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Magazzino di Amazon. Immagine via: Vimeo/NTTv
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Cosa impari passando due anni dentro il più grosso centro italiano di Amazon

Abbiamo parlato con Alessandro Delfanti — autore di una ricerca sulla nuova classe operaia creata dall'e-commerce — delle contraddizioni del colosso tech e del controllo e del precariato che alimenta.

Oggi comprendere il lavoro nelle maggiori aziende multinazionali significa parlare di management algoritmico, sorveglianza dei lavoratori e automazione, ma — soprattutto — di grandi contraddizioni.

Una ricerca recente ha dimostrato come i lavoratori di Amazon, colosso mondiale dell’e-commerce, siano un caso studio sociologico fondamentale per delineare l’evoluzione del mondo del lavoro operaio, a partire da alcune teorizzazioni degli anni Cinquanta.

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La ricerca — sviluppata da Alessandro Delfanti, professore associato della Facoltà di Informatica dell’Università di Toronto — è stata presentata all’Università di Milano il 21 maggio scorso e sarà parte integrante del libro The Warehouse (Il Magazzino) dello stesso autore. Motherboard ha incontrato Delfanti per parlare di nuove classi operaie e nuove forme di controllo.

Il lavoro di Delfanti all’interno di Amazon è iniziato nel 2017, a Castel San Giovanni (provincia di Piacenza) e ha lo scopo di indagare, dall’interno, la qualità del lavoro e i processi di automazione e sviluppo tecnologico dell’azienda. Il magazzino, che è il più grande in Italia tra quelli dell’azienda di Jeff Bezos, conta più di 1500 dipendenti a tempo pieno e indeterminato; in occasione dei Prime Day o durante il Black Friday, però, la forza lavoro della struttura raddoppia grazie alle agenzie interinali che offrono manodopera ad hoc.

Il connubio uomo-macchina [è fatto] per dequalificare il lavoratore, catturarne le competenze e successivamente riutilizzarle in modo più efficace e continuativo.

Per studiare la struttura di Castel San Giovanni, Delfanti ha svolto una ricerca etnografica basata su numerose interviste a lavoratori, ex lavoratori con diversi ruoli e sindacalisti, visite all’interno del magazzino e sessioni di osservazione partecipata durante le riunioni sindacali. Rifacendosi al pensiero del sociologo Romano Alquati e del teorico marxista Raniero Panzieri, il ricercatore ha osservato come all’interno di Amazon sia presente una dicotomia contraddittoria: l’azienda espropria il lavoro operaio e lo incorpora nelle macchine (in senso marxista), ma ha comunque continuo bisogno di masse di lavoratori manuali.

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Secondo Delfanti, la tecnologia e il connubio uomo-macchina utilizzati da Amazon sono infatti impiegati per dequalificare il lavoratore (deskilling), catturarne le competenze e successivamente riutilizzarle in modo più efficace e continuativo. La tecnologia ha anche l’obiettivo di regolare e sorvegliare i lavoratori. Ma la poca flessibilità delle macchine utilizzate — come ad esempio i robot che muovono interi scaffali di merci — è un costante problema che Amazon non può sottovalutare: ciò a cui punta l’azienda non è la sostituzione del lavoratore con una macchina, bensì l’ottimizzazione del lavoro umano attraverso l’unione tra i due. “Per questo motivo la richiesta di lavoratori da parte dell’azienda è massiva,” ha spiegato Delfanti presentando il suo studio, “e non solo proveniente dal circondario bensì anche da zone più lontane come Alessandria, Parma, Cremona. Anche il target è mutato nel tempo: mentre fino ad alcuni anni fa erano perlopiù bianchi, italiani e scolarizzati, ora vi è un gran numero di immigrati,” dice Delfanti.

Il lavoro dello stower

All’interno della pick tower — la grande torre al centro del magazzino — la merce che ordiniamo online su Amazon viene stoccata in modo caotico. Il processo che seguono i lavoratori del magazzino è composto da quattro passaggi che iniziano con la ricezione della merce (receive), passano allo stoccaggio (stow), vengono prelevati (pick), e infine impacchettati per la spedizione (pack).

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Il lavoratore che si trova al secondo step del processo lavorativo, il cosiddetto stower, ha il compito di prendere la merce e inserirla all’interno di una cella della torre, nella zona assegnatagli. Delfanti si è concentrato in particolare sul suo ruolo e lo ha definito come “quello che i lavoratori preferiscono all’interno del magazzino poiché dà la libertà di decidere in quale cella inserire gli oggetti, ovvero dove non ce n’è uno simile o vicino.”

