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Come il M5S ha perfezionato l’arte di dire tutto e il contrario di tutto

Niente alleanza con la Lega! O forse sì. Vogliamo l'impeachment per Mattarella! O forse no.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Partiamo da un fatto piuttosto auto-evidente: la politica italiana non ha mai brillato per coerenza. Abbiamo ancora ben impressi nella memoria gli anni del berlusconismo al potere—e tutti sappiamo che il buon Silvio ha un rapporto particolarmente conflittuale con la verità, tanto da non aver mai esitato a cambiare idea quando più gli conveniva. E senza andare troppo indietro, basta ricordare cosa aveva promesso Matteo Renzi prima della batosta al referendum (“se perdo lascio la politica”) e cos’ha fatto dopo (perso senza lasciare un bel niente).

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In tempi recenti, l’arte di dire tutto e il contrario di tutto è stata portata a livelli davvero estremi da una formazione in particolare: il Movimento 5 Stelle. Anzi, più precisamente: dal M5S dell’era Di Maio.

Gli ultimi giorni sono stati un’autentica apoteosi. Dopo il naufragio del tentativo di formare il governo “giallo-verde,” Sergio Mattarella—che solo un settimana fa era un “garante inappuntabile” (per Roberto Fico)—è diventato un indegno traditore da trascinare alla sbarra il prima possibile “per evitare reazioni della popolazione.”

Questo almeno fino all’altro ieri, quando Di Maio ha rinunciato all’impeachment: “Purtroppo non è più sul tavolo,” ha detto in un comizio a Napoli, “perché Salvini non lo vuole fare e ci vuole la maggioranza.” Il presidente della Repubblica è dunque tornato ad essere un valido interlocutore, con il quale Di Maio si è detto disponibile a “collaborare” per formare un governo politico—anche se, qualche ora prima (o qualche settimana? È difficile starci dietro) si era di nuovo in campagna elettorale.

Un discorso analogo lo si può fare per la pletora di posizioni assunte, smentite, riadottate e rimangiate nei confronti della Lega (il discorso, come abbiamo già detto, vale anche per il partito di Salvini). Prima delle elezioni, Alessandro Di Battista aveva detto che in caso di alleanza con la Lega avrebbe lasciato il M5S; e Di Maio aveva assicurato che con chi cantava “Vesuvio lavali col fuoco” non era possibile alcuna intesa. In seguito—a seconda degli alti e bassi nella trattativa—Salvini si è trasformato in: “una persona che sa mantenere la parola”; “Dudù,” qualcuno con cui “si possono fare grandi cose”; “un cuor di leone”; e uno che ricorre a “pratiche da prima Repubblica.”

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A ben vedere, tuttavia, l’intera storia dei Cinque Stelle è costellata da giravolte, voltafaccia e cambi di rotta. Non ho intenzione di fare tutti gli esempi, ma riporto solo quelli a mio avviso più clamorosi ed emblematici. Nel 2012 Beppe Grillo tuonava dal suo blog contro la tv e i talk show (“Se il MoVimento 5 Stelle avesse scelto la televisione per affermarsi, oggi sarebbe allo zero qualcosa percento”); oggi non passa un’ora senza che un esponente dei Cinque Stelle sia in televisione o in un talk show.

O ancora: l’anno scorso Luigi Di Maio—in perfetta sintonia con Matteo Salvini e tutta la destra italiana—impallinava i “taxi del mare” (le Ong) che traghettavano illegamente migranti “a casa nostra,” ed erano pure in combutta con i trafficanti di esseri umani; nel gennaio del 2018, invece, l’attuale “capo politico” ha dichiarato in un’intervista che “non ho mai detto che le Ong siano taxi del mare.”

Sull’Europa si sono raggiunti picchi notevoli. Beppe Grillo non ha mai lesinato critiche all’Unione Europea, e quando il M5S è approdato all’Europarlamento si è subito collocato nel gruppo degli euroscettici—lo stesso dello Ukip e di Nigel Farage, per intenderci. Non sorprendentemente, per tutto il corso della legislatura i Cinque Stelle hanno sparato a zero contro l’Euro (nel 2014 c’è stata una campagna apposita) e i “Poteri Forti” di Bruxelles. Nel gennaio del 2017, all’improvviso, arriva l’inversione a U: il M5S chiede di entrare nel gruppo liberale e filoeuropeista dell’ALDE, che però respinge la richiesta con sdegno.

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Più in generale, restando fuori dai confini italiani, le contraddizioni dei Cinque Stelle regnano sovrane sulla politica internazionale. Negli anni, infatti, si è mescolato un po’ di tutto: aperture al governo di Maduro in Venezuela, elogi a Vladimir Putin (che nel 2006 era una specie di dittatore assassino), suggestioni vagamente terzomondiste e rassicurazioni filo-atlantiste, e non ultime una sfilza di “né/né”—riassunte nella formula ambigua (nel senso che non vuol dire un cazzo) del “il M5S non è né filo-americano né filo-russo, è filo-italiano.”

