Attualità

Ho 21 anni, sono una au pair in Cina e non riesco a tornare in Italia

Elisa è andata a fare la ragazza alla pari lo scorso ottobre. Da febbraio è chiusa in casa con una famiglia che non è la sua, senza riuscire a tornare in Italia.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
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Elisa Colosio a Hangzhou. Foto per gentile concessione dell'intervistata.

Nonostante i cauti tentativi di riapertura che diversi governi (tra cui il nostro) stanno sperimentando, uno degli effetti più destabilizzanti del lockdown è quello di non sapere effettivamente quando finirà.

Certo: se si ha la fortuna di stare con i propri affetti stabili in una casa grande e confortevole, è un conto. Molti però non hanno questo lusso; e tanti altri si trovano separati dai propri partner, o dai propri genitori, senza avere la minima idea di quando li potranno rivedere. A volte la situazione è resa ancora più insopportabile dalla distanza, perché ci può essere un continente di mezzo.

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È questo il caso di Elisa Colosio, una studentessa di 21 anni di Telgate, in provincia di Bergamo. Prima della pandemia, studiava lingue all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Brescia e aveva deciso di prendersi un periodo di pausa per andare in Cina da ragazza alla pari. Appoggiandosi a un’agenzia cinese, ha trovato una famiglia ospitante a Hangzhou—una città di oltre 10 milioni di abitanti nella regione orientale dello Zhejiang, a circa 700 km da Wuhan.

L’esperienza è iniziata nell’ottobre del 2019 e sarebbe dovuta durare sei mesi, ma è stata completamente stravolta intorno alla metà di gennaio. Da allora Elisa è bloccata in Cina, e nonostante vari tentativi non è ancora riuscita a tornare in Italia. L’ho sentita per farmi raccontare la sua storia.

VICE: Ciao Elisa. Per cominciare, mi potresti raccontare com’è stato il primo periodo—diciamo fino a quando non si è cominciato a parlare di coronavirus?
Elisa Colosio: Il primo periodo, quindi dal 10 ottobre fino a metà gennaio, è stato tutto sommato positivo. Mi sono dovuta ridimensionare un attimo, nel senso che fin da subito la famiglia mi ha vista più come babysitter che come una semplice insegnante d’inglese, quindi mi sono ritrovata a dover fare cose che non pensavo di dover fare.

Detto ciò, avevo molto tempo libero: potevo uscire, incontrare le ragazze che avevo conosciuto, visitare la città, fare le mie lezioni di cinese. La situazione era comunque positiva, non era affatto pesante.

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E dopo la quarantena a Wuhan, è cambiato qualcosa anche nella città in cui ti trovi?
Quando il virus ha cominciato a diffondersi in tutta la Cina, hanno cominciato a mettere in quarantena anche tantissime altre città, tra cui anche Hangzhou. Quindi ho passato un mese, tutto febbraio, in quarantena.

A fine febbraio è stato scoperto il primo caso a Codogno, nella tua regione: come l’hai vissuta? Hai pensato subito a tornare in Italia, o tutto sommato era più “sicuro” restare in Cina?
Quando si è scoperto il primo caso, e poi la cosa si è estesa a tutta la Lombardia, mi sono un po’ preoccupata—ma non così tanto da decidere di tornare. Mancava davvero poco al termine del mio contratto, quindi ho preferito rimanere qui.

Quando poi il contratto si è concluso, l'8 aprile, l’agenzia alla quale mi ero appoggiata mi ha proposto di rinnovarlo per un altro mese o due, ma io ho rifiutato. Per la famiglia non era comunque un problema ospitarmi di più, e io stavo ancora cercando dei voli, quindi non volevo essere limitata dalla durata di un altro contratto.

Che rapporto hai con la famiglia?
Le scuole hanno chiuso per il capodanno cinese a metà gennaio e non hanno più riaperto, quindi il tempo passato insieme, complice anche la quarantena, è aumentato. In tutto ciò il rapporto è migliorato, ma è stato da parte mia più per autodifesa, per non diventare completamente matta; e da parte loro perché chiaramente, essendo obbligata a rimanere in casa tutti i giorni e tutto il tempo, dedico tutto il mio tempo alla figlia.

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Loro sono contenti, non vorrebbero che io andassi a casa: la bambina adesso mi adora. Però mi rendo conto che siamo arrivati a questo rapporto sulla base di costrizioni.

Quante volte hai provato a tornare in Italia, e come mai non sei mai riuscita a partire?
Ho provato a tornare quattro volte, prenotando quattro voli con tratte e compagnie diverse. Ma nel giro di una settimana o dieci giorni mi è sempre arrivata la mail che mi informava della cancellazione del volo. In questa mail non c’era mai la motivazione, però già al momento della prenotazione, sui siti delle compagnie, c’era l’avviso che diceva che i voli avrebbero potuto avere modifiche e/o cancellazioni.

Non hai provato a rivolgerti ai consolati o all’ambasciata italiana? Non ti hanno detto nulla?
Tra un volo o l’altro li ho contattati più volte, ma in questo momento sono stati sospesi i voli diretti dalla Cina all’Italia, e l’unica cosa che hanno potuto fare è stato consigliarmi con quale compagnia viaggiare e che tratte seguire. Cosa che ho fatto, ma che non è servita, visto che poi mi hanno cancellato i voli. Sono sicura di non essere l’unica a vivere questo disagio.

C’è un aneddoto particolare di questa situazione in cui ti trovi che vorresti raccontare?
Una cosa sulla quale riderò su, una volta che tutto questo sarà finito, è stato quando mi hanno cancellato il terzo volo. Ero tristissima, l’avevo presa malissimo, e anche nel dirlo alla famiglia avevo le lacrime agli occhi—si vedeva che stavo male.

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La bambina, nel realizzare che non sarei potuta tornare, è invece scoppiata a urlare ed era felicissima, ha cominciato a saltare in giro ed abbracciarmi. Io volevo solo levarmela di dosso, chiudermi in camera e urlare, perché non ce la facevo più.

Stai ancora provando a tornare?
Sto ancora cercando di tornare in Italia, ma non ho ancora nessuna certezza su come riuscirò a farlo. Inoltre le compagnie aeree non rimborsano più i biglietti cancellati, ma rilasciano un voucher con il valore del biglietto da poter riutilizzare più avanti.

Questa cosa mi limita, perché non posso continuare a prenotare biglietti che non mi rimborsano neanche. Psicologicamente sono distrutta, sono obbligata a rimanere qui contro la mia volontà.

Da inizio marzo (quando ho prenotato il primo volo) conto i giorni che mi separano dall’Italia, da casa mia. Ed è un continuo contare, un conto alla rovescia dopo l’altro, più lungo ogni volta che riparte; la cosa peggiore è che non ho mai la sicurezza di contare fino a zero.

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