Scelta la cella, lo stower avvicina il lettore di codici a barre all’etichetta e ne registra il posizionamento. Lo stoccaggio caotico, ovvero la possibilità di avere nella propria area di competenza un oggetto in una data cella, non confonde il picker — colui che poi prenderà l’oggetto — e ne velocizza il lavoro, soprattutto perché evita code al prelievo della merce,” ha spiegato Delfanti.

L’ossimoro è presto spiegato: il lavoratore, nonostante collochi l’oggetto nella cella da lui prestabilita, non conosce l’esatta posizione della merce — leva politica del passato, conoscenza imprescindibile per l’operaio — poiché questa è nelle macchine. “Questo è una prima e sostanziale differenza rispetto a quanto accadeva in passato, e toglie un altro strumento di rivalsa al lavoratore nei confronti dell’azienda,” spiega Delfanti rispondendo ad una domanda sui riferimenti accademici utilizzati nello studio.

Il mito della meritocrazia

Amazon potrebbe sembrare migliore rispetto ad altre aziende di logistica: “il magazzino di Castel San Giovanni è riscaldato d’inverno e climatizzato durante il periodo estivo, ha standard di sicurezza migliori del normale e i bagni puliti,” ha spiegato Delfanti. “D’estate in alcune occasioni viene distribuito il gelato per tutti e, in generale, dopo il turno si può giocare a calcetto.”

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Quando si entra a Castel San Giovanni come magazzinieri si è destinati a rimanere tali, semplicemente perché il management è completamente esternalizzato.

L’impostazione è simile a quella delle altre aziende della Silicon Valley, ma presenta una serie di pratiche diverse, ha spiegato Delfanti elencando i risultati del suo studio: fra le tante, all’inizio e prima della fine di un turno di lavoro i lead manager — i capi area — incitano i magazzinieri ad aumentare le loro prestazioni, oppure, vengono stabilite delle power hour nelle quali ai lavoratori è richiesto lo svolgimento delle mansioni in modo più veloce, al fine di vincere una maglietta di Amazon. Chi lavora duro è migliore e la promessa è la meritocrazia, ha fatto notare Delfanti.

Nonostante questo storytelling, quando si entra a Castel San Giovanni come magazzinieri si è destinati a rimanere tali, semplicemente perché il management è completamente esternalizzato. I magazzinieri solitamente hanno età variabile (la maggior parte fra i 20 e i 35 anni) mentre il management è composto spesso, anche se non sempre, da laureati di 25 anni con un master alla Bocconi, ha chiarito Delfanti. Di fatto un magazziniere non occuperà mai nessun’altra posizione a causa della mancanza di mobilità verticale, sostituita da quella orizzontale. Il mito della meritocrazia, tanto decantato al di fuori così come all’interno di Amazon, cade dunque molto in fretta.

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Nel magazzino di Castel San Giovanni sono 500 (su più di 1.500) i lavoratori iscritti ai sindacati. Una cifra molto al di sopra della norma e che, insieme ai numerosi articoli di giornale dedicati alle condizioni lavorative di Amazon, dà un’idea di quanto il contratto di lavoro non sia l’unica questione spinosa.

“Nonostante molti dei lavoratori siano assunti con un contratto a tempo indeterminato, le dimissioni avvengono dopo 3 o 4 anni dall’assunzione,” ha detto Delfanti. L’azienda punta sì ad un continuo turn over dei lavoratori (ad esempio garantendo per ogni anno di lavoro una maggiorazione di 1000 euro sul TFR per una durata di 4 anni), ma sono tanti quelli che decidono di andarsene. “La motivazione si ritrova anche nella presa di coscienza del paternalismo aziendale e della disciplina del precariato alla quale sono sottoposti i lavoratori di Amazon,” spiega Delfanti.

“Durante i meeting sindacali all’interno dell’azienda si discutono perlopiù le problematiche relative alla turnazione dei lavoratori e, in generale, al lavoro in magazzino,” ha spiegato Delfanti sollecitato da una domanda sul ruolo dei sindacati. “Ma i sindacati agiscono anche a livello globale, a causa dell’omogeneizzazione del lavoro di Amazon a livello internazionale che, alcune volte, può anche contrastare con le leggi nazionali di alcuni paesi.”

Per quanto riguarda le tutele e gli interventi sindacali più frequenti, c’è armonia anche sul piano internazionale: “il lavoro all’interno di Amazon è uguale in tutto il mondo, così come le condizioni lavorative. L’ultimo incontro dei rappresentanti sindacali nazionali si è svolto a Berlino alla fine di aprile. In questa occasione non si è tanto discusso della questione salariale (che rimane nazionale, nda), bensì della possibilità di creare una strategia comune di comunicazione con l’azienda,” ha spiegato Delfanti rispondendo alle domande del pubblico di Milano.

