Abbiamo chiesto agli Interpol di mettere in classifica i loro dischi
Fotografia promozionale.

FYI.

This story is over 5 years old.

Musica

Abbiamo chiesto agli Interpol di mettere in classifica i loro dischi

Dato che leggende dell'indie rock newyorkese hanno appena pubblicato un nuovo album, abbiamo chiesto al loro leader Paul Banks di valutare tutti quelli che ha scritto finora.

Rank Your Records è la serie di Noisey in cui chiediamo a musicisti di ripercorrere la loro carriera mettendo i propri album in ordine di preferenza. Era il lontano 2002 quando gli Interpol pubblicavano il loro disco d’esordio Turn On The Bright Lights guadagnandosi lo scettro di band indie più dark della scena statunitense. Agli inizi, per le sonorità riflessive e cupe dei loro brani, furono spesso paragonati ai Joy Division. Ma a 16 anni da quel primo album, gli Interpol—ora Paul Banks, Daniel Kessler e Sam Fogarino—sono cresciuti, cambiati, hanno esplorato nuove sonorità e nuovi processi creativi. Secondo Banks, il nuovo album racchiude tutta l’energia della band e la loro voglia di fare musica nuova. Uscito lo scorso 24 agosto, Marauder è il sesto album in studio per gli Interpol e il secondo da quando il bassista Carlos Dengler ha lasciato il gruppo durante le registrazioni del disco eponimo, nel 2010. "È stato il disco più semplice della nostra carriera", sentenzia Banks che userà questo metro di valutazione per valutare il resto della produzione della band, perché non sarebbe stato in grado di “comporre una lista in termini di migliore e peggior album.”

Pubblicità

“Penso che l’artista debba soffrire per la propria arte,” spiega, “però, una cosa sono le difficoltà di produzione e un’altra sono le energie sprecate inutilmente, ed è qui che siamo riusciti ad eliminare il superfluo. C’è meno tensione creativa nel gruppo, c’è una comunicazione migliore e un senso generale di buona volontà. Nessuno è mai strafatto di droga o altro. Cerchiamo di essere più sani e felici possibili, e questo ci permette di imparare da ogni esperienza lungo il percorso e di produrre un buon disco.”

Noisey: La prima cosa che mi ha colpito di questo disco è la copertina. Per qualche motivo, non mi sembrava una copertina da Interpol.
Paul Banks: E queste sono le cose che mi piacciono. Mi ricordo che andavo molto fiero dell'artwork al tempo, e lo sono ancora oggi. Cioè, sono dei leoni che abbattono una gazzella, non è semplicemente un allegro scatto naturalistico. Da artista, sono ben felice di sfidare i preconcetti. Le aspettative mi hanno sempre infastidito, come un maglione che ti pizzica sulla pelle. Per questo, quando qualcuno pensa di aver individuato la tua estetica, io ho voglio stravolgere tutto, “No, ti sbagli. Non puoi inquadrarci in questo schema.” Per questo il fatto di mettere in copertina degli animali—oltre all’arte della tassidermia, che aggiunge un livello in più alla cosa—mi sembrava appropriato. Non c’era un motivo preciso per distanziarci da quello che avevamo fatto fino ad allora, dal punto di vista estetico. Penso che ci andasse e basta. Ma sono d’accordo con te, era radicalmente diverso rispetto a quanto avevamo fatto graficamente fino a quel momento. È stato il primo e anche l’unico vostro disco prodotto da una major. Che impatto ha avuto sul processo creativo, sentivate maggiore pressione?
Sì, e penso sia per questo che lo metto al posto più basso della mia classifica. La musica nel disco non c’entra, è più che altro il processo di creazione e produzione. È stato molto stressante, e spiacevole per me. Ma non si trattava tanto della pressione di essere con una major, penso che la vera pressione ci fosse stata con il secondo disco, e arriveremo anche a quello. Avevamo trovato il nostro modo per sfuggire allo stress. Prima di Our Love To Admire avevo smesso di bere, quindi era il primo disco che scrivevo da sobrio, ed è stata un’esperienza che mi ha insegnato molto. Ho imparato a scrivere e a cercare ispirazione in un nuovo stato mentale. È stato così difficile per me—e penso che qui sia responsabile la major—è che abbiamo passato mesi e mesi in studio. A un certo punto ho lavorato 88 giorni su 90 per quel disco, che è una cosa davvero stupida. E questo solo per le parti di voce. E oggi non mi spiego cos’ho fatto per 88 giorni quando oggi me ne bastano cinque. Per questo è in questa posizione. Sono molto orgoglioso della musica, ma abbiamo lavorato davvero troppo, probabilmente ero io che mi mettevo fin troppi ostacoli e complicavo le cose, ma faceva parte del processo di crescita come autore. Oggi, quando i livelli di stress si alzano troppo, so cosa fare.”

