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I bambini dell'inferno: com'è crescere a Ciudad Juárez, la capitale del narcotraffico

Tra il 2008 e il 2010 Ciudad Juárez è stata la città più violenta al mondo. Oggi molti bambini soffrono di DPTS dopo aver assistito alle uccisioni di famigliari, amici ed estranei.
Des enfants jouent à Ciudad Juárez. (Photo par Jorge Cuevas/VICE News)

"Ciao, mi chiamo David," dice un ragazzino sarcasticamente, mentre i suoi amici ridacchiano per la sua padronanza dell'inglese. "Figlio di puttana."

David ha nove anni, i capelli a spazzola e una canottiera. Vive a Ciudad Juárez, la città di confine messicana che per tre anni consecutivi, dal 2008 al 2010, ha vantato il titolo di metropoli più violenta al mondo.

Quando la conversazione si sposta sulla situazione del suo barrio, il suo fare da duro sparisce. Il ragazzino spiega che la vita è difficile e che si sente "male" quando vede certe cose. "Tipo cosa?" gli chiedo. "Quando hanno ucciso mio padre," risponde lui senza esitazione.

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David racconta di aver visto suo padre venir assassinato mentre andava al lavoro, senza sapere perché fosse successo. "Ci penso sempre," continua. "Perché l'hanno ucciso?"

Ma per David il momento più difficile è la notte, quando dorme. Dice di avere incubi in cui qualcuno viene ucciso almeno due volte alla settimana. Poi si sveglia terrorizzato, sudato e triste — tutti sintomi tipici di un disturbo post-traumatico da stress.

"Spero in una vita nuova, diversa. Dove posso vivere con la mia famiglia, mio padre," bisbiglia a bassa voce. "Quando divento grande, non voglio essere triste. Voglio diventare un calciatore."

Juárez è una città ferita, che sta cercando di riprendersi dalla sanguinosa disputa territoriale che tra il 2007 e il 2012 ha riempito le strade di morti. Nel 2010, l'anno più violento, a Juárez si contavano più di otto omicidi al giorno.

Dopo tre anni in cima alla classifica delle città più violente, seguiti da una stagione al secondo posto, nel 2012 Juárez è finalmente uscita dalla top 10. Il governo sostiene che il successo sia frutto delle sue politiche volte ad aumentare la sicurezza. Ma altri affermano che si tratta soltanto di una conseguenza della vittoria del cartello di Sinaloa su quello di Juárez per il controllo dei traffici della città.

Ora che la violenza si è attenuata, i suoi effetti a lungo termine stanno diventando più visibili.

"Abbiamo molti bambini che sono segnati, sono arrabbiati e risentiti, e ora ci sono adolescenti che stanno commettendo reati gravi," dice José Luis Flores, direttore del Network per i Diritti dei Bambini di Ciudad Juárez. "Adesso si nota la nascita di un'intera generazione [di ragazzi] che soffrono di stress post-traumatico e non ricevono nessuna cura."

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"Quando divento grande, non voglio essere triste. Voglio diventare un calciatore."

Parla dei circa 200.000 bambini che sono cresciuti all'apice dell'ondata di violenza, e dei 14.000 bambini che hanno perso un genitore. Ce ne sono tantissimi, poi, che hanno assistito all'omicidio di parenti, amici ed estranei.

"Nel corso della narcoguerra [gli abitanti di Juárez] venivano continuamente traumatizzati," dice Kathleen O'Connor, professoressa della Scuola di Infermieristica della Università del Texas a El Paso.

"Si trovavano di fronte a sparatorie e corpi abbandonati per strada. Tutti avevano paura di uscire di casa."

La dottoressa O'Connor ha pubblicato quattro rapporti che esaminano lo stress post-traumatico degli abitanti adulti di Juárez, ma dice che non esistono studi sulla prevalenza del disturbo tra i bambini.

Dopo aver sentito numerosi racconti di omicidi, torture, estorsioni, rapimenti e sparizioni, O'Connor ha coniato l'espressione 'narcotrauma' per spiegare le patologie psichiche causate da questi fenomeni. La dottoressa spiega che si tratta di un trauma cronico generato dal succedersi di diversi eventi nel corso di un lasso di tempo prolungato. Un disturbo diverso dal tipico DPTS dove si riscontra una reazione a un unico avvenimento traumatico.

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"I bambini che hanno sofferto un trauma avranno un sacco di problemi da adulti se non si agisce subito," aggiunge O'Connor. "E [il governo] non sta facendo praticamente niente in questo ambito."

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A dividere El Paso da Juárez ci sono solo una recinzione, un fiumiciattolo e qualche ponte. Ma se la metropoli messicana è stata per diversi anni la capitale mondiale della violenza, El Paso figura tra le città più sicure degli Stati Uniti.

Dal suo ufficio la dottoressa O'Connor può scorgere il pericoloso barrio di Felipe Ángeles, dove vive David, il bambino di nove anni. Le strade sterrate del barrio regalano una vista perfetta sull'immacolato campus universitario di El Paso.

