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Musica

Sanremo e la maledizione della melodia

Cerchiamo di capire perché a Sanremo la rivoluzione non è mai arrivata, nonostante il mito degli Urlatori contro il Belcanto.
sanremo
Gianni Morandi e Claudio Villa. Foto: Wikimedia Commons.

Nel mio ultimo articolo ponevo l’accento su una questione fondamentale riguardo a Sanremo, cioè che sul palco dell’Ariston le innovazioni non piacciano più di tanto: è vero o è solo una nostra impressione? Beh, se guardiamo indietro sicuramente i vincitori non fanno parte dell’area dei rivoluzionari, e onestamente non si notano grandi picchi di creatività.

Ancora oggi tutti gli addetti ai lavori concordano sul fatto che "Nel blu dipinto di blu" sia stata l’unica vera botta di vita per il festival, cambiando definitivamente rotta nell’Italia del bel canto che fu. Siccome quest’anno si festeggia il suo sessantennale, è caduto a fagiolo un post su Facebook del caro Federico Savini (che, come saprete, scrive su Blow Up) in cui si parlava di Franco Migliacci, l'autore del testo di "Nel blu dipinto di blu", ma nel suo ruolo di paroliere al servizio di Ambra Angiolini. Il testo di "T’appartengo" è infatti opera sua (insieme a Ernesto Migliacci, Assolo e Stefano Acqua), e rischiacciando il play di YouTube per l’ennesima volta mi sono permesso di scrivere che a "Nel blu dipinto di blu" preferisco proprio "T’appartengo", che in qualche modo vedo come la "Volare" degli anni Novanta, con il suo onirismo adolescenziale, liberatorio, ma in ogni caso ad occhi aperti, colmo di desideri repressi che escono allo scoperto e si fanno carne.

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Questa mia affermazione ha scatenato un pochino le perplessità di Federico che ha assolutamente difeso la portata storica rivoluzionaria di "Nel blu dipinto di blu" per quanto riguarda la canzone italiana, asserendo che rispetto ad Ambra non c’è storia. E da lì è partito un dibattito di diversi post: lui dice che fra Villa e il Modugno del 1958 c’è un abisso, io invece penso che in quest’abisso Modugno ci sia entrato in pieno con la tuta da palombaro. Alla fine questa diatriba mi ha dato lo spunto per approfondire la faccenda, e scrivere quindi il pippone che state per leggere. Anche se ero partito solo per fare i complimenti a Migliacci, ringrazio Federico Savini per avermi dato il La.

Partiamo proprio da un discorso emotivo e chiaramente personale: da quando sono nato, "Nel blu dipinto di blu" non mi ha mai detto un cazzo, lo ammetto (a parte la cover dei Confusional Quartet, che ne smascherano l'artifizio). Sì, bella melodia, bella armonia, sì, voliamo. Però se ascolto "Vecchio Frac" (che è ancora attualissima, basti ascoltare la versione synth pop di Enrico Ruggeri, perfetta e massiccia canzone sul suicidio), "‘U pisci spada" o qualsiasi altro brano di Modugno, addirittura "La Lontananza", mi rimangono dentro, magari mi metto pure a piangere. Per non parlare di quella meraviglia di "Cosa sono le nuvole", scritta con Pasolini, che meriterebbe trecento volte più considerazione per la sua importanza musical/poetica per tutta la musica leggera italiana. "Nel blu dipinto di blu" sembra un compromesso – necessario, ma sempre un compromesso. Insomma, a parte il valore storico che non si discute, "Nel blu dipinto di blu" secondo me non ha retto il passare del tempo. In un certo senso ha fatto la stessa fine dei brani belcantisti che il nostro cercava di spodestare dal trono della “lirica di massa”, fermandosi in una cristallizzazione di antico. "Nel blu dipinto di blu" è un po’ la canzone rivoluzionaria che ridimensiona la rivoluzione stessa.