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Il management algoritmico

Il controllo del lavoratore da parte dei manager viene garantito in prima istanza dalla tecnologia, è emerso dallo studio. Questa, e più nello specifico l’utilizzo di un algoritmo specifico, fa sì che il lavoratore si adegui al “passo algoritmico” e lavori di più e più in fretta.

Il lettore di codici a barre, oltre a fornire indicazioni pratiche per il posizionamento della merce, e dunque “svolgere attività di management,” inoltra un feedback sulle prestazioni del lavoratore: assegnata allo stower una mansione, questo ha un determinato lasso di tempo per portarla a termine (qualche decina di secondi), sfruttando il percorso ottimizzato dall’algoritmo stesso. Lo strumento è, secondo i lavoratori, non troppo preciso e “capita spesso che la merce non sia nel punto più vicino poi al picker, costringendo di fatto il lavoratore a mantenere un ritmo molto elevato e spostarsi continuamente,” ha spiegato Delfanti.

Gli acquisti vengono previsti anche in maniera più sottile: durante le giornate di pioggia, ad esempio, molte persone rimangono a casa e comprano su Amazon

La sorveglianza sul lavoro svolto è quindi possibile grazie al feedback inviato direttamente agli schermi negli uffici del management, che non viene coinvolto fisicamente. È come se la pick tower fosse regolata in maniera molto simile al Panopticon di Bentham, dove la sorveglianza non è palese bensì introiettata all’interno del lavoratore stesso: le sue prestazioni lavorative, il tempo necessario per il “piccaggio” o lo stoccaggio di un certo numero di merci, le sue necessità fisiologiche, vengono inoltrate a coloro che gestiscono il processo dall’alto.

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L’algoritmo attua alcune predizioni sulle possibili vendite di Amazon e dunque incide fortemente sulla richiesta dei lavoratori, ha poi spiegato Delfanti. Mentre Black Friday o Prime Day sono giornate nelle quali è normale pensare vi saranno molti acquisti, questi vengono previsti anche in maniera più sottile: durante le giornate di pioggia, ad esempio, molte persone rimangono a casa e comprano su Amazon, come su altri siti. L’algoritmo in questo caso prevede un certo carico di lavoro e quindi il management ricerca lavoratori interinali per garantire un servizio, al contempo reiterando il circuito della precarietà del lavoro.

Molto negativo è il cosiddetto incontro “one to one” dove il lavoratore viene richiamato direttamente dal management per parlare delle sue prestazioni lavorative. Da molte interviste a lavoratori di Castel San Giovanni è emerso come la pratica sia ritenuta umiliante, perché i magazzinieri vengono ripresi dal manager, che non ha mai svolto il lavoro di magazzino e spesso è più giovane, ha riferito Delfanti.

Automazione e brevetti

Recentemente un’azienda italiana ha realizzato un prototipo di robot per imballaggio delle merci. Questa è presente anche a Castel San Giovanni e “a detta dei lavoratori è un prototipo non funzionante in tutti i turni e nemmeno in modo troppo efficiente. L’automazione in questo caso è ancora problematica,” ha risposto Delfanti a una domanda in merito. Bezos ha recentemente dichiarato che optare per l’imballaggio automatico voleva essere una scelta ecologica, ma “quando il prototipo è in funzione, secondo i lavoratori, lo spreco del cartone è in realtà maggiore rispetto al normale e questo perché al posto di una scatola già tagliata, la macchina srotola un nastro di cartone che si taglierà successivamente seguendo le dimensioni dell’oggetto,” sostiene Delfanti, “ma il cartone in esubero viene buttato.”

“La questione ecologica non è assolutamente prevalente. Attraverso il prototipo, l’impacchettamento avviene in un tempo minore, ma il processo è ancora a una fase iniziale. Potenzialmente, se migliorato, potrebbe rendere superflui fino a 6 packer per nastro,” spiega Delfanti rispondendo ad una domanda sul futuro tecnologico di Amazon.

Il ricercatore sta svolgendo anche un’analisi sistemica in merito alle ulteriori forme di automazione tecnologica previste dall’azienda e probabilmente all’orizzonte. “In numerose fiere e convegni vedo robot ideati (o ancora in fase di sviluppo) che coniugano la capacità tecnologica con il lavoro umano. Ma i brevetti,” spiega Delfanti, “sono forse il mezzo più interessante da analizzare, e per due motivi: aiutano a comprendere quale possa essere la volontà di automazione dell’azienda (reale o utopica), servono per richiamare gli investitori, ma, soprattutto, delineano possibili futuri già privatizzati.”