veneti magna gatti origine
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Cibo

Ho cercato di capire se i vicentini sono stati veramente dei mangia gatti

Sono andata in biblioteche locali, ho letto libri e ascoltato racconti di anziani vicentini. E pare che qualcuno, quei poveri gatti, li abbia mangiati davvero.

La Belora, una contadina che abitava nella provincia di Vicenza, era famosa per i suoi modi di fare rozzi, le bestemmie frequentissime e perché cucinava anche i gatti.

“Buoni i gatti? Ah ma quindi mangi gatti? Ti piace il gatto?". Queste domande, e altre simili, mi vengono rivolte ogni volta che dico di essere originaria di Vicenza. Mi sono sempre limitata a rispondere sorridendo, tra l'imbarazzato e l'annoiato. Questo tormento è la conseguenza del famoso detto ”Vicentini magna gatti”, ma qual è davvero la sua origine? Me lo sono chiesta diverse volte, ho interrogato amici, parenti e le stesse persone che facevano la battuta due minuti dopo avermi conosciuta, credendo di essere simpatici, ma nessuno sapeva darmi una risposta che mi convincesse.

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È vero che noi vicentini mangiavamo i gatti? E solo noi nel mondo abbiamo questa nomea? Ovviamente no. Basta scomodare Charles Dickens che, ne Il Circolo di Pickwick, scrive di un pasticcio di gatto, mentre nella provincia cinese del Guangdong mangiare piatti a base di felini è una pratica comune.

Ma per trovare le origini del detto che si riferiva alla mia città, ho dovuto indagare tra biblioteche locali, volumi e racconti di anziani.

DISCLAIMER: questo post non vuole convincere nessuno a mangiare gatti o animali domestici. Ho solo voluto capire le origini di questa pratica alimentare veneta (vera o presunta).

biblioteca di Schio

Biblioteca del mio paese d'origine, Schio (VI).

Per affrontare l'argomento la prima cosa da fare era iniziare proprio dal mio tormento: i proverbi. Sono riportati in diversi testi storici che ho consultato. Ne ho raccolti un po' e li ho trascritti qui sotto.

Il termine magna gatti è presente nella celebre filastrocca riportata nella Raccolta di proverbi veneti pubblicata a Venezia nel 1879, un tormentone che ancora adesso è conosciuto oltre i confini regionali:

«Veneziani gran signori; Padovani gran dotori; Vicentini magna gati; Veronesi tutti mati; Udinesi, castellani, col cognome de furlani; Trevisani pan e tripe; Rovigoti, baco e pipe; i Cremaschi, fa cogioni; i Bressan, tagiacantoni; ghe n'è anca de più tristi: bergamaschi brusacristi; e Belun? Poreo Belun, te sé proprio de nisun».

Virgilio Scapin: Magnagati

I veneziani avrebbero chiesto alcune centinaia di gatti a Vicenza, ma i vicentini non riuscirono ad aiutarli perché tutti i gatti erano spariti "come se qualcuno se li fosse mangiati".

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Secondo step: la biblioteca del mio paese d'origine, alla ricerca di qualche volume che mi potesse aiutare. La bibliotecaria mi ha subito consigliato un testo di uno scrittore vicentino, Virgilio Scapin, che ha raccolto nel libro Magnagati una serie di leggende locali. Una di queste è ambientata negli anni Venti del ‘400, quando Venezia venne invasa dai topi. I veneziani avrebbero chiesto alcune centinaia di gatti a Vicenza, ma i vicentini non riuscirono ad aiutarli perché tutti i gatti erano spariti "come se qualcuno se li fosse mangiati".

Un'altra leggenda è abbastanza simile nel contenuto: siamo agli inizi del Settecento, i vicentini preoccupati da un'invasione di topi chiesero ai veneziani una fornitura di felini, che vennero trasportati in barca lungo il Bacchiglione fino a sotto il monte Berico, ma che non furono mai più restituiti. Questi, e altri aneddoti non storicamente fondati, si sentono spesso recitare dagli stessi vicentini quando devono spiegare la loro nomea. Più facile scomodare la storia, che ammettere la possibilità che i loro antenati mangiassero realmente un animale domestico.

biblioteca di Schio

Biblioteca di Schio (VI).

