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Cosa ho imparato sulla scuola italiana da tutte le mie bocciature

Al liceo sono stato bocciato due volte ed ero il classico che "ha talento ma non si applica." Ora che di greco e latino non ricordo più niente, questo è quello che ho imparato.

In questi giorni, migliaia di liceali italiani stanno vivendo una situazione che conosco bene—quella in cui ti trovi per una decina di giorni alla fine dell'anno scolastico, e non sai ancora cosa sarà di te. Da una parte c'è il sollievo per l'imminente arrivo dell'estate, dall'altra l'ansia di sapere se quell'estate potrai passarla al mare o dovrai stare a studiare per i corsi di recupero e gli esami a settembre. Conosco bene questa situazione, perché ci sono passato puntualmente ogni anno durante tutta la mia esperienza liceale: quel pendolo in perenne oscillazione tra l'ansia di fallire e la voglia di non fare un cazzo che inevitabilmente finiva per fermarsi su quest'ultima.

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Nel più classico cliché del "ha talento ma non si applica," al liceo avevo molti interessi, ma erano tutti poco rilevanti rispetto a quelle che erano le richieste del sistema scolastico. E soprattutto ero totalmente incapace di concentrarmi per più di dieci secondi di fila su ciò che non rientrava in questi interessi, per cui le lezioni di latino e greco mi annoiavano, la matematica non la capivo e non avevo voglia di capirla e anche se leggevo tantissimo non riuscivo proprio a digerire Brunetto Latini e i sonetti della scuola siciliana. Quindi passavo più tempo a farmi le canne dentro e fuori da scuola di quanto non ne passassi sul banco o sui libri quando tornavo a casa. Naturalmente, proprio grazie a queste mie esclusive capacità sono stato bocciato—due volte.

La prima volta l'ho presa male. Non so se sia ancora così, visto che nel frattempo sono passati dieci anni, ma quando è capitato a me mi sono accorto di come la bocciatura fosse una specie di tabù. Di quel momento la cosa che mi è rimasta più impressa non è stata tanto la delusione per non avercela fatta, quanto l'atteggiamento dei miei compagni di scuola che venivano a saperlo e mi compativano per non essere stato all'altezza. Tutti i loro messaggi di condoglianze e gli attestati di stima "nonostante questo" erano mossi da buone intenzioni, ma parlano da soli riguardo a quanto i miei compagni di scuola avessero introiettato un sistema di valori da società della vergogna in cui il fallimento era la cosa peggiore possibile.

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La seconda volta questo comportamento è stato meno evidente, forse perché ormai ero già "segnato" come ripetente, con tutte le battute del caso—solo in parte amichevoli—sulla mia età, o forse perché nel frattempo avevo capito che essere bocciati non era la tragedia che pensavo e mi comportavo di conseguenza. Così, quando l'ultimo giorno di scuola l'interrogazione programmata di storia dell'arte con cui pensavo di salvarmi è saltata perché la preside ha indetto un'assemblea di istituto e ci ha fatto uscire tutti prima per "goderci la bella giornata," non me la sono presa più di tanto. Certo, sul momento ho bestemmiato in tutte le lingue morte che non avevo mai studiato, ma non ero veramente arrabbiato e frustrato. Era solo una posa. E infatti poco dopo mi sono messo a ridere dell'assurdità di tutta quella situazione e sono andato con gli altri a tirarci addosso uova e schiuma da barba come si faceva sempre alla fine di ogni anno scolastico.

Se non sono mai stato un secchione, però, non sono mai stato nemmeno uno di quegli studenti che glorificano l'ignoranza. Semplicemente, sono sempre stato più interessato alla mia capacità di comprendere il mondo che all'assimilare le nozioni che mi venivano richieste per prendere un bel voto. È per questo che i miei risultati scolastici sono sempre stati altalenanti: prendevo spesso 2 e 3, ma mi capitava con buona frequenza anche di prendere 8 e 9. Se oggi so un sacco di cose inutili come i nomi dei generali bizantini presenti nella battaglia di Manzicerta (Teodoro Aliate, Romano Diogene, Niceforo Briennio, Andronico Ducas—non li ho cercati su Google) è perché le ho lette durante qualche lezione noiosa. Delle cose che avrei dovuto studiare, invece, non me ne ricordo mezza.

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Secondo il linguista ed ex Ministro dell'istruzione Tullio De Mauro, per determinare quante cose si dimenticano una volta che si finiscono gli studi bisogna usare una "regola dei cinque anni". Il livello culturale di una persona sarebbe pari all'ultimo livello di istruzione che ha raggiunto, meno cinque; De Mauro non specifica in che modo si debbano tenere in conto le bocciature in questo calcolo, ma stando a questa teoria io dovrei essere fermo al secondo anno di superiori. E il fatto è che, considerando solo le conoscenze prettamente scolastiche, probabilmente è vero.