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Dov'erano all’epoca Carosone, che nel 1957, con la canzone "Torero", rimase per due settimane al primo posto delle classifiche americane, o Buscaglione, uno che davvero ha ibridato la musica americana con quella italiana senza far perdere punti né all’una né all’altra? Non certo a Sanremo: lì c’era Modugno. Forse è stato il massimo che si poteva ottenere a Sanremo, certo, ma non il massimo in generale in Italia, ed è una stigmata che ancora oggi il festival dei fiori si porta addosso. Nel contesto del teatro Ariston si chiama rivoluzionario qualsiasi brano fuori posto che arriva in sede e ottiene il favore del pubblico e della critica, anche se a volte la concorrenza è talmente blanda che ci vuole poco, basta portarsi uno vestito da gorilla sul palco.

Anche un brano in sé atipico come "Vacanze Romane" dei Matia Bazar, che si fermò prevedibilmente al quarto posto nonostante il premio della critica, rispettava comunque le regole della melodia cantabile italiana. Tant’è che la più ostica "Palestina", inizialmente pensata per partecipare al festival, fu scartata dimostrando appunto che anche a Sanremo l’eccezione conferma la regola. Quando è andato Vasco, l’assolutamente amelodica "Vado al massimo" è arrivata ultima ed è stata usata fondamentalmente per far vincere i reazionari del Festival: motivo per cui Vasco poi non c’è più andato, non c’era possibilità alcuna di cambiamento nonostante il fattaccio del microfono che cade dalle tasche, fatto extramusicale che è diventato forse più importante della canzone in sé, come erano in gran parte extramusicali i motivi per cui Modugno trionfò con "Nel blu dipinto di blu". Ok, anche lui si rifaceva alla musica americana, ma in maniera molto easy listening: era sempre un cantante di musica leggera.

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E, infatti, mentre Ghigo Agosti nel '55 rischiava l’arresto per la sua voce “fonosessuale”, giocando con le ambiguità, rotolandosi per terra, strappandosi i vestiti, scrivendo brani sui trans e portando il vero rock in Italia a livello di grande innovazione pioneristica, Modugno si rivolgeva invece bonariamente a tutta la penisola con ottimismo, mettendo d’accordo fascisti, comunisti, liberali, cani, gatti, piante, minerali e via discorrendo, insomma interpretando l'umore di un’Italia ubriaca di megalomania per il boom che stava arrivando (e che si sarebbe esaurito troppo rapidamente per risolvere quei problemi che la nazione si portava avanti dal Risorgimento). Il fatto di interpretare lo spirito del tempo per molti rappresenta la grandezza intrinseca della canzone; ma anche "Faccetta nera" racconta lo spirito di un certo tempo, no? Io penso, al contrario che il discorso storico vada considerato per quello che è, un dato storico; soprattutto perché all’epoca non eravamo neanche nati (alla fine anche Villa spigne, parliamoci chiaro).

Ma una canzone è una canzone, e il valore di una canzone dovrebbe essere quello di sopravvivere alla sua epoca, possibilmente anche senza la spinta dei media. "Nel blu dipinto di blu" è stato un fenomeno di massa che sottintendeva qualcosa che sarebbe comunque esploso: Sanremo aveva bisogno di Modugno e del suo modo di stare sul palco, del suo modo di usare la voce libera da virtuosismi per, in qualche modo, aprire le porte agli urlatori, che già esistevano e già avevano superato Mimmo a sinistra in quanto a gradimento. Mancava lo sdoganamento ufficiale, quel gesto ampio delle braccia che toglieva di mezzo cantanti ingessati che avevano affollato il palco fino a quel momento, composti e sdolcinati.

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Il fatto che "Volare" abbia venduto non si sa quante copie nel mondo e soprattutto in America è un fatto commerciale indiscutibile che è spiegabile (a parte dalla folta rappresentanza di Italiani emigrati negli States) con la cantabilità del brano: il discorso melodico, si sa, è sempre stato considerato il marchio degli italiani all’estero, come la pizza o i bucatini.

