jair bolsonaro presidente brasile
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Politică

Ok, il mondo sta ufficialmente andando a rotoli

La vittoria di Jair Bolsonaro non è solo una pessima notizia per il Brasile e il Sud America, ma per tutto il pianeta.

Ieri notte Jair Bolsonaro, un ex militare di estrema destra e leader del Partito Social-Liberale, è stato eletto presidente del Brasile con circa il 55 percento dei voti—superando di circa dieci punti Fernando Haddad, candidato socialdemocratico del Partito dei Lavoratori (PT). Subito dopo l’arrivo dei risultati Bolsonaro ha tenuto una specie di conferenza stampa via Facebook in cui ha detto: “Non possiamo continuare a flirtare con il socialismo, il comunismo, l’estremismo della sinistra e il populismo.”

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Le elezioni brasiliane, come ha ricostruito The Intercept, sono state particolarmente drammatiche. Per l’estrema polarizzazione che ha spaccato il paese tra chi sosteneva Bolsonaro e chi no, per la piaga della disinformazione diffusa su scala gigantesca prevalentemente tramite WhatsApp e—infine—per le particolari circostanze in cui si è arrivati al voto.

Nel 2016, con una procedura quantomeno controversa, l’ex presidente Dilma Rousseff è infatti stata rimossa dal governo tramite impeachment. Al suo posto è andato il centrista Michel Temer, che ha promulgato una serie di misure di austerità ed è presto diventato il leader politico più odiato della storia brasiliana. Prima delle elezioni, la politica brasiliana è stata sconvolta dallo scandalo Petrobras—il più grande scandalo di corruzione della storia del paese—che ha coinvolto un po’ tutti i partiti ma per ovvi motivi principalmente il PT, per il semplice fatto che è stato il PT a governare negli ultimi 12 anni.

Da questa drammatica contingenza è emerso Bolsonaro, che ha potuto guadagnare consenso presentandosi come un “outsider” (sebbene sia in politica dagli anni Novanta) in grado di sistemare le cose, spazzare via i corrotti, ripristinare la sicurezza—nel paese ci sono stati più di 63mila omicidi nel 2018—e rilanciare la crescita economica. L’unico rivale politico che (stando ai sondaggi) sarebbe stato in grado di sconfiggerlo, ossia il leader del PT ed ex presidente Lula, è stato arrestato lo scorso aprile e sostituito da Haddad, un candidato così debole che lo slogan della sua campagna era letteralmente “Haddad è Lula.”

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Per capire Bolsonaro—e i paragoni con Augusto Pinochet e la giunta militare che ha governato il Cile dal golpe del 1973 al 1990 (più che quelli con Trump, di cui abbiamo già parlato qui)—bisogna guardare all’eredità della dittatura militare che ha governato il Brasile dal 1964 al 1985 e con cui il nuovo presidente si pone in una linea di inquietante continuità. Diversi anni fa, durante una trasmissione televisiva, Bolsonaro aveva espresso il suo supporto per la dittatura, dicendo che era stata troppo morbida e promettendo che avrebbe “fatto il lavoro che i militari non hanno fatto.”

Ma le similitudini non riguardano solo l’autoritarismo. Come Pinochet, anche Bolsonaro è arrivato al potere presentandosi come l’antidoto al socialismo—in questo caso, come l’unico modo per spezzare il dominio decennale del PT. E la sua ascesa non si spiega solo con la particolare situazione politica vissuta dal Brasile negli ultimi anni o con il fatto che il suo rivale principale sia stato messo fuori gioco per via giudiziaria: non sarebbe stata possibile senza il supporto delle élite del paese—e anche di quelle estere, a giudicare dal recente endorsement del Wall Street Journal—allettate dalle sue politiche ultra-liberiste. Una cosa che si è percepita anche a casa nostra, visto che Il Sole 24 Ore l’ha definito “gradito ai mercati” e Radio 24 ha detto che “fa tornare di attualità i Chicago Boys.”

Questo supporto ha fatto sì che le elezioni brasiliane non siano state elezioni normali: dopo l'attentato subito a inizio settembre, Bolsonaro ha rifiutato di confrontarsi con gli avversari nei consueti dibattiti pubblici e ha accettato pochissime interviste, "lasciando numerosi buchi nella conoscenza da parte dell'elettorato delle sue posizioni in fatto di argomenti chiave come la riforma delle pensioni e le privatizzazioni." Anche il sistema giudiziario gli ha spianato la strada: Sergio Moro, il giudice federale che si è occupato dello scandalo Petrobras, ha reso pubblica una testimonianza compromettente contro il PT proprio la settimana prima delle elezioni—e in cambio Bolsonaro ha dichiarato che non gli dispiacerebbe avere uno come Moro nella Corte Suprema.