Già quando ero al liceo ero consapevole di avere una cultura personale molto più vasta di quella dei miei compagni con la media del nove. Erano loro stessi a riconoscermelo. Tuttavia, nonostante questo, andavo male a scuola. E loro hanno sempre potuto guardarmi dall'alto in basso, perché andare male era da sfigati.

In quell'ambiente i voti che prendevi non facevano media e finiva lì, ma ti definivano come persona: riuscire o meno a scuola era una specie di anticipazione o di profezia su quanta strada avresti fatto nella vita. Il liceo era visto come un luogo dove formare gruppi e stringere relazioni destinate a durare e ad aiutarti ad avere successo una volta uscito di lì. Questo ovviamente vale per la mia esperienza, ma credo che il classismo strisciante non sia una prerogativa dell'ambiente che ho frequentato.

Per questo motivo quando sono stato bocciato sono stato trattato con condiscendenza, come uno che non aveva saputo saltare un'asticella che tutti gli altri erano invece riusciti a superare senza problemi. La verità è che di superare quell'asticella a me non fregava proprio niente, e anzi trovavo folle il fatto che tutti le dessero così tanta importanza. Proprio perché il liceo è visto come l'anticamera della vita adulta, si pretende che tu lo prenda estremamente sul serio e non per quello che è, ossia un'esperienza formativa tra tante altre.

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Con questo non voglio dire di aver fatto bene. La mia abitudine a non studiare e ad approfondire solo quello che mi interessava mi ha fatto imparare un sacco di cose ma mi ha anche fatto perdere tempo che avrei potuto spendere meglio. Non voglio nemmeno dire di essere in qualche modo speciale e sprecato per questo sistema scolastico. Le persone sono tutte diverse e l'unico modo per valutarle è per forza tramite qualche tipo di compromesso e approssimazione. È normale che per qualcuno questo non sia il massimo.

Dopo sette anni di stillicidio liceale e dopo aver cambiato scuola, sono finalmente arrivato a fare la maturità. L'ho fatta da privatista e per ironia della sorte mi sono ritrovato di fronte come membri della commissione esterna proprio alcuni miei ex professori. Comunque sia, sono stato promosso: non perché fossi maturato o avessi avuto qualche improvvisa illuminazione sull'importanza dello studio e della formazione scolastica, ma semplicemente perché non ne potevo più di rimanere intrappolato in quel limbo di liceo mentre i miei coetanei andavano avanti.

E ora che è passato qualche anno posso dirlo: tutti i professori che hanno cercato di "capirmi" prendendomi da parte, dandomi consigli e convocando mia madre per dirle che sospettavano mi facessi le canne perché dormivo in classe si sono sempre sbagliati. Avevano ragione gli altri prof, quelli che se ne fregavano e anzi cercavano di darmi voti bassi per liberarsi di me: non ero uno studente "problematico." Non che non avessi problemi da risolvere—tutti ce li hanno nell'adolescenza,—ma la ragione principale dei miei fallimenti stava proprio nel mio modo di essere.

E infatti, quando mi sono iscritto all'università, ho replicato gli stessi comportamenti che avevo tenuto al liceo. È sempre così: quando inizio una cosa sono esaltato e mi impegno, vado avanti per qualche tempo finché non perdo gli stimoli o incontro qualche difficoltà e a quel punto lascio perdere e me ne sbatto. Il primo semestre non ho saltato una lezione e ho preso anche qualche 30, poi man mano ho iniziato a realizzare di non essere minimamente interessato alle cose che studiavo—o forse il mio interesse era già svanito—e i miei voti si sono abbassati di conseguenza. La burocrazia e le volte in cui mi sono presentato a un appello per sentirmi dire che mi mancava un libro obbligatorio o che il programma che avevo studiato non era più valido hanno fatto il resto, e ho finito per impantanarmi.

Al momento sono ancora iscritto e cerco di barcamenarmi tra il lavoro, l'università e le aspettative dei miei. Anche se il numero di esami che mi manca si conta sulle dita di una mano, ormai non ci credo quasi più che un giorno riuscirò a darli, a scrivere la tesi e a laurearmi. Ma almeno so un sacco di curiosità moderatamente interessanti come, ad esempio, che Nietzsche e Umberto I avevano gli stessi baffi o che il vero Paperon de' Paperoni era un vescovo di Spoleto del 1200. È già qualcosa, credo.

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