Le situazioni
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A12N2: In due senza casco

Le situazioni

Tre racconti inediti di una delle migliori scrittrici americane contemporanee.

I
GATTINI

Papà ci stava portando a casa. Noi tre sul sedile posteriore e Lula, che era la sua preferita, al posto del passeggero.

Lula strillò, Oh papà!—guarda.

Sul ciglio della strada, tra le graminacee spezzate, c'era qualcosa di piccolo e bianco peloso, che sembrava vivo.

Oh Papà, ti prego.

Papà rise. Papà frenò e arrestò la macchina. Lula saltò giù dalla macchina. Corremmo dietro a lei, e trovammo nelle graminacee tre minuscoli gattini—bianchi, con segni neri e rossicci.

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Li prendemmo! Erano così piccoli, stavano nel palmo delle nostre mani, pesavano solo pochi etti! Ognuno miagolava, gli occhi aperti pochissimo. Oh, oh!—non avevamo visto niente di così meraviglioso nelle nostre vite! Tornammo di corsa alla macchina dove Papà aspettava, per implorare Papà di farceli portare a casa.

All'inizio, Papà disse no. Papà disse che i gattini avrebbero fatto guai in macchina.

Lula disse, Oh Papà, ti prego.

Tutti promettemmo di pulire qualunque guaio avessero fatto i gattini.

Quindi Papà cedette. Papà amava Lula più di tutti, ma anche noi eravamo contenti di essere i bambini di Papà.

Sul sedile posteriore, avevamo due dei gattini. Davanti, Lula teneva il gattino più bianco. Eravamo così entusiasti! Così felici di avere i gattini! Lula disse che avrebbe chiamato il gattino più bianco Fiocco di Neve, e noi dicemmo che avremmo chiamato i nostri minuscoli gattini Zucca e Cenere perché Zucca aveva macchioline arancione nel pelo bianco, e Cenere aveva macchioline nerenel pelo bianco.

Per qualche minuto, Papà guidò in silenzio.

Chiacchieravamo solo noi! Se stavi attento sentivi anche qualche minuscolo miagolio.

Poi, Papà disse, Sento odore di un guaio?

Noi strillammo, No, no!

Mi sa che sento l'odore di un guaio.

No, Papà!

Tre guai. Sento l'odore.

No, Papà!

(Ed era vero: nessuno dei gattini aveva fatto guai.)

Ma Papà fermò la macchina. Al ponte sul fiume dove c'è una rampa ripida, fuori città e a circa cinque chilometri dalla nostra casa, Papà parcheggiò la macchina e disse a Lula, Dammi Fiocco di Neve, e Papà ci guardò di sbieco nello specchietto retrovisore e disse, Datemi Zucca, e datemi Cenere.

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Scoppiammo a piangere. Lula piangeva più forte di tutti. Ma Papà le strappò il gattino e si allungò verso il sedile posteriore con la faccia rossa e corrucciata per strapparci Zucca e Cenere. Noi non eravamo abbastanza forti, e non eravamo abbastanza coraggiosi per impedire che Papà ci prendesse i gattini, nelle grandi mani di Papà. I gattini miagolavano forte a quel punto, e tremavano di paura.

Papà uscì dalla macchina e con grossi passi di Papà si inerpicò sulla rampa fino al ponte e buttò i gattini di là dal parapetto. Tre cosine che prima sorsero contro il cielo nuvoloso, poi velocemente caddero, ed erano andati.

Quando Papà tornò alla macchina, Lula strillò, Papà, perché?

Papà disse, Perché sono Papà, che decide come finiscono le cose.

II
BACIO SELVATICO

In segreto, a piedi, andava sulla Terraferma. Viveva su un'isola di circa 20 chilometri quadrati, a forma di stivale come l'Italia. Tra l'Isola e la Terraferma c'era un ponte galleggiante lungo tre chilometri. I suoi genitori gli avevano proibito di andare sulla Terraferma; la Terraferma era la "vita facile e impigrita"; l'Isola era la vita di disciplina, severità, volontà di Dio. I suoi genitori avevano rotto i ponti con i parenti che vivevano sulla Terraferma, che da parte loro compativano gli isolani in quanto non istruiti, superstiziosi e poveri.

