Identità

Il panico da coronavirus in Italia, visto da un'italiana di origini cinesi

"Tutto quello che sta accadendo ha fatto poco a poco riaffiorare ciò che ho vissuto nel 2003, per il panico legato alla Sars."
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Foto per gentile concessione dell'autrice.

Giovedì 30 gennaio, ore 22. Una notifica. “I primi due casi di coronavirus confermati a Roma,” mi scrive un amico. “È finita,” penso.

E lo penso non per la paura che ho nei confronti del coronavirus in sé. Affidandomi ai dati ufficiali e alle parole dei divulgatori scientifici, sono piuttosto tranquilla al riguardo: a sviluppare complicazioni per via del virus sono perlopiù individui avanti con l’età o persone immunodepresse, e l’età media dei deceduti è piuttosto alta. Dal canto mio ho la fortuna di avere il sistema immunitario di una 26enne in salute, e di vivere in un paese con un sistema sanitario efficiente.

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Con quel messaggio, piuttosto, mi sono fatta prendere dallo sconforto perché se l’allarmismo in Italia era già molto alto, temevo che la situazione sarebbe peggiorata ulteriormente. Quel timore è poi diventato realtà.

Mi faccio chiamare Momoka Banana. “Banana" perché gialla fuori e bianca dentro: sono una ragazza di origini cinesi nata e cresciuta a Roma—quindi, nonostante l’involucro 100 percento asiatico, sono italiana. Della mia vita parlo spesso su Youtube e Instagram, ma stavolta sto cercando di mettere un po’ d’ordine per iscritto, perché pur non volendolo nell'ultimo periodo mi sono ritrovata a fare la debunker di notizie poco accurate o vere e proprie bufale sul coronavirus. Quindi partirò dal principio.

Tutto quello che sta accadendo ha fatto poco a poco riaffiorare ciò che ho vissuto nel 2003 per il panico dettato dalla Sars. Ai tempi avevo nove anni, e il ristorante dei miei genitori—che si erano trasferiti molti anni prima dalla Cina—fu investito da una crisi che durò circa sei mesi, ma che all’epoca sembrò molto più lunga.

Alla fine la mia famiglia, seppur a tentoni, riuscì a superare quel periodo. Molti altri locali cinesi in città, invece, fallirono. La gente era intimorita dagli asiatici. Non ho ricordi nitidi e non comprendevo appieno le notizie, eppure ho ancora impresso il senso di inadeguatezza che provavo dentro, il terrore di spaventare le persone che avevo intorno.

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Un giorno in classe chiesi ai miei amici se avessero paura di me. Mi risposero di no, che mi volevano bene. Ma quella conferma era arrivata dopo un periodo—quando ero piccola non si vedevano molte facce come la mia a scuola—in cui mi ero sentita esclusa: molte bambine non mi volevano come amica perché mi vedevano diversa, mentre ai bambini sembrava importare meno.

Sono passati solo vent’anni da allora, eppure a me molto sembrava cambiato. Ho una sorellina più piccola e dei nipoti e non stanno provando nel contesto scolastico, tra compagni, le difficoltà che ho provato io. Eppure gli episodi sinofobici in giro per l'Italia si stanno moltiplicando, dai commenti su TikTok alle azioni per strada. Penso al caso del video di Firenze in cui vengono insultati due turisti cinesi, o a quello di un ragazzino che passando da un ristorante cinese vuoto dice che nessuno dovrebbe più andarci e che i cinesi dovrebbero tornarsene da dove sono venuti. Questo secondo video fortunatamente non posso linkarlo: tramite le varie segnalazioni coordinate di un gruppo di italiani di seconda generazione di cui faccio parte, siamo riusciti a farlo cancellare dalla piattaforma.

A proposito di ristoranti: analogamente a quanto successo ai tempi della Sars, anche stavolta stiamo passando un momento duro con l'attività dei miei. Il calo della clientela è cominciato intorno a metà gennaio. Sabato sera, il momento in cui solitamente c’è più gente, abbiamo fatto 25 persone. Di solito ne facciamo 100.

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Il ristorante è il mezzo di sostentamento della mia famiglia da 27 anni, abbiamo clienti che vengono da noi puntualmente e, notando la quantità di tavoli vuoti, hanno criticato l’allarmismo dei loro—anzi, nostri—connazionali.

Come accennavo, sono anni che parlo delle mie esperienze su Internet; nel mio piccolo cerco di essere un ponte tra la cultura cinese e quella italiana, di rispondere sempre in maniera esaustiva anche a chi formula quesiti in maniera offensiva. In questo caso, però, è come se il coronavirus fosse stato una sorta di legittimazione del razzismo mischiato alla paura. E questo mi ha resa molto triste.

Mi sono state inoltrate catene di WhatsApp su “consigli sanitari” improvvisati, o messaggi audio in cui persone totalmente a caso raccontavano "ciò che i poteri forti non ci dicono," dipingendo Wuhan come uno scenario post-apocalittico in cui la situazione era ben peggiore di quella che ci trasmettono i media. Ho osservato inerme persone con un grande seguito su Instagram—vedi alla voce Dj Francesco—diffondere informazioni sbagliate sulle stories (per poi cancellarle poco dopo). Oppure mi sono trovata, come tanti altri, a smontare fake news come queste:

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Mi hanno fatto anche un po’ sorridere i primi articoli sul coronavirus sempre accompagnati da foto (probabilmente d’archivio) di cinesi con la mascherina. In generale in Italia portare la mascherina è vista come qualcosa da appestati; ma in Cina sono usate all’ordine del giorno, specie durante la stagione delle influenze e dei raffreddori. E non solo per evitare il contagio, ma anche per non contagiare la comunità (infatti se proprio vogliamo fare gli allarmisti, sarebbe più sicuro stare vicini a un cinese con la mascherina). Sono così in voga che ne producono anche in modelli carini, per usarle come veri e propri accessori.

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Le conseguenze della disinformazione sono reali: al ristorante siamo stati costretti a lasciare a casa il personale part-time (anche italiano dentro e fuori) e rendere part-time il personale che era full-time. A nessun proprietario piace mandare a casa i propri dipendenti, è terribile, soprattutto sapendo che ora per la maggior parte trovare facilmente lavoro da altre parti sarà difficilissimo—perché questa è una crisi che colpisce non solo i ristoranti, ma tutte le attività commerciali della comunità cinese.

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Mia madre però non è arrabbiata. Naturalmente è abbattuta e spaventata per il locale, comprende che le persone vogliano tutelarsi, sebbene, allo stato attuale, sia tutto totalmente irrazionale. Ciò che non accetta sono l’intolleranza e la totale diffidenza. Ha incontrato una nostra vicina di casa che prima di questo fatto era sempre gentile con noi e, come fa di consueto, l’ha salutata sorridendo. In risposta, la signora ha distolto lo sguardo e ha tirato dritto.

La paura scatena la parte peggiore di alcuni di noi.

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