Quindi: nonostante una certa incoerenza di fondo su temi cruciali, perché i Cinque Stelle non hanno mai subito contraccolpi nella loro credibilità? Perché hanno mantenuto percentuali così alte di consenso—anzi, rafforzandole pure?

Le risposte sono da un lato intuitive, e dall’altro assolutamente non scontate. Fin dai suoi albori, il M5S ha mantenuto una forte “linearità” su pochi punti di grande impatto: la lotta alla corruzione, la richiesta di onestà, la guerra alla Casta, il “mai alleati con nessuno,” la regola dei due mandati, e così via.

Nel saggio M5S. Come cambia il partito di Grillo, il sociologo Piergiorgio Corbetta ha definito questo atteggiamento la “semplificazione ingenua” della “complessità della politica.” Da ciò—seguendo il ragionamento della politologa Nadia Urbinati—deriva pertanto un’opinione sia “fondativa” che “unificante,” in grado di tenere insieme eletti ed elettori e di spiegare anche la persistente attrattività politica ed elettorale del M5S. Dopotutto, chi non è contro la corruzione e la Casta? E chi, in cuor suo, non è convinto che qualcuno gli stia facendo un torto?

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Se lo si riconduce entro questa logica, si può capire anche come funziona l’euroscetticismo dei Cinque Stelle. Gli autori di M5S sostengono che non nasca da radicate motivazioni ideologiche—come possono essere quelle della Lega e di altri partiti europei—ma tragga piuttosto “alimento dalla drammaticità della crisi e dei timori che questa produce nei cittadini italiani.” Non a caso, quando questa “drammaticità” è venuta meno, i toni si sono fatti più morbidi e la fuoriuscita dall’Euro (almeno a parole) è praticamente sparita dai discorsi. E quando è ritornata, come nell’ultima settimana, le accuse all’UE e ai suoi rappresentanti sono state più violente.

A ogni modo, la “semplificazione” di cui sopra è stata senza dubbio il motore propulsivo della prima fase del M5S, in cui Grillo e gli eletti rifiutavano orgogliosamente di apparire in televisione. All’inizio, infatti, Grillo e i suoi potevano permettersi di fare così; agendo per sottrazione, i media li cercavano comunque—regalandogli ampia copertura su cui loro potevano continuare a sputare sopra.

Le cose cambiano parecchio con l’ingresso in Parlamento: la presenza nelle istituzioni, infatti, ha spinto a una rapida professionalizzazione di staff ed eletti. E l’accettazione dei mass media—su tutti la televisione—ha innegabilmente portato a un ampliamento della base elettorale del M5S.

Nel corso delle varie tornate locali e nazionali, come dimostrato dai flussi, il M5S ha attirato i voti da tutte le classi sociali, gli orientamenti politici, le regioni, i generi. È diventato un partito che rispecchia sempre di più la popolazione italiana, e lo ha fatto grazie alla sua ambiguità ideologica di fondo. Ma quest’ultima, sostiene Corbetta, è un’arma a doppio taglio: da un lato permette appunto di “prendere tutti,” dato che “l’area della scontentezza è infinita”; dall’altro, però, comporta una “fortissima disomogeneità ideologica e culturale” che ha pesanti ricadute.

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In altre parole: i destinatari sono diventati talmente tanti che per tenerli insieme non basta più quell’opinione “fondativa”; servono tanti messaggi diversi, che però inevitabilmente entrano in rotta di collisione tra loro e generano disorientamento. Il rischio, appunto, è quello di perdersi un po’ per strada.

Il che è esattamente quanto sta succedendo a Luigi Di Maio. Per coprire gli errori di questi ultimi tre mesi e il caso di consensi nei sondaggi (un fatto abbastanza inedito per un partito che appena “vinto” le elezioni”), il “capo politico” dei Cinque Stelle si è fatto prendere dall’ossessione di dover comunicare qualsiasi cosa, nonché di esasperare gli animi in più direzioni per tentare di cementare i suoi sostenitori.

Con tutta evidenza, non è solo un problema di comunicazione: si tratta proprio di un problema politico. Come giustamente rileva Luigi Ambrosio su Radio Popolare, nella politica di Di Maio non esiste la strategia, esiste solo la tattica. E la spregiudicatezza con cui ha cambiato opinione negli ultimi giorni serve solo ad una cosa: a “uscire dall’angolo in cui Salvini lo ha cacciato.”

Non so se alla fine ci riuscirà, ma a livello di immagine non ne esce benissimo—tant'è che, in un'accesa discussione interna, avrebbe detto: "Ci hanno fregato tutti? Preferisco passare per brava persona che per furbo." Ad oggi, Di Maio sembra uno che non si ricorda più il pin della carta, e che in preda al panico martella a caso i tasti del bancomat sperando di imbroccare il codice giusto. Solo che di solito non funziona.

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