Sull'isola c'erano colonie di gatti selvatici, molti endogamici, feroci se li mettevi all'angolo o li intrappolavi, ma oltremodo belli—una delle colonie era composta soprattutto di gatti tigrati arancione fiammante con sei dita, un'altra era soprattutto di gatti neri come la notte con gli occhi fulvi, un'altra soprattutto di gatti bianchi a pelo lungo con luminosi occhi verdi e un'altra, la colonia più grande, soprattutto di gatti tartatugati con intricate macchie grigie, argento e nere e gli occhi dorati e sembravano prosperare in un'area inospitale e rocciosa vicino al ponte galleggiante. I bambini dell'Isola avevano il divieto di avvicinarsi ai gatti selvatici, o di dargli da mangiare; era pericoloso per tutti avvicinarsi ai gatti nella speranza di accarezzarli, ancora meno di catturarne uno e portarlo a casa; anche i gattini graffiavano e mordevano furiosamente, lo sapevano tutti. Però, sulla strada per la Terraferma, mentre si avvicinava al ponte galleggiante, non riusciva a resistere e lanciava pezzetti di cibo ai gatti tartarugati che lo scrutavano da poco lontano con occhi piatti e ostili—Micio? Micio? Creature così belle! Un giorno, ostinato, era riuscito ad afferrare un giovane gatto tartarugato, poco più di un micetto, molto magro, con le costole segnate e orecchie ritte e all'erta, e per un attimo, aveva tenuto la sua tremante vita tre le dita come il proprio cuore estratto dal petto—poi il gatto si era dimenato forsennatamente, aveva soffiato, graffiato e affondato i piccoli denti aguzzi nella carne alla base del pollice, e lui l'aveva lasciato andare esclamando piano Cavoli! e aveva pulito il sangue nella gamba dei pantaloni e aveva continuato il viaggio di là dal ponte galleggiante.

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Sulla Terraferma, la vide: una ragazzina che pensava avere la sua età, un po' più piccola, che camminava con altri bambini. Il vento lungo la riva era pieno di goccioline, freddo e umido, incessante. Piccole gocce di vapore gli si erano formate sulle ciglia come lacrime. I capelli lunghi di lei frustavano il vento. La sua faccia perfetta era rivolta dall'altra parte, per timidezza o modestia. Lui era diventato audace, ostinato; l'esperienza con il gatto tartarugato non l'aveva scoraggiato ma piuttosto incoraggiato. Era un ragazzino che faceva finta di essere un uomo, qui sulla Terraferma, dove si sentiva più vecchio, più sicuro. E qui, nessuno sapeva il suo nome, o il nome della sua famiglia. Camminò con la bambina, portandola lontano dagli altri bambini. Chiese di sapere il suo nome—Mariana. Tenne la sua piccola mano, che all'inizio gli oppose resistenza mentre lui la stringeva. La baciò sulle labbra, leggero ma molto eccitato. Quando lei non si ritrasse, la baciò di nuovo, con più forza. Lei si voltò come per scappare da lui. Ma lui le afferrò la mano e il braccio; la strinse forte, e la baciò così forte che sentì l'impronta dei denti di lei contro i suoi. Sembrava che lei lo stesse baciando a sua volta, anche se con meno forza. Lo spinse via. Gli prese la mano e, ridendo, lo morse sul dentro del pollice, la carne morbida alla base del pollice. Con grande sorpresa, lui fissava il sangue che sgorgò veloce. La ferita era così piccola eppure—così tanto sangue! Le gambe dei pantaloni erano macchiate. Gli stivali schizzati. Si ritrasse, e la ragazzina corse a raggiungere gli altri bambini—che correvano tutti insieme, lo vide ora, lungo l'ampia, ruvida spiaggia piena di detriti del temporale, le risate acute e a modo di scherno e nessuno di loro si guardò indietro.

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Improvvisamente preso da una paura che il ponte fosse andato alla deriva, tornò al ponte galleggiante. Ma lì rimase, schiaffeggiato dai venti della costa, e sembrando più piccolo, e più temprato. Era autunno tardo. Non ricordava la stagione in cui aveva cominciato—era stato d'estate? Primavera? Il mare si alzava in onde arrabbiate e violente. L'Isola era quasi invisibile dietro una cortina di nebbia. Nelle onde, vide i volti della sua vecchia stirpe dell'Isola. Uomini dalla barba grigia, donne austere. Era senza fiato mentre tornava all'Isola oltre il ponte galleggiante che dondolava. A riva, non si curò della colonia di gatti tartarugati che sembravano attenderlo con piccoli miagolii sarcastici e facce impertinenti di gatto, tra le rocce. La ferita alla base del pollice faceva male; si vergognava della sua ferita, i segni percepibili di piccoli denti aguzzi nella sua carne. In un paio di giorni, la ferita divenne livido, e con un coltello da pesca cauterizzato in una fiamma riaprì la ferita per lasciare che il sangue scorresse ancora caldo. Avvolse la base del pollice in una benda. Spiegò che si era fatto male perché non aveva fatto attenzione, con un chiodo arrugginito o un amo. Tornò alla sua vita che in fretta lo sommerse come onde che si alzano sulla spiaggia, che scorrono tra le rocce. Un giorno avrebbe rimosso la benda e visto la piccola cicatrice rinserrata nella carne, quasi guarita. In segreto, baciava la cicatrice in un impeto di emozione, ma col tempo, non avrebbe più ricordato perché.

