Sono andata a vedere Perù-Danimarca con la comunità peruviana di Milano
L'autrice.

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Sono andata a vedere Perù-Danimarca con la comunità peruviana di Milano

La diaspora peruviana è più viva che mai—e i Mondiali, a cui il Perù si è qualificato per la prima volta dopo 36 anni, ne sono la prova.

Sabato 16 giugno il Perù ha esordito ai mondiali di Russia 2018, per la prima volta dopo 36 anni, contro la Danimarca. La partita è andata male—persa 1-0, con un rigore sbagliato di Cueva e tante altre occasioni sprecate—ma sotto al maxischermo del Milano Latin Festival, nel parcheggio del Forum di Assago, gli hinchas [tifosi] peruviani non hanno mai smesso di cantare e suonare, neanche nei momenti di maggiore sconforto.

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“Canteremo e ci ritroveremo qua a festeggiare a ognuna di queste prime partite del girone,” mi spiega una signora che come me si è vista tutta la partita nelle prime file, accompagnata da un’amica. “Ci sono qua anche i miei figli, certo, per loro è il primo mondiale!” Vorrei intavolare un discorso sull’emotività del fatto che per molti di noi è effettivamente il primo mondiale del Perù, ma la tensione per la partita prevale su qualsiasi altra cosa, e rimando tutto a fine partita.

L’ultima volta che la blanquirroja peruviana aveva presenziato a un mondiale è stato nel 1982, in Spagna. CT dell’epoca era il brasiliano Elba de Padua Lima, detto "Tim", e la formazione comprendeva nomi come Héctor Chumpitaz, Julio César Uribe e Jaime Duarte. A quel mondiale il Perù pareggiò con l’Italia, che sarebbe poi stata campione del mondo, ma uscì al primo turno contro la Polonia. Tutti aneddoti che da piccola, negli anni Novanta, ogni tanto genitori e parenti mi raccontavano, e che già allora sembravano appartenere a un’altra epoca. Dopo Spagna 1982, infatti, è iniziato il declino.

Lo scorso novembre la nazionale peruviana ha battuto la Nuova Zelanda al ripescaggio delle eliminatorie di Russia 2018, aggiudicandosi ufficialmente la qualificazione. L’allora presidente Pablo Kuczynski ha dichiarato il giorno della partita festa nazionale, “per supportare al meglio la nostra squadra,” e dopo la vittoria, il paese ha continuato a festeggiare per mesi. Non so se conti più il fattore “prima volta”, il profondo attaccamento al calcio della gran parte dei peruviani o il fatto che la diaspora renda i membri delle comunità particolarmente emotivi nei confronti dei paesi di origine, ma in Italia la tifoseria peruviana si è mobilitata fin da subito in maniera eccelsa.

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Nell’ottobre dello scorso anno si è formata a Milano la Roja y Blanca, barra ufficiale della città responsabile dei cinque banderazos, i raduni pre-partita in cui la banda di musici—principalmente percussioni e trombette—e tifosi dedica alla nazionale canti, cori e balli di incitamento tipici di tutta la tifoseria calcistica latino-americana.

“Ci siamo formati nell’ottobre 2017,” mi racconta uno dei musici, “quando il Perù ha pareggiato con la Colombia, accedendo quindi al ripescaggio ufficiale. Il primo banderazo l’abbiamo fatto in Duomo, ma abbiamo avuto problemi con la polizia, così ci siamo dovuti spostare a San Siro. Oggi siamo qui, in tutto questo caldo, dalle 3 di pomeriggio.”

Gran parte delle persone con cui mi fermo a parlare al Milano Latin Festival sono lì con la famiglia al completo, e quelle senza camiseta bianca e rossa o senza bandiera sono davvero poche. “Noi siamo andate in Svizzera a vedere la partita contro l’Arabia Saudita,” raccontano eccitate a fine partita alcune signore. “È stato bellissimo, eravamo tantissimi, questo è il nostro cartellone.”

“Sono qua con tutta la mia famiglia,” mi spiega un ragazzo mentre osserva preoccupato lo schermo, “ho 23 anni, sono nato a Lima e vivo qua da sei anni. La mia squadra è Alianza Lima, ma oggi sono qua per la nazionale. La sosterrò sempre e comunque, a prescindere dal risultato.” Sisi invece è a Milano da 20 anni, e lavora vendendo gadget peruviani, sia qui che ad altri eventi latini.

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Le seconde generazioni non sono da meno. “Siamo nati tutti in Italia,” precisa un gruppo di adolescenti intorno ai 16 anni, “ma ci sentiamo peruviani. È un onore vedere il nostro paese di origine finalmente ai mondiali, insieme a tutte le squadre forti del mondo!”

Rimango lì, a pensare a come sarebbe stata la mia infanzia/adolescenza se avessi visto anche solo mezza volta il Perù ai mondiali: non sarebbe cambiato nulla, ma me ne sarei ricordata a vita.

Ora: non entro nel merito delle eterne controversie riguardanti il mercato del calcio e i mondiali come sua estrema manifestazione capitalista, ma ci tenevo a precisare un paio di cose. Non è scontato che il proprio paese sia rappresentato in scala mondiale a eventi del genere.

Le comunità latine, a Milano, sono compatte e in costante celebrazione della propria diversità. Il tipo di solidarietà che trasuda è unico e abbraccia un po’ tutte le squadre latine in questo mondiale: non è un caso se la vittoria del Messico contro la Germania, ieri, sia stata acclamata un po’ da tutti, me compresa.

Festeggiare un mondiale non è l’unico modo per rendere omaggio al proprio paese/cultura di appartenenza, ma è sicuramente uno dei più intensi. Penso a mio cugino Dante che fra un paio di settimane sarà in Russia, con la sua famiglia, a vedere la partita contro l’Australia, e al video su Facebook di mia cugina Emily, in Austria, che balla un huayno in piazza assieme ad altri tifosi, con la sua pollera [gonna tipica peruviana].

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La diaspora è più viva che mai, ed è anche merito della blanquirroja.

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