“Buoni i gatti? Ah ma quindi mangi gatti? Ti piace il gatto?". Queste domande, e altre simili, mi vengono rivolte ogni volta che dico di essere originaria di Vicenza. Mi sono sempre limitata a rispondere sorridendo, tra l'imbarazzato e l'annoiato. Questo tormento è la conseguenza del famoso detto ”Vicentini magna gatti”, ma qual è davvero la sua origine? Me lo sono chiesta diverse volte, ho interrogato amici, parenti e le stesse persone che facevano la battuta due minuti dopo avermi conosciuta, credendo di essere simpatici, ma nessuno sapeva darmi una risposta che mi convincesse.La Belora, una contadina che abitava nella provincia di Vicenza, era famosa per i suoi modi di fare rozzi, le bestemmie frequentissime e perché cucinava anche i gatti.
«Veneziani gran signori; Padovani gran dotori; Vicentini magna gati; Veronesi tutti mati; Udinesi, castellani, col cognome de furlani; Trevisani pan e tripe; Rovigoti, baco e pipe; i Cremaschi, fa cogioni; i Bressan, tagiacantoni; ghe n'è anca de più tristi: bergamaschi brusacristi; e Belun? Poreo Belun, te sé proprio de nisun».
I veneziani avrebbero chiesto alcune centinaia di gatti a Vicenza, ma i vicentini non riuscirono ad aiutarli perché tutti i gatti erano spariti "come se qualcuno se li fosse mangiati".
Se passiamo dai detti e dalle leggende ai riferimenti storici, nel suo libro Veneti Ulderico Bernardi fa risalire l'associazione vicentini/mangia-gatti a "episodi bellici medievali, in cui i vicentini, ridotti allo stremo si sarebbero mangiati anche i gatti." Un altro riferimento storico risale al 1509, quando Padova venne attaccata dalle truppe della lega di Cambrai che comprendeva i vicentini. Dall'alto delle loro mura, i padovani mostrarono ai vicentini in segno di disprezzo una gatta appesa a una lancia. Lo sfottò era sia un riferimento alla macchina da guerra conosciuta come "il gatto", che un'allusione a sfondo sessuale.In epoca moderna, il riferimento più esplicito ai gatti come alimento si trova nel decreto salva-gatti del prefetto di Vicenza del 1943 emanato in un periodo in cui la guerra aveva provocato scarsità di cibo.
Il piatto veniva preparato sopratutto in inverno dopo aver fatto frollare le carni di gatto sotto la neve. Spesso Belora ingannava i commensali spacciando il piatto per carne di coniglio per poi mostrare a fine pasto la testa del felino morto, rivelando tutto.
"In realtà, se cucinata bene, la carne di gatto non differisce gran che da quella di coniglio ed è anzi meno filosa. Il gatto di solito si mangia nel periodo invernale. Dopo averlo ucciso e avergli levato pelle, testa e viscere, Io si mette a infrolire per alcuni giorni sotto la neve, oppure in acqua e aceto per due giorni. Dopo averlo tagliato a pezzi lo si pone poi in un tegame per cavarghe l'àcua (asciugarlo), a volte con aglio, salvia, rosmarino, sale e pepe (in alternativa, alcuni lo mettevano per una notte nel vino con carote, sedano, aglio, alloro, sale e pepe). Levati gli ingredienti, i pezzi di carne sono fatti rosolare con olio e burro e, a volontà, un po' di cipolla, aglio e prezzemolo. Si cuoce poi per circa due ore aggiungendo un po' alla volta un brodo di cottura filtrato, che è stato preparato a parte, facendo bollire mezzo litro di vino bianco con mezzo limone, alloro, salvia, chiodi di garofano, cannella, pepe e sale. Il recipiente non va mai coperto."
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