Un'altra ipotesi molto interessante sull'origine del detto è stata avanzata da Emilio Garon, in un articolo del Giornale di Vicenza del 2006. Garon ha elaborato una teoria di origine fonetica basata sulle parlate locali: la frase "hai mangiato" in dialetto veneziano si pronunciava "ti ga magnà", in padovano "gheto magnà", mentre nel dialetto antico vicentino era "gatu magnà". Questa pronuncia potrebbe aver dato origine al soprannome dispregiativo "magnagatu" o "magnagati" dato ai vicentini dai rivali veneti. I veneziani, infatti, avevano l'usanza di affibbiare soprannomi con la desinenza "magna"—come "magnagiasso", "magnamaroni", "magnacarta", "magnamocoli" e il volgarissimo "magnamerda".

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In epoca moderna, il riferimento più esplicito ai gatti come alimento si trova nel decreto salva-gatti del prefetto di Vicenza del 1943 emanato in un periodo in cui la guerra aveva provocato scarsità di cibo.

Se passiamo dai detti e dalle leggende ai riferimenti storici, nel suo libro Veneti Ulderico Bernardi fa risalire l'associazione vicentini/mangia-gatti a "episodi bellici medievali, in cui i vicentini, ridotti allo stremo si sarebbero mangiati anche i gatti." Un altro riferimento storico risale al 1509, quando Padova venne attaccata dalle truppe della lega di Cambrai che comprendeva i vicentini. Dall'alto delle loro mura, i padovani mostrarono ai vicentini in segno di disprezzo una gatta appesa a una lancia. Lo sfottò era sia un riferimento alla macchina da guerra conosciuta come "il gatto", che un'allusione a sfondo sessuale.

libro magnagati

Uno dei libri consultati nella Biblioteca La Vigna di Vicenza.

Una cosa di cui possiamo avere la certezza, ai giorni nostri, è che il gatto è un simbolo che ricorre in diversi loghi ed elementi grafici legati alla vita della città — ad esempio quelli usati da associazioni e gruppi vari a Vicenza. Per cercare, invece, dati concreti si possono esplorare i testi legislativi. In epoca moderna, il riferimento più esplicito ai gatti come alimento si trova nel decreto salva-gatti del prefetto di Vicenza del 1943, emanato in un periodo in cui la guerra aveva provocato scarsità di cibo. Il decreto proibiva di uccidere e mangiare i gatti e non è stato emanato solo a Vicenza, ma in tutte le province d'Italia.

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La legge attuale, invece, non vieta esplicitamente di mangiare carne di gatto, anche se la pratica non può essere considerata legale. È possibile ricavare il divieto in modo implicito, interpretando delle norme generali sull’igiene e la salute relative agli alimenti. Insomma, al momento non esistono discipline che regolino le modalità di macellazione e conservazione delle carni di gatto, ai fini di vendita e, nel campo dell’alimentazione, si può vendere solo ciò che è consentito e regolamentato espressamente.

C'è poi una storia su Vicenza e i gatti a cui sono molto legata. Diversi anni fa, infatti, i miei genitori comprarono un casale sopra le colline di Schio, un paese in provincia di Vicenza dove ho trascorso buona parte della mia vita. Quando si diffuse la voce che ci eravamo stabiliti lì, diversi anziani vennero a trovarci. Ognuno di loro ci raccontava aneddoti molto divertenti su uno stesso luogo, un Magazin, una sorta di antenato del moderno agriturismo, dove si mangiava cibo coltivato o allevato dai contadini. Nel casale abitava un personaggio bizzarro: Belora. Questa contadina sfamava le persone con quello che trovava: panini con soppressa, formaggio, uova sode e, quando andava bene, coniglio in tecia. Era famosa per i suoi modi di fare rozzi, le bestemmie frequentissime e perché cucinava anche i gatti.

Il piatto veniva preparato sopratutto in inverno dopo aver fatto frollare le carni di gatto sotto la neve. Spesso Belora ingannava i commensali spacciando il piatto per carne di coniglio per poi mostrare a fine pasto la testa del felino morto, rivelando tutto.