Pubblicità

Questo è stato l’ultimo disco con Carlos. A volte penso alla battuta di Louis C.K. sul divorzio, quando dice che la gente si dispiace per il divorzio e lui risponde, “Amico, dovresti essere felice del divorzio e dispiacerti per i due anni prima—lì sì che faceva tutto schifo.” E Carlos non se n’era andato così, da un giorno all’altro. Era stato un processo molto lungo e tormentato. In fase di registrazione di quel disco eravamo una band piuttosto disfunzionale. C’era un’energia negativa. Da un lato, credo che i conflitti e le tensioni con Carlos ci rendessero una grande band, perché è proprio della incomprensioni che nascono le cose migliori. Allo stesso tempo, però, la sofferenza inutile durante il percorso era troppa, ed eravamo infelici; abbiamo sofferto troppo per questo disco. Ero piuttosto confuso sulla musica che stavamo facendo, anche se alla fine credo che quello sia uno dei nostri dischi migliori. Come per Our Love To Admire—alcuni dei miei pezzi preferiti di sempre sono in questi due dischi, quindi non sono in questa posizione perché la situazione era brutta, o il disco è brutto. Per esempio “The Undoing” e “Lights” sono tra le nostre migliori canzoni, forse proprio perché sono frutto di molto stress, tensione e incomprensioni. È stato molto difficile e faticoso produrre Interpol, ma alcuni pezzi sono davvero fantastici.

Gli album eponimi, se non sono quelli d’esordio, indicano in genere un momento di cambiamento. Sentivate la necessità di riaffermare un nuovo punto di vista dopo la dipartita di Carlos?
Mi pare che il nome fosse stato deciso prima che lui lasciasse la band, anche se se ne andò prima della fine delle registrazioni. Aveva fatto il suo, e lasciò la band. Mi piace l’idea che il disco metta in chiaro le cose, tipo, “Questi siamo noi, questo è quello che facciamo.” Non avevo idea che gli album d’esordio dovessero essere eponimi. Mi è semplicemente piaciuta l’idea in quel momento, “Mi piace l’idea di chiamarlo come la band.” E poi mi piaceva un sacco la grafica, la copertina del disco mi piace un sacco.

Pubblicità

L’anno prima avevi pubblicato il tuo primo lavoro solista a nome Julian Plenti. Questa esperienza ha influito su Interpol ?
Non penso che abbia influito. Penso che abbia avuto più impatto su El Pintor. Sono convinto che la mia esperienza al di fuori degli Interpol mi abbia aiutato ad affinare la tecnica, a sentirmi più saggio e a rendere il processo creativo più semplice. Quindi per quanto riguarda i testi, penso che abbia aiutato un po’, sì. Il fatto di dover scrivere i testi di un album extra, in più, mi ha fatto crescere e imparare molto, quindi forse mentre scrivevo i testi di Interpol ero già migliorato un po’, ma penso che il disco solista abbia davvero dato i suoi frutti nel momento in cui ho iniziato a suonare il basso dopo quel disco.