Cioè, chiariamoci: non voglio dire che Modugno non valga un cazzo. Trovo che la sua innovazione stia altrove. Ad esempio è riuscito a rendere “leggera” la musica popolare italiana con il suo grammelot salentino/siciliano del primo periodo, in cui parla di roba pesantissima (massacri di tonni nella tonnara, cavalli ciechi perché lavorano in miniera). Certo non si trattava di musica atonale, ma neanche degli Everly Brothers o di un Little Richard all'amatriciana, soggetti allora niente affatto sconosciuti ai giovanissimi, ecco. È stata una rivoluzione in cui l’industria discografica ha avuto un peso notevole, presa dalla necessità di abbassare l’età degli acquirenti di dischi, una rivoluzione prettamente commerciale insomma, culminata nel periodo beat. 'Cazzo vi credete, che la libertà d’espressione ve la regalino così?

E se vogliamo dare a Modugno quel che è di Modugno dobbiamo ricordare invece che ha fatto un sacco di altra roba di cui nessuno parla. Non solo quello che ho citato sopra, ma anche cose molto più sperimentali (pensiamo a “Questa è la facciata B” del 1971 che recita addirittura “il disco di Sanremo non lo sentite, la canzone io non l’ho fatta”). Il declino successivo è inevitabile, infatti Modugno si è ritrovato a partecipare a Sanremo con pezzi che guardavano indietro nel tempo, invece che al futuro come si supponeva facesse "Nel blu dipinto di blu", perché il personaggio di “Mr. Volare” aveva sostituito il vero Modugno. Se guardiamo le vittorie di Sanremo, Mimmo è infatti a pari merito con Claudio Villa (quattro vittorie), in pratica un classico fra i classici. Lo stesso Villa nel ‘69 dichiarerà: "È il più grande di tutti. Nessuno ha scritto tante belle canzoni che rimarranno per decenni, nessuno è completo come lui quale cantautore, showman, attore”. Parole che, voglio dire, espresse da un fermo nemico della modernità suonano davvero strane, e non si tratta solo di parole. Lo vedremo infatti in coppia proprio con Modugno per la canzone vincitrice del 1962, "Addio Addio", faccenda che in qualche modo chiude un cerchio.

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E purtroppo oggi siamo ancora fermi a "Nel blu dipinto di blu", che da bella canzone è diventata suo malgrado un santino, un simbolo, una fede che non si può discutere. È invece necessario farlo per levarsi dalle palle tutta una serie di luoghi comuni. Una cosa è l’interpretazione della canzone, una cosa la canzone in sé, un'altra cosa ancora il contesto, di nuovo un'altra cosa i ricordi di una nazione sotto etere che riescono a rendere mitica Via Veneto, figuriamoci il resto. Se anche fosse una canzone punk (che sicuramente i Ramones avrebbero arrangiato benissimo), non si scapperebbe da quella infernale melodia all'italiana. Musicalmente, quindi, col senno di poi, c'era davvero la tanto sbandierata divisione netta fra i famigerati urlatori, guidati da Modugno, e i belcantisti, con a capo l’irriducibile Claudio Villa? E che cosa è cambiato sul palco di Sanremo oggi rispetto alle innovazioni che tutti bene o male dovremmo pretendere?

Come abbiamo detto prima, tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta ci voleva qualcosa di "commercialmente appetibile" per rompere la canzonetta italiana e poi ritornarci dentro immediatamente, una rivoluzione "dall’interno", che gli autori ne fossero consapevoli o meno. Potremmo addirittura accusare gli urlatori stessi di "melodismo farlocco", in sostanza sempre belcantismo ma ricoperto da una sottile patina di ribellione. Gli Urlatori erano così appellati perché cantavano senza abbellimenti, a voce piena, sbattendosene di tutta una serie di preziosismi vocali tipici dei Gino Latilla e compagnia cantante (gioco di parole voluto fortemente), ed erano fortemente influenzati dalla musica americana.

