e che in realtà è l’artefice del furto, visto che sapeva sarebbe arrivato da lei, ma lo attendeva prima. Insomma non si capisce un cazzo, e questo è il bello. Poiché forse è il primo testo in cui si è volutamente scollegati da qualsiasi ammiccamento politico/sociale. Un pezzo che avvicina Pietrangeli più alle filastrocche di Pippo Franco/Gigi Proietti di Cara Kiri che a Potere Operaio, rinforzato però da un’interpretazione schizoide in cui il nostro interpreta (as usual) anche la bella della situazione. Forse la descrizione di un viaggio con LSD? Tutto può essere.

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“Natiche blu” è impreziosito da probabili botte di cymbalon ungherese, pianoforti trillati e sbattuti con veemenza, il pezzo più punk nella sua soluzione armonica, ma anche come attitudine “stracciona”. Anche qui durata di meno di un minuto, il testo narra delle continue adulazioni della pubblicità e dei prodotti di consumo, che arrivano addirittura a portarti una mignotta in casa, vinta con i punti dei “prodotti Pax”, che però ha le natiche blu e si suppone quindi sia un androide di plastica. Volendo essere più attenti, è una critica alla chiesa che oramai vende e si svende peggio di un supermercato. Un testo visionario quanto basta da far entrare Pietrangeli in zona “Donna di gomma” di gaznevadiana memoria, col gran finale che recita: “Era il premio per lui concordato / tra il celeste papato / e le fabbriche Pax”. Più politicamente chiaro di così…

E qua andiamo al sodo: il lato B si apre con un’esplicita “Ho insultato il movimento”. Potrebbe essere “L’avvelenata” di Pietrangeli, anzi lo è. "Ho insultato il 68”, tanto da dare dei “porci” al partito comunista con un abile doppio carpiato linguistico (pórci, pòrci). Qui Paolo rivendica il diritto di fare i soldi e di sbattersene il cazzo del finto problema, prendendo in giro chi lo considera un traditore per questo, autocitandosi con fredda ironia: “quando ho fatto Bianco e nero / voglio essere sincero / chi mi ha dato quel contante / quel brav’uomo di Almirante”. Tanto chissenefrega se anche viene l’apocalisse, il nostro ha conosciuto i fratelli Taviani, può morire felice e sticazzi del resto. Un brano folk imbeccato da clarinetti, sax e via dicendo, storti e ambivalenti tra l’atonale e il tonale, che a volte ricorda ironiche strizzate d’occhio al lissio romagnolo. Un Pietrangeli bello “confrontational” che non abbiamo mai sentito così in forma. Notevole il finale a ripetere sottovoce il magico cognome Taviani in maniera ossessiva.

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“Chi l’avrebbe mai detto” è la versione Pietrangeli delle urlate a cazzo di cane del Freak Antoni di Inascoltable, con tanto di percussioni esotiche e spentolate tipo Anima Latina di Battisti e xilofoni a caso. Poi un momento d’inaspettato Eminent che rende tutto più cosmic e inquietantemente sintetico. Ipotetica storia di un viaggio a Cuba in cui il protagonista sfata con i suoi stessi occhi il mito sinistroide, riscontrando delle serie crepe nel sistema: “col bastone e la tuba / tiri fuori i conigli / tiri fuori anche Cuba”.

Quest’autocritica impietosa è presente anche in “Bell’amico che sei”, dove sono rimpianti i momenti del Sessantotto, oramai ridotti a cenere di un modus operandi politico che non riesce più a guardare avanti. Qui è come se Pietrangeli osservasse i suoi compagni invecchiati malamente con la lente deformante della storia, infilati nel catrame delle loro stesse certezze. Chitarre acustiche storte overdubbate, per un country hawaiano alla Joe Meek (le voci pitchate non danno adito a dubbi) che poi diventa jazz tipo Paolo Conte, con kazoo e voci a trombetta assortite.