Il barrio Felipe Ángeles è uno dei quartieri più pericolosi di Ciudad Juárez. (Foto di Jorge Cuevas/VICE News)

In un centro ricreativo di Felipe Ángeles mi ritrovo al tavolo con quattro ragazzine e chiedo alla 12enne Diana se le piace il suo quartiere. "Beh, no, ma che cosa posso farci?" mi risponde lei.

Le ragazze raccontano un episodio particolare che è rimasto impresso nelle loro memorie. Mentre si trovavano nella loro scuola elementare qualcuno è stato ucciso davanti ai loro occhi.

"L'ho solo intravisto," spiega Diana, prima di cambiare argomento.

"Mi sento molto insicura. Tutto il tempo, quando cammino temo che qualcuno possa rapirmi."

Questo non è stato l'unico incidente che ha colpito Diana nel corso della narcoguerra. Suo padre è stato ucciso quando lei aveva solo sette anni. Come David, anche lei non sa darsi una spiegazione e sta ancora patendo le conseguenze di quella tragedia.

"Ho sempre paura," dice Diana. "Mi sento molto insicura. Tutto il tempo, quando cammino temo che qualcuno possa rapirmi."

Al tavolo con noi c'è anche Daniela, la responsabile del centro Felipe Ángeles. Lei lavora per un gruppo chiamato OPI, l'acronimo di Organizzazione Popolare Indipendente.

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Il gruppo gestisce centri per il dopo-scuola nei quartieri più problematici della città. Qui Daniela organizza attività per i bambini, cercando di offrirgli un'opportunità per divertirsi, aumentare la propria autostima e tenerli lontani dalla strada.

In alcuni giorni cantano, in altri realizzano progetti artistici — o qualsiasi attività positiva che si possa realizzare con un budget limitato.

"Adesso esco un po' più spesso. Ma prima non uscivo mai, non andavo alle feste. Quando ero un'adolescente passavo il tempo chiusa in casa a causa della violenza che c'era fuori."

Ogni giorno Daniela vede i segni del conflitto sulle facce dei bambini che frequentano il suo centro.

"Lo vedo nei bambini, loro riflettono la violenza che c'era qui," spiega Daniela. "Portano dentro di sé le conseguenze di tutto quello che è successo qui."

A soli 22 anni, la vita di Daniela è già stata segnata dagli omicidi di alcuni amici e dal rapimento della cugina. Anche lei porta le cicatrici della guerra.

"Adesso esco un po' più spesso. Ma prima non uscivo mai, non andavo alle feste. Quando ero un'adolescente passavo il tempo chiusa in casa a causa della violenza che c'era fuori," racconta mentre le ragazze che siedono dietro di lei tengono lo sguardo basso.

"Non andavo al cinema perché avevo paura che mi avrebbero uccisa o rapita."

Ancor prima che il tasso di omicidi di Juárez schizzasse alle stelle, la città era diventata famosa in tutto il mondo per un altro motivo. Negli anni Novanta Juárez era celebre per i numerosi femminicidi.

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Le autorità messicane non danno cenni di voler far qualcosa per affrontare gli effetti delle ondate di violenza sulla città. Quando il presidente messicano Enrique Peña Nieto si è recato in visita ufficiale a Juárez nel gennaio del 2015, lui e il governatore dello stato di Chihuahua, César Duarte, hanno celebrato Juárez come un modello di successo nella lotta alla criminalità.

"Alcune città, e specialmente Ciudad Juárez, hanno un'atmosfera molto diversa rispetto a due, tre anni fa," ha dichiarato Peña Nieto, portando a esempio il crollo del tasso di omicidi nella città per sottolineare la diminuzione del numero di omicidi nell'intero paese.

Alcuni mesi dopo la visita del presidente la situazione critica dei bambini di Juárez è arrivata sulle prime pagine dei giornali. L'interesse era dovuto all'uccisione di un bambino di sei anni da parte di cinque adolescenti che lo avevano legato nel corso di un gioco chiamato 'sequestro.'

"Questo è uno stato che dice 'a Juárez non è successo niente'," dice Catalina Castillo, la direttrice di OPI, facendo notare la scarsa volontà del governo di fare qualcosa. "Non vogliono avere niente a che fare con i cuori spezzati dei nostri bambini."

"Mi sento triste adesso. Ci penso tutta la settimana. Lo sogno tutte le notti"

Sono le sei di sera quando il centro inizia a svuotarsi. L'undicenne Alejandro è rimasto indietro.

"Mio papà è morto. Era andato al lavoro e un'auto è arrivata e ha sparato al furgone in cui si trovava lui," dice Alejandro. Aveva sei anni all'epoca dell'accaduto, e racconta di aver assistito a numerosi omicidi.

"Mi sento triste adesso. Ci penso tutta la settimana. Lo sogno tutte le notti," conclude il ragazzino. Sogni qualcos'altro? "Risse, colpi di pistola. Nient'altro."


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