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Adriano Celentano, il primo Gaber, Tony Dallara, Mina, Betty Curtis volevano (per citare l’ironico e pungente bestseller di Carosone) “fare gli americani”: quindi arrangiamenti rockeggianti, rhythm and blues, eccetera. Ma tutto questo, ahimè, non era fattibile del tutto, non lo è mai stato: credete che la casa discografica di turno facesse fare a questi poveretti come volevano? Affatto. Gente come Bobby Solo, che avrebbe potuto suonare per giorni tutto il repertorio di Elvis e del rock n' roll più tosto, finiva a cantare "Una lacrima sul viso"; uno come Little Tony, per fare successo a Sanremo, doveva affidarsi alle rassicuranti melodie di "Cuore matto". Pensate solo a Celentano, che nonostante, con "Ventiquattromila baci" abbia portato avanti un altro tipo di concetto dell’amore a Sanremo (cioè, fondamentalmente, sesso sfrenato), fu comunque fermato dalla censura e impossibilitato a esplicitare alcunché neanche nelle movenze (su di lui ci fu addirittura un'interrogazione parlamentare). Uno come Joe Sentieri, morto nel 2007 e tra i pionieri del genere, era ricordato per il fatto che saltasse ogni volta che finiva un brano. E il motivo era semplice: “Ero contento, quando cantavo, ma le canzoni italiane erano così banali. Ero tornato dall'America, dove cantavo un altro genere di canzoni, da Brel a Sinatra, e trovandomi ad interpretare delle canzoncine così, saltavo dalla gioia di aver finito, ed è rimasto impresso a tutti". E proseguiva: "È una situazione a doppio taglio, perché la gente mi ricorda ancora adesso, passati quarant'anni, come quello del 'saltino' ed è un po' poco".

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Sembra che alla massa degli italiani non interessi tanto la sostanza, quanto invece la forma: se, infatti, tornando a "Ventiquattromila baci", rallentassimo il pezzo cantandone la melodia in maniera pre-anni Sessanta, noteremmo subito che è un pezzo adattissimo a Villa. Il quale s’incazzava come un pazzo con tutte queste novità, che in cuor suo erano senza dubbio viste come una truffa: conosciuto come il più grande tritura-maroni degli urlatori, per dimostrare la sua assoluta modernità a dispetto di tutto e tutti, si mise persino a esibirsi con una backing band beat, arrivando quasi a ribaltare le carte e fare lui stesso la rivoluzione.

Se pensate che poi, per tutto il periodo degli urlatori, a Sanremo si era escogitato questo trick malvagio di accoppiare due esponenti dei rispettivi fronti, quindi un urlatore e un belcantista, potete capire come la fame di piacere a tutti per fare i quattrini implichi, da sempre, che a Sanremo non c’è assolutamente libertà di azione. Nel 1960, ad esempio, Tony Dallara si esibì con "Romantica" a fianco di Renato Rascel (uno urlatore, l’altro cantante tradizionale): il maggior gradimento andò a Dallara, ma il pezzo si addice benissimo alle corde vocali di entrambi, perché ancora tanto ultramelodico da far cadere le gengive.

E in effetti il problema di Sanremo è che proprio non si riesce a togliere di mezzo la melodia: anche un brano fondamentalmente parlato come “Minchia signor tenente" (a prescindere dai giudizi di valore), inizia con un intro melodico. A questo punto uno potrebbe dire che il vero innovatore del festival è stato Francesco Salvi, che in “Esatto” faceva cantare gli animali campionati. Persino Elio e le Storie Tese hanno raggiunto il secondo posto con una canzone che, strana quanto ti pare, se non è anni Cinquanta come impostazione poco ci manca (la versione liscio con Raoul Casadei parla da sola).

L’eredità di tutta questa storia è che a Sanremo oggi siamo tornati indietro nel tempo. Se fra i giovanissimi vanno forte l’indie rock con le sue “belle melodie” e il suo romanticismo del cazzo, probabilmente il problema è che manca la voglia di andare oltre quest’aspetto "classico" della canzone italiana. C'è un inquietante rigurgito di nostalgia che Sanremo vuoi o non vuoi è arrivato a rappresentare perfettamente da quando è nato. Per questo Sanremo, più che lo specchio di un paese, è lo specchio di una repressione continua che non accenna a crollare: e in questo siamo tutti complici. Io che ne parlo, Modugno, Villa, gli Urlatori, voi che leggete, e anche chi va a Sanremo pensando di cambiare il mondo per poi ritrovarsi a fare l’ombra di se stesso in maniera calcolata e spacciandola magari per innovazione. Tutto ciò che è “nuovo” al Festival arriva già mummificato. L’unico gesto veramente coraggioso a Sanremo è stato quello di Luigi Tenco: volare, oh oh.

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