A colpi di gong lamierato, “Franti, Garrone, Pinocchio e la fatina” è in qualche modo la descrizione surrealista della normalizzazione in atto, per cui il rivoluzionario non è più cattivo, ma anzi si è rammollito, arrivando quasi vicino alla santificazione, come se fosse oramai morto e sepolto e avesse già dato tutto. Una riflessione pungente, che in qualche modo prevede gli scenari che ora stiamo vivendo, con una sinistra arrogante nel credersi unico baluardo del bene. Urla belluine, altro momento brutalista di Pietrangeli, che da chitarra e contrabbasso si ritrova a gestire direttamente il caos sonoro che si conclude con lo stesso colpo di gong dell'incipit, come un eterno ritorno nella gabbia delle convinzioni dalle quali sembra non ci sia via di fuga.

Il caos però è descritto davvero magistralmente soprattutto negli ultimi due brani, quelli più hardcore del lotto. ”L’ultimo caffè” parla di droga, di eroina. La descrizione della vita di un tossico, della pera. Dell’alienazione del proletariato che si prostituisce per una dose. La voce allucinata in falsetto di Pietrangeli apre a una ballata assurdista, fatta di rumori sparsi e percussioni random stile "Alan's Psychedelic Breakfast" dei Pink Floyd, tra rutti e stridori, quasi “scorregge” alla Schiaffini (le voci borbottanti direttamente nel trombone) sono un must. Un pezzo micidiale e amarissimo, come il caffè del titolo del resto (che poi ovviamente era la droga).

Ma il peggio deve arrivare. Suona a morto la 12 corde di Pietrangeli per passare a una simil-difonia storta che fa da bordone a tutto, doppiata da un violino alla John Cale: “Manicomio criminale” è un pezzo devastante. “La gente si diverte disperata o al cinema o a ballare”… “ al manicomio criminale si vendono pistole a poco prezzo”. Sembra un pezzo scritto oggi nella sua allucinazione iperrealista. Un finale ultrapsichedelico, acido, tra feedback e riverberi lisergici. Una società che sta impazzendo e che porta chi giustamente non la accetta ad armarsi e sparare per poi finire al manicomio criminale: una spirale di delirio senza fine che descrive gli anni tesi del disco ma soprattutto, ascoltandola in questo momento stroico, i nostri. La speranza espressa nel brano d’apertura qui si rivela come mera utopia. Il cerchio si chiude.

Di Cascami non c’è grande traccia in giro, a parte una ristampa in CD. Eppure è uno dei picchi della produzione di Pietrangeli, almeno a proposito di questa foggia sperimentale e ostica, disturbante, in un’ottica già sperimentata (da un punto di vista anarchico) dal Bennato di Io che non sono l’imperatore, che tanto doveva al Tim Buckley di Starsailor. Nell’estetica punk di Pietrangeli è da notare il libretto interno dei testi, fotocopie bianco e nero da originali scritte a macchina e rilegata in modo crudo, con l’immagine del disco anch’essa fotocopiata in bella vista.

E a proposito di punk: nel 1980 uscirà un’altra "Contessa", quella dei Decibel, composta tra l’altro proprio nel 1979, che supererà “a destra” le innovazioni e le critiche del movimento di Pietrangeli diventando un inno delle generazioni future del pop italiano. Da questo momento in poi la storia musicale di Pietrangeli si è come cristallizzata nonostante i numerosi dischi usciti e un maggior tentativo di usare l’arma dell’ironia. Cascami rimane l’ultimo disco del periodo d’oro alla Dischi Del Sole, e forse (osiamo dirlo) l’ultimo grande disco del nostro, mentre attendiamo una nuova canzone di protesta che spodesti una volta per tutte l’individualismo spesso fine a se stesso dell’indie e della trap.

E la sua storia politica? Tutto sommato, vale lo stesso discorso. Lo vediamo iscriversi nelle liste di Potere al Popolo, sperando in una forza giovane che possa ricostruire la sinistra di cui aveva cantato sia il sorgere, sia lo sfascio, per magari intonare un'altra era a pugno chiuso alzato. Il problema rimane però lo stesso: “Bisogna porci con il partito / Bisogna porci pòrci”.

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