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VICE: Partiamo dalle affermazioni tutto sommato positive del premier Matteo Renzi sui dati dell'Istat: si può parlare di una "svolta"?
Chiara Saraceno: No, la "svolta" ci sarebbe con la diminuzione della povertà. Questa è solo una battuta d'arresto di un trend negativo. Sono piuttosto perplessa: sia Renzi che Serracchiani hanno parlato di "segnali positivi"; si accontentano di poco, mi verrebbe da dire. Anche perché veniamo da tre anni di aumento costante, e negli ultimi due anni questi aumenti erano stati sensibili.Rallegrarsi perché non è aumentata, o perlomeno assumere come positivo il mancato aumento mi sembra una lettura eccessivamente ottimistica. Perché in realtà abbiamo tassi di povertà assoluta—senza contare quella relativa, che è un po' problematica perché troppo legata alla congiuntura—che continuano a rimanere fermi lì dove sono, sia in termini di percentuali, che di intensità e di distribuzione sul territorio e tra i gruppi sociali. Insomma, non vedo nessuna inversione di tendenza, ma solo uno stop della crescita che spero non sia temporaneo.Uno stop dovuto, presumo, a fattori che non hanno molto a che fare con le politiche del governo Renzi.
Certamente. Il Jobs Act è del 2015, nel 2014 non c'era niente di tutto ciò. Probabilmente questa fermata è dovuta a quella piccolissima ripresa che c'è stata l'anno scorso, al rallentamento della disoccupazione e molto anche all'ulteriore solidarietà familiare. Mi ha molto colpito il forte decremento dell'incidenza della povertà assoluta nelle famiglie con il "capofamiglia" in cerca di lavoro.
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A lungo abbiamo avuto una cultura politica che ha considerato la povertà un fenomeno marginale e anche rischioso da discutere politicamente. Per un po' non è stato affrontato perché si pensava che bastasse solo il progresso, e che la povertà fosse solo un fatto di arretratezza.Dopodiché, non aiuta a metterla a tema una delle caratteristiche fondamentali della povertà italiana, che è la sua forte concentrazione territoriale nel Mezzogiorno. Visto che da ormai 25 anni c'è un partito come la Lega Nord, è molto controverso dire che bisogna fare politiche di contrasto alla povertà, dato che ciò viene immediatamente inteso come un'ulteriore distribuzione di denaro dal Nord al Sud.
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Un po' è cambiata, ma anche in un modo abbastanza "qualunquista." Nel senso che sembra che siamo diventati tutti poveri. Io ad esempio non amo l'espressione "nuove povertà," perché fondamentalmente non si capisce bene di cosa si stia parlando. In realtà la povertà è molto antica e non è affatto nuova, e in Italia ha anche diverse caratteristische di permanenza. Tutt'al più si può parlare di "nuovi rischi di povertà." Si confonde anche molto l'impoverimento relativo—che non è la povertà relativa—con il fatto di essere diventati poveri. Per cui da un lato siamo tutti poveri, ma se siamo tutti poveri poi nessuno lo è davvero.
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Per l'appunto, nel timido dibattito che c'è in Italia sul tema, mi pare che la definizione di "povertà" sia abbastanza sfuggente —o meglio, ci si limita a registrare i casi più visibili ed eclatanti. Chi è davvero un "povero" nel 2015?
Il dibattito è molto, molto timido. Altri paesi, comunque, dal punto di vista delle politiche hanno trovato eccome una definizione. Stiamo parlando di povertà economica, e quando parliamo di eventuali misure di contrasto, ogni società valuta la soglia sotto la quale non accetta che nessuno dei suoi residenti scenda.Meritoriamente, ma è stato merito di una commissione parlamentare del passato, l'Istat ha introdotto il criterio della povertà assoluta, che è meno discrezionale o arbitrario. La povertà è un concetto comunque complesso; ma quando parliamo di povertà economica, possiamo individuare degli indicatori abbastanza precisi.Uno dei temi principali del suo libro è quello dei working poor—ossia i "poveri da lavoro." Per quanto la disoccupazione sia sicuramente una delle cause primarie della povertà, l'essere occupati non protegge più totalmente dalla povertà. E infatti, i working poor sono cresciuti del 50 per cento dal 2008 al 2013.
