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Tecnologia

La storia dell'iprite: dalla guerra di trincea al mare Adriatico

Il 'gas mostarda,' è stato uno dei primi agenti chimici utilizzati in guerra e in Italia non ci siamo ancora liberati dal suo spettro.
I piacevoli effetti dell'iprite.

L'attualità passa anche attraverso l'intrattenimento, e uno dei filtri più indicativi di ciò che caratterizza la nostra era sono le serie TV. Sul piccolo schermo arrivano tutte le cifre primordiali dell'essere umano dell'anno X. Al bando le riflessioni, gli approfondimenti, i ragionamenti: ciò che conta è toccare delle corde scoperte, dei sentimenti che in maniera più o meno incisiva toccano tutti.

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I polizieschi americani sono perfetti per dimostrare questo fenomeno: giusto qualche mese fa ho dovuto fare doppia verifica prima di rendermi conto che la nuova stagione di CSI mandata in onda in Italia parlava davvero dei cybercrimini e si chiamava CSI: Cyber. Insomma, parlare di darknet nel 2015 è incredibilmente demodé, no?

Allo stesso modo qualche anno fa, questi stessi polizieschi hanno fatto un salto piuttosto importante e hanno smesso di identificare il nemico con la figura del terrorista e sono passati alle più pratiche e scenograficamente d'impatto armi chimiche. Non è una scelta banale. Questo tipo di arsenali vivono una realtà strana, il mondo occidentale li ha sempre guardati con distaccato timore: esistono ma fanno talmente paura che è meglio allontanarli dalla nostra realtà.

Questa comprensibile forma mentis ci ha portato, però, a dimenticare: le armi chimiche sono una faccenda antichissima, e noi italiani le abbiamo viste da molto vicino. Qui su Motherboard avevamo già parlato del Sarin, dell'Agente Arancio e del Fosforo Bianco. Ne rimane uno fuori dall'elenco: l'iprite.

Il gas mostarda, l'altro nome dell'iprite, è conosciuto dai nostri amici chimici con il nome di tioetere di cloroetano e in breve 0,15 milligrami diffusi in un litro d'aria uccidono in 10 minuti e regalano in omaggio delle orribili piaghe su tutto il corpo. Sembra quasi strano pensare ad un'Italia all'avanguardia: noi l'iprite l'abbiamo vissuta in prima persona sia da un lato che dall'altro, ma non si tratta di avanguardia.

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La guerra chimica comincia nella Prima Guerra Mondiale: il 22 aprile 1915 l'esercito tedesco sgancia a Ypres, in Belgio, il tioetere di cloroetano, che dalla città prenderà il nome di iprite. Gli effetti erano estremamente visivi: l'effetto urticante, le piaghe che si aprivano su tutto il corpo e la vista accecata dal bruciore.

La guerra chimica del 15-18 produsse circa 90.000 morti in totale, una sciocchezza se posti in rapporto al totale, ma spaventò a tal punto da portare alla firma, nel 1925, del Protocollo di Ginevra, che avrebbe dovuto vietare l'utilizzo di gas asfissianti e armi tossiche. I firmatari eliminano l'iprite dagli arsenali ma, paradossalmente, continuano a produrne.

In Italia, durante il 1935/36, la produzione giornaliera di iprite passa dalle 3 alle 18 tonnellate, e ne scaricheremo 300 solo sul fronte etiope. A seguito della firma dei trattati successivi alla Grande Guerra, il Servizio Chimico Militare italiano era stato ridotto ad una manciata di corpi d'armata e battaglioni, ma fu proprio nel 1935, con l'inizio della campagna d'Etiopia, che tornò a crescere a dismisura, fino ad arrivare a contare 43 ufficiali, 71 sotto ufficiali, 1.487 soldati e 270 tonnellate di agenti chimici.

"L'aeronautica fu la forza armata che utilizzò la quasi totalità degli aggressivi chimici. Era dotata di due tipi di bombe: C500T da 280 kg caricate a iprite (212 kg), che esplodevano a circa 250 metri dal suolo vaporizzando il liquido e contaminando un'area di 500-800 metri per 100-200, e le C100P caricate ad arsine (100 kg). In Eritrea e Somalia furono inviate 540 C100P, 3.300 C500T e diverse migliaia di bombe da 21, 31 e 40 kg caricate a iprite e fosgene, in parte già presenti in colonia. Sul fronte nord Badoglio fece sganciare un migliaio di C500T, in Somalia l'aeronautica sganciò un totale di 30.500 kgdi bombe all'iprite e 13.300 kg di bombe al fosgene," si legge sul blog di contromaelstrom.

