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serie tv

'Maniac' descrive la malattia mentale come nient'altro

La nuova serie di Somerville e Fukunaga​ è coraggiosa, e affronta i limiti della nostra concezione di malattia mentale.
Niccolò Carradori
Florence, IT
Grab via YouTube

E allora sì, forza e coraggio: siamo tutti riuniti per parlare di quello che potrebbe diventare l'ennesimo feticcio in stile Netflix. Ovvero Maniac, la serie sci-fi drama (scritta e diretta da Patrick Somerville e Cary Fukunaga, rimaneggiando la versione originale norvegese uscita nel 2014) che si pone come una specie di gita dantesca nella mente umana, la malattia mentale, le relazioni familiari e sociali, i generi cinematografici, la terapia, e un bel po' di altra roba che adesso cercheremo di spacchettare.

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Innanzitutto partiamo dalla mia dose di presunzione: delle circa 5000 recensioni che ho letto in questi giorni, quasi tutte—positive o negative che fossero—si soffermavano sugli aspetti tecnici e formali: la costruzione narrativa, le trovate di ambientazione e proscenio, il tono, la recitazione, la scrittura della sceneggiatura, la moltitudine di citazioni e rimandi, il tutto nel tentativo di capire se e quanto Maniac sia una serie presuntuosa o inutilmente complicata e involuta. Un esercizio formale in cui si spazia liberamente fra il grottesco e il serioso, l'onirico e il farsesco, la leggerezza e la pedanteria, l'originalità e il citazionismo esasperato.

Ovviamente sono tutti aspetti importanti quando si scrive una recensione, ma personalmente ho trovato Maniac una serie di un tale coraggio—e onestà intellettuale priva di eccessiva retorica trita—nel mettere in tavola determinati contenuti, che il cosa mi è sembrato più importante del come.

Maniac è ambientata in una specie di New York del passato-futuro ritinteggiata con trovate distopiche che talvolta risultano divertenti e acute, mentre altre un po' troppo didascaliche. Nonostante l'avanzamento tecnologico e sociale sembri cristallizzato negli anni Ottanta, ci sono dettagli che estremizzano alcuni aspetti della contemporaneità. La pubblicità è una vera e propria merce di scambio, ad esempio: puoi ottenere prodotti e servizi sottoponendoti a sedute pubblicitarie invece di pagare in contanti. C'è un'agenzia che ti fornisce attori in grado di impersonare gli amici che non puoi avere nella vita reale. Ce n'è un'altra che ammassa e sintetizza le informazioni di scarto degli altri per permetterti di conoscere i loro segreti e ricattarli.

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In questo scenario si muovono Owen Milgrim e Annie Landsberg, interpretati mostruosamente da Jonah Hill ed Emma Stone. Lui è uno schizofrenico paranoide, rampollo rinnegato di una ricca famiglia di industriali che lo umilia e lo sfrutta, bloccato in un limbo di allucinazioni e anedonia. Lei, clinicamente depressa, nevrastenica e con tendenze borderline, è una tossicodipendente con la sindrome dell'abbandono materno che cerca di rivivere continuamente lo stesso evento traumatico.

Entrambi, per motivi diversi (e che nulla hanno a che fare con la terapia), finiscono all'interno di un laboratorio in cui si sta svolgendo un futuristico trial clinico su tre farmaci in grado di guarire ogni tipo di malattia mentale. Questo mediante l'intervento di una raffinata intelligenza artificiale che, utilizzando i farmaci come catalizzatori, è in grado di individuare i traumi e i disturbi, scovare le strategie di difesa della mente e scardinarle, e successivamente di aggiustare il danno. Il trial è guidato da un gruppo improbabile e grottesco di medici e tecnici—che risultano spesso più nevrotici dei pazienti stessi—in conflitto continuo fra di loro.

L'operazione del trial, come l'induzione della trance terapeutica tramite le macchine e i farmaci, è anche l'aspetto attraverso cui vengono comunicate le caratteristiche dei personaggi e si sviluppano i temi di Maniac. Attraverso le loro visioni—sempre interconnesse per Owen ed Annie—i protagonisti si trovano all'interno di scenari surreali e immaginifici. Ora sono due ladri eleganti che si imbucano a una seduta spiritica per rubare l'ultimo capitolo mancante del Don Chisciotte, ora due sposi della classe media in piena crisi matrimoniale che tentano di salvare un lemure da una pellicceria, ora degli infiltrati in una famiglia mafiosa, ora delle guerriere elfiche.

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Somerville e Fukunaga si servono della commistione fra generi—attorno alla base sci-fi ruotano il fantasy, il crime, la spy-story, il thriller—e delle citazioni (Kubrick, la fantascienza anni Ottanta, Tarantino, Her di Spike Jonze e molte altre) per affrontare la malattia mentale. Riverberando continuamente alcuni punti cardine, tornandoci sopra, approfondendoli.

Mostrata in questi termini, capisco che ad alcuni possa apparire un'operazione un po' artificiosa: la società distopicamente capitalista che sembra una versione annacquata e più realistica di Brazil di Terry Gilliam, il tono spesso didascalicamente grottesco e simil-espressionista con cui vengono comunicati i rapporti fra i protagonisti (soprattutto fra Owen e il fratello, o fra il dottor Mantleray, che guida il trial, e la madre), le citazioni che appaiono semplicemente come un vezzo.

A tutto questo aggiungeteci poi che Maniac non ha un grande potere di intrattenimento: nonostante sia molto varia e divertente in determinati punti, non è esattamente una di quelle serie che finisci in una notte.

Ma, secondo me, è proprio questo il punto di forza di Maniac. Non è una serie fatta minuziosamente bene ma passiva, che ti fa dimenticare che sei seduto a guardarla. Non soltanto mette in mostra delle questioni ostiche, che difficilmente vogliamo affrontare a meno che non siano traslate fino a non toccarci, ma le ripete e le chiama per nome con insistenza: mentre si passa di genere in genere, di sperimentazione in sperimentazione, i traumi e le psicosi dei protagonisti affiorano continuamente.

Maniac è una serie che affronta non soltanto la malattia mentale, ma anche il problema della possibilità terapeutica. Il rapporto con il concetto di stigma, di guarigione, di identità: ti spinge a chiederti se e quanto serve combattere un disturbo mentale, se serve a te o se serve agli altri, che tipo di zone di comfort rompe il processo terapeutico. E se romperlo è un bene.

Affronta i limiti del nostro concetto di famiglia e appartenenza: "per essere persone che dovrebbero amare incondizionatamente, abbiamo davvero un sacco di condizioni." Dove si fermano le nostre interconnessioni con il mondo esterno non mediate dalla famiglia? Chi ha un ascendente sulla nostra vita? La proiezione mentale che abbiamo degli altri (soprattutto delle persone vicine) e del rapporto che ci lega—del male che ci fanno, del bene che gli vogliamo, del bene che ci vogliono—si scontra veramente mai con la realtà? Ne è un residuo? Un ricordo? E allora che rapporto dovremmo avere con i ricordi?

Insomma: Maniac non è l'ennesimo dramma realistico ambientato in un ospedale psichiatrico che comunica che "la malattia mentale esiste". È più sofisticato, e profondo. In questo senso, quindi, l'artificiosità formale è un mezzo per non cadere nella retorica. Citando Boris Yellnikoff in Basta che funzioni, "questo non è un film da 'oh quanto mi sento bene'. Se siete di quegli idioti che devono sentirsi bene, fatevi fare un massaggio ai piedi."

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