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Nel 1999, intervistato alla tv, Bolsonaro aveva detto che se fosse diventato presidente avrebbe ”fatto un colpo di stato il giorno stesso”, chiudendo il Congresso, perché “non funziona.” È la stessa intervista in cui ha detto che le cose in Brasile sarebbero cambiate solo grazie a una guerra civile che facesse “il lavoro che la dittatura militare non ha fatto.” L’anno scorso, parlando a un evento elettorale nello stato del Paraiba, ha detto che “le minoranze si devono inchinare alla maggioranza” e che “la legge deve esistere per difendere la maggioranza. Le minoranze si devono adeguare o devono scomparire.”

Solo la scorsa settimana, parlando in videoconferenza a una manifestazione di sostenitori a San Paolo, ha detto che gli oppositori dovranno “andarsene o andare in galera” e che verranno “banditi dalla patria.” Poco dopo ha minacciato i sostenitori del PT dicendo che l’esercito e la polizia, supportati dal sistema giudiziario, li “rimetteranno in riga.”

Già dopo la sua vittoria al primo turno abbiamo—in modo non dissimile da quanto successo nelle prime ore dopo la vittoria di Trump—abbiamo avuto un assaggio tutto questo. Il caso più noto è stato quello della ragazza che, colpevole di indossare una maglietta con lo slogan anti-Bolsonaro “EleNao” ("Non Lui"), è stata tenuta ferma da due uomini mentre un terzo le incideva una svastica sulla pancia (la polizia ha decretato che non si trattava di un crimine d’odio, perché la svastica “è un simbolo buddista di armonia”—giuro). Non è stato il caso peggiore: il giorno prima del ballottaggio Charlione Lessa, un 23enne di Fortaleza, è stato ucciso da un sostenitore di Bolsonaro mentre partecipava a una manifestazione del PT. Nei giorni prima delle elezioni, infine, diversi gruppi antifascisti hanno denunciato intimidazioni di vario tipo subite dalla polizia nel fare campagna contro di lui.

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Secondo il sito Brasilwire, Jair Bolsonaro è il “nuovo Pinochet di Wall Street”—ovvero un “caso di scuola nella relazione tra fascismo e neoliberismo.” Il manifesto della sua campagna elettorale, stilato insieme all’economista neoliberista Paulo Guedes, pone l’enfasi sulla sicurezza, la liberalizzazione delle armi e una massiccia privatizzazione delle aziende pubbliche e delle risorse brasiliane. Di fronte a questo, l’intervista del 1999 in cui Bolsonaro si vanta di evadere le tasse il più possibile e consiglia a tutti di imitarlo sembra solo una manifestazione di coerenza.

Ma non c’è solo questo. La vittoria di Bolsonaro è una pessima notizia anche sul versante ambientale, perché arriva in momento particolarmente drammatico per la lotta ai cambiamenti climatici. Prima ancora delle elezioni, Bolsonaro aveva annunciato l’intenzione di seguire le orme di Trump e ritirarsi dagli accordi di Parigi sul clima, citando ragioni di sovranità nazionale e il diritto di sfruttare l’Amazzonia (lo stesso ha poi ritrattato dicendo di voler rimanerci dentro, seppur in maniera critica).

Ha anche detto di voler eliminare il ministero dell’Ambiente, aprire le riserve indigene alle compagnie minerarie, abbassare gli standard ambientali per le aziende, bandire Ong come Greenpeace e il WWF dal paese. Come ha fatto notare Wired, “la sua presidenza potrebbe rivelarsi un disastro per l’Amazzonia.” E pochi giorni fa, l’editor che si occupa di ambiente sul Guardian ha scritto che “il nostro pianeta non può permettersi molti altri populisti come Bolsonaro.”

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Ieri notte, comunque, in Brasile l’esercito ha festeggiato insieme ai suoi sostenitori, a dimostrazione della piega che sta prendendo il paese. Lo scorso 11 ottobre persino Marine Le Pen, leader del Front National, aveva preso le distanze da Bolsonaro, dicendo che “dice cose estreme e spiacevoli, che non si possono trasporre in Francia.”

Evidentemente in Italia però sì, perché Matteo Salvini ha subito festeggiato la vittoria di Bolsonaro dicendo che “anche in Brasile i cittadini hanno mandato a casa la sinistra.” Il figlio di Bolsonaro ha ringraziato per il sostegno e detto che “il regalo è in arrivo,” riferendosi all’estradizione di Cesare Battisti.

Al di là delle celebrazioni di Salvini e del suo “social-megafono,” resta il fatto che Bolsonaro è uno dei leader più estremi finora apparsi sulla scena internazionale: non solo è omofobo, misogino, razzista e antidemocratico; rischia concretamente di esacerbare la violenza in un paese già di suo molto violento. E la sua elezione è una pessima notizia non solo per la fragile democrazia brasiliana, ma per il mondo intero.

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