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«Fu uno spettacolo terrificante. Io stesso sfuggii per un caso alla morte. Era la mattina del 23 dicembre, ed avevo da poco attraversato il Tacazzè, quando comparvero nel cielo alcuni aeroplani. Il fatto, tuttavia, non ci allarmò troppo, perché ormai ci eravamo abituati ai bombardamenti. Quel mattino però non lanciarono bombe, ma strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l'acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido ed urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in una agonia che durò ore. Fra i colpiti c'erano anche contadini, che avevano portato le loro mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini». [Testimonianza del ras Immirù, in Angelo Del Boca, La guerra d'Abissinia 1935-1941, Feltrinelli, 1965, pag 74]

Dopo il capitolo imperialista, però, l'Italia è rapidamente passata dall'altra parte della trincea. Il 2 dicembre 1943, a Bari, si è consumata quella che per alcuni è stata la "Pearl Harbor del Mediteranneo," il Disastro di Bari.

105 bombardieri della Luftwaffe bersagliano il porto di Bari e affondano 17 navi mercantili alleati e ne danneggiano gravemente altre 8. Quel giorno il porto ospitava anche la John Harvey, "che trasportava un carico "top secret" di bombe all'iprite. La nave dal "carico speciale" seguiva le armate alleate nel timore che i tedeschi, durante la ritirata, potessero utilizzare per primi le armi chimiche," si legge in un articolo dello storico Ciro Luongo.

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"La John Harvey, partita dal Maryland con il carico "top secret", ufficialmente trasportava munizioni. Dopo aver attraversato l'Atlantico, si era unita al grosso della flotta nel mar Mediterraneo ed era giunta a Bari in attesa di scaricare l'arsenale di bombe in supporto all'aeroporto di Foggia, ove si stava sistemando il 15° Air force. La Harvey aveva a bordo circa 100 tonnellate di bombe all'iprite. Nella forma in cui fu prodotta durante la seconda guerra mondiale, la cosiddetta iprite Levistein H conteneva circa il 30% di impurità instabili. La sostanza gassificava facilmente con notevole aumento di pressione, ragione per la quale era necessario un controllo costante da parte di specialisti che seguivano il carico. Una bomba all'iprite era lunga 120 cm, diametro 20 cm e conteneva circa 30 Kg di iprite. In caso di attacco l'iprite avrebbe potuto contaminare un'area di 40 m di diametro." Ciro Luongo

A seguito dell'attacco l'intero golfo fu inquinato da nafta e dalla forma liquida dell'ipriti, i marinai presenti non dovettero aspettare molto prima che gli effetti dell'agente si manifestassero

Particolare è l'esperienza della Bistera, una nave attraccata al porto che scampò all'attacco e che il giorno dopo salpo verso Taranto: durante il viaggio l'iprite manifestò i suoi effetti e rese sostanzialmente cieco l'intero equipaggio. La stessa popolazione di Bari fu colpita passivamente, a seguito del bombardamento c'era chi correva verso il porto per aiutare, ed in quel caso veniva contaminato dall'iprite.

"Generalmente il superstite era ricoverato con ustioni seguite alla vescicazione della superficie corporea. Veniva sottoposto alle terapie del caso a cui seguiva un sostanziale miglioramento delle condizioni generali. Poi improvvisamente cominciava ad accusare disturbi nella respirazione, perdeva la voce, espettorava muco giallastro e fedito misto a sangue scolorito e il polso si indeboliva. Infine nonostante tutte le misure di emergenza che il caso richiedeva, il paziente cessava di vivere," si legge nell'articolo di Luongo.

Il carico della Harvey era però top secret: l'unico interesse Alleato era quello di avere una sorta di contromisura nel caso in cui le forze tedesche avessero deciso di ricorrere alle armi chimiche per prime. Così i kit medici predisposti non furono resi disponibili, e il giorno stesso del bombardamento l'allarme non fu diramato per contaminazione, ma per mere ustioni: così le cure negli ospedali non si rivelarono adeguate. Allo stesso modo si tentò di insabbiare la vicenda: l'iprite a Bari non c'era mai stata, e chi fu esposto ad essa venne curato con pratiche pressoché inutili: il carico "top secret" li condannò non solo a subire le conseguenze dell'agente chimico, ma anche a morte certa, vista la mancanza di soccorsi adeguati. E oggi quell'iprite è ancora lì.

Questa quindi è l'iprite: una delle prime manifestazione del fantasma delle armi chimiche. Una forma ingenua di arsenale, che è stata capace di evolversi in modelli molto più meschini, di cui abbiamo già parlato, ma che ha sofferto di un unico, grande difetto: meschina non fu l'iprite, ma chi l'ha utilizzata.