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III
SPERANZA

Papà ci stava portando a casa. Solo due di noi sul sedile posteriore ed Esther, che era la preferita di Papà, al posto del passeggero.

Esther strillò, Oh Papà!—attento!

Una creatura dal pelo scuro stava attraversando la strada davanti alla macchina di Papà, le gambe che si muovevano veloci. Poteva essere un grosso gatto, o una volpe giovane.

Papà non rallentò per un po'—non girò il volante né frenò per evitare di colpire la creatura, ma non sembrava che pigiasse sull'acceleratore per investirla volontariamente. La ruota anteriore destra lo colpì con un tonfo lieve. Ci fu un piccolo lamento acuto, poi il silenzio.

Oh Papà, ti prego. Ti prego basta.

La voce di Esther era sottile e lacrimosa, e anche se era una voce che implorava, era una voce senza speranza. Papà rise. Papà non fermò la macchina. Dietro, noi ci inginocchiammo sul sedile per sbirciare fuori dal lunotto—e vedemmo, nelle graminacee a lato della strada, la creatura pelosa scossa dall'agonia.

Papà—fermati! Papà, per favore fermati, l'animale è ferito.

Ma le nostre voci erano sottili e lacrimose e senza speranza, e Papà non prestò attenzione a noi ma continuò a guidare e a canticchiare tra sé, e sul sedile davanti Esther piangeva nel suo modo sommesso e debole, e sul sedile posteriore noi eravamo zitti.

Uno di noi bisbigliò all'altro, Era un gattino!

L'altro bisbigliò, Era una volpe!

Al ponte sul fiume dove c'è una rampa ripida, Papà frenò e fermò la macchina. Papà era corrucciato e nervoso, e Papà disse a Esther, Scendi dalla macchina. E Papà si rivolse ingrugnito a noi sul sedile posteriore, e gli occhi di Papà erano scintillanti di rabbia mentre ci diceva di scendere dalla macchina.

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Avevamo molta paura. Ma non c'era un posto in cui nascondersi nel retro della macchina di Papà.

Fuori, Esther tremava. Un vento gelido soffiava dal fiume avvolto di nebbia. Ci stringemmo a Esther mentre Papà si avvicinava.

Sulla faccia di Papà c'erano rimpianto e rimorso. Ma era rimorso per qualcosa che non era ancora successo, e che non poteva essere evitato. Tranquillo, Papà colpì Esther nella schiena con il rovescio del pugno, un colpo che la mandò a terra come uno sparo, senza fiato al punto che non poteva urlare o piangere, all'inizio, ma giacque al suolo tremante. Noi volevamo scappare ma non osavamo perché le gambe lunghe di Papà ci avrebbero raggiunto, lo sapevamo.

Papà ci colpì, uno e poi l'altra. Uno nella schiena, come aveva colpito Esther, e l'altro di striscio con un colpo quasi incurante sul lato della testa come se in questo caso (il mio caso) la bambina fosse del tutto senza speranza, se fosse senza alcuna disciplina. Oh, oh, oh!—avevamo imparato a soffocare il pianto.

In lunghi passi di Papà, Papà tornò alla macchina per fumare una sigaretta. Era già successo ma non così, e quando una cosa succede in un modo simile a un modo precedente, fa più arrabbiare che quando non è mai successo, anche in qualunque altro modo. Sul suolo sconnesso tra le graminacee spezzate e secche giacevamo singhiozzando, cercando di riprendere fiato. Esther, che era la più grande, si riprese per prima, strisciò da Kevin e me e ci aiutò a sederci e alzarci sulle gambe a stecchino tremanti. Eravamo disorientati dal dolore e anche dalla sensazione di malessere che provi quando non ti aspettavi che qualcosa succedesse come è successo, ma quando comincia a succedere, ti ricordi che in effetti ti era già successo, e questo fatto determina, come una serie di catenacci che chiude una porta, la certezza che succederà di nuovo.

In macchina, papà sedeva e fumava. La portiera del guidatore era mezza aperta, ma comunque la macchina si stava riempiendo di fumo bluastro simile a nebbia.

Tra Esther e Papà c'era una situazione che esisteva solo tra Esther e Papà, come una volta era esistita solo tra Lula e Papà: se Esther aveva fatto arrabbiare Papà, ed era stata punita per aver fatto arrabbiare Papà, Esther poteva, forse doveva anche, parlare di questa punizione a patto che non sfi dasse Papà, o facesse arrabbiare di più Papà. Una domanda chiara e semplice da Esther a Papà sembrava spesso, con nostra sorpresa, la benvenuta.

Esther disse, con un nodo in gola, Oh Papà, perché?

Papà disse, Perché sono Papà, e i miei bambini non devono mai perdere la speranza.

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