Ovviamente dipende sempre dal lavoro che si fa. È un fenomeno che non c'è solo in Italia, anche se nel nostro paese è più diffuso principalmente per tre motivi. Il primo è che ci sono molti lavori pagati molto poco. Il secondo è che l'Italia è un paese in cui le famiglie monoreddito sono più numerose della maggioranza dei paesi sviluppati, perché il tasso di occupazione femminile è più basso. Il terzo motivo è che non abbiamo un sistema universalistico di trasferimenti monetari alle famiglie, e quello che c'è non è nemmeno tanto generoso. Non a caso, sono le famiglie operaie che corrono più il rischio di essere working poor.
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Intanto, come si vede dai dati Istat, le fasce d'età più a rischio povertà sono i minori seguiti dai giovani. I minori chiaramente non stanno vivendo da soli, così come la maggior parte dei giovani fino a 34 anni in Italia non vive da solo.I minori lo sono perché sono poveri su basi familiare. Per i giovani, soprattutto dai 28 anni in su, la questione è che, visto che ci sono difficoltà a inserirsi nel mercato del lavoro e che la flessibilità è stata concentrata su di loro, l'uscita dalla famiglia d'origine è molto rischiosa. Spesso lo si può fare, paradossalmente, soltanto se la famiglia ti aiuta a pagare la casa, a comprarla, a riprenderti in casa se non puoi pagare l'affitto, a curarti i bambini se ti viene la follia di farne uno, e così via. E le famiglie, almeno quelle che possono, addirittura pagano qualche assicurazione privata o una pensione integrativa privata per i propri figli.
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Certamente. Qui non si tratta solo del reddito minimo per i poveri, ma anche—ad esempio—dell'edilizia popolare: in altri paesi ci sono misure che facilitano l'accesso all'abitazione dei più giovani, che è una cosa fondamentale per cominciare a pensare di vivere autonomamente.Visto che ha menzionato il reddito minimo, ultimamente si è tornati a parlare parecchio di questo tema. Ecco: può veramente rappresentare un argine alla povertà?
Intanto va dato merito al Movimento 5 Stelle, che ha comunque proposte confuse e ha anche sbagliato a chiamarlo reddito di cittadinanza, di aver reinserito il tema nel dibattitto politico. Se non avessero fatto del reddito di cittadinanza il loro fiore all'occhiello, il PD nemmeno avrebbe pensato di fare qualcosa. Poi, secondo me non se ne farà nulla lo stesso; potrei anche sbagliarmi, ma visto che è da 30 anni che mi occupo di queste cose ho po' di disillusione.
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No, è proprio sbagliato, e lo dimostrano i dati Istat, dai quali si evince l'alta percentuale di famiglie povere a cui capo c'è un operaio. In più, noi dobbiamo pensare che se anche se ci fosse una domanda sovrabbondante di lavoro, non tutti quelli che hanno bisogno di un reddito sarebbero immediatamente in grado di poterla soddisfare—o perché gli manca la formazione, o perché hanno troppi carichi familiari, o per altri motivi. Dobbiamo entrare nell'ottica che ci sono delle persone che, temporaneamente o per lunghi periodi, avranno bisogno di un sostegno al reddito anche se lavorano.Per il resto, noi abbiamo un modello molto lavoristico—un modello che, per dire, nemmeno la Svezia ha a questi livelli, dove il lavoro comunque c'è e le persone sono aiutate. Da noi, ma questo è anche un discorso più generale dell'Unione Europea, è un mantra che si ripete: è quasi tutto concentrato sull'offerta di lavoro, sul workfare, sull'assistenza al lavoro, come se questa transizione fosse ugualmente facile per tutti.Il punto è che non lo è. Così come può succedere che nell'arco della vita ci ammaliamo più o meno gravamente, può anche succedere che uno diventi povero. E se questa persona non è sostenuta adeguatamente, c'è il rischio che nella povertà ci rimanga a lungo—o addirittura per sempre.Segui Leonardo su Twitter