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Per capire se questa storia fosse vera o solo una diceria, ho intervistato Rosina, una signora di quasi 90 anni che rimane una delle uniche parenti di Belora ancora in vita. In una piovosa giornata di metà novembre, sono andata nel circolo di anziani del paese e ho chiesto a Rosina di raccontarmi di Belora e di cosa entrasse nelle sue pentole. Dopo avermi parlato del suo buonissimo coniglio in tecia, del suo caffè con la grappa e dei suoi affezionatissimi clienti, è passata alle modalità di cottura del gatto. Il piatto veniva preparato sopratutto in inverno, dopo aver fatto frollare le carni sotto la neve. Spesso Belora ingannava i commensali spacciando il piatto per carne di coniglio, per poi mostrare a fine pasto la testa del felino morto, rivelando tutto.

biblioteca La Vigna Vicenza

Ho ritrovato lo stesso metodo di preparazione descritto da Rosina anche nel libro L'alimentazione nella tradizione vicentina che ho consultato nella fornitissima biblioteca La Vigna di Vicenza, specializzata nel settore di studi sull’agricoltura e sulla cultura e civiltà del mondo contadino:

"In realtà, se cucinata bene, la carne di gatto non differisce gran che da quella di coniglio ed è anzi meno filosa. Il gatto di solito si mangia nel periodo invernale. Dopo averlo ucciso e avergli levato pelle, testa e viscere, Io si mette a infrolire per alcuni giorni sotto la neve, oppure in acqua e aceto per due giorni. Dopo averlo tagliato a pezzi lo si pone poi in un tegame per cavarghe l'àcua (asciugarlo), a volte con aglio, salvia, rosmarino, sale e pepe (in alternativa, alcuni lo mettevano per una notte nel vino con carote, sedano, aglio, alloro, sale e pepe). Levati gli ingredienti, i pezzi di carne sono fatti rosolare con olio e burro e, a volontà, un po' di cipolla, aglio e prezzemolo. Si cuoce poi per circa due ore aggiungendo un po' alla volta un brodo di cottura filtrato, che è stato preparato a parte, facendo bollire mezzo litro di vino bianco con mezzo limone, alloro, salvia, chiodi di garofano, cannella, pepe e sale. Il recipiente non va mai coperto."

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Libro: alimentazione tradizione vicentina

Un signore seduto vicino a Rosina, turbato da questi racconti truci, mi ha spiegato, invece, che i gatti si mangiavano in periodo di guerra, quando qualsiasi cosa andava bene per placare la fame. La sera seguente, dietro consiglio di Rosina, vado a trovare Giovanni detto Baracheta, perché i suoi genitori avevano un'osteria dentro una baracca, proprio dove oggi sorge l'immensa casa in cui vive da solo. Giovanni è vedovo e ha sempre vissuto dov'è nato. I suoi genitori erano contadini e ristoratori, anche loro cucinavano il gatto, mi ha raccontato. La sua storia condivide con quella di Rosina i dettagli dello scherzo di portare a tavola la testa del gatto a fine pasto e la frollatura sotto la neve—anche se, aggiunge, c'è un metodo alternativo di frollatura, quello di appendere la carne ai fili elettrici.

Gato in tecia

Dal libro "L'alimentazione nella tradizione vicentina".

Trovare chi potesse testimoniare di avere mangiato veramente il gatto non è stato per nulla semplice. Tanto è vero che nessuna delle persone con cui ho parlato ha ammesso di averlo fatto. Ognuna di loro, però, ha dichiarato di avere visto i propri genitori o altri parenti mangiare questa carne, a un certo punto. Insomma: chi consumava carne di gatto apparteneva a una generazione che ormai è morta. In aggiunta a tutto questo, gli intervistati difficilmente si aprivano molto sull'argomento, a causa del tabù legato al consumo di un animale domestico e all'insita vergogna riguardo alla povertà. Questa reticenza rende la credenza "Vicentini Magna Gatti" ancora più affascinante, e ancora più difficile giungere a una risposta definitiva.

Di una cosa, però, sono abbastanza contenta e grata dopo questa ricerca: che nessuno mi abbia mai servito un piatto di coniglio, per poi mostrarmi a fine cena la testa mozzata di un gatto.

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