Com’è stato iniziare a suonare il basso per questo album?
Nel 2014 avevo già pubblicato due album solisti, quindi avevo già suonato il basso in altri due dischi interi. E poi, sai, il basso è solo una chitarra con quattro corde. Carlos è sempre stato un chitarrista, è passato al basso quando è entrato negli Interpol. E quindi in un certo senso, abbiamo mantenuto la nostra tradizione, perché i chitarristi suonano il basso in un certo modo, e i bassisti suonano il basso in un altro modo. Io non suono il basso come Carlos, suono il basso come un chitarrista, e così c’è una sorta di continuità.

Dopo che Carlos se n’è andato, fare il disco è stato più semplice? C’erano meno tensioni?
La tensione c’era sempre. Siamo comunque dei tizi strani, con dinamiche strane nel gruppo, dopo tutti questi anni. E poi c’è sempre il problema dell’ego, quello rimane, e poi credo ci spaventasse l’idea di scoprire se saremmo stati una buona band senza Carlos, era un componente fondamentale. Dovevamo affrontare la sfida, ma avevamo anche una buona dose di energia positiva. Anche prima che Sam si unisse alla band per le sessioni di scrittura, Daniel mi presentava le tracce, io avevo il basso e provavo. Così è nata “Anywhere”, al basso, alla prima sessione di prove. Ho scritto la traccia di basso e un accenno di melodia per la voce alla prima prova insieme a Daniel, e lì non avevamo idea di chi avrebbe suonato il basso, se io o qualcun altro. Poi ci siamo accorti che dovevamo a iniziare a scrivere come avevamo sempre fatto, con Daniel alla chitarra, Carlos al basso e poi io che mi inserivo con l’altra chitarra e la voce. Ma il basso era sempre il primo componente a entrare in gioco, insieme alla batteria. Così abbiamo mantenuto la tradizione durante la prima sessione di prove, “Mi sembra abbastanza figo, magari funziona davvero!” Prima di iniziare El Pintor, eravamo preoccupati per la riuscita di questa nuova formazione, ma abbiamo cambiato idea quasi subito. Tutti avevamo lo stesso spirito e lo stesso scopo quando abbiamo fatto questo disco. Ci eravamo parecchio allontanati con Interpol, e qui l’intenzione era “Proviamo solo a fare del rock.” Penso sia stata una buona ripartenza per noi.

Pubblicità

In genere non do molto peso ai titoli dei dischi, ma questo non solo è l’anagramma di Interpol, ma significa anche Il pittore. Avevi questa idea in mente fin dall’inizio? Ti ha ispirato nella scrittura delle canzoni?
No, l’idea è venuta dopo. Ma credo che funzioni per tanti motivi diversi. Mi piace il fatto che suggerisca una riconfigurazione, con l’anagramma, che è esattamente quello che è accaduto alla band. Penso funzionasse bene anche con la grafica che avevamo. C’era la simmetria delle mani e il nome in qualche modo si collega perfettamente con quell’immagine. E poi, forse c’è qualcuno che si cela tra le righe di tutte le canzoni, come un artista, un pittore.

Questo è il primo disco, quello che vi ha lanciato e definito come una band piuttosto cupa. Eppure c’è anche dell’umorismo nel disco. Pensi che la gente non l’abbia colto?
Be’, secondo me siamo effettivamente una band dark. Un po’ cupa, ma sicuramente c’è anche umorismo nel disco. C’è la dimensione dell’assurdo, ci sono tante altre cose. Per come la vedo io, i fan occasionali pensano che siamo una band tetra e che si prende molto sul serio, mentre i nostri veri fan, quelli che ascoltano i testi, sicuramente si saranno detti “Ha veramente detto ‘Vediamo cosa fare con questo prosciutto’ Ma che diavolo?” Penso che chi ci segue davvero lo capisca ma, a parte questo, ci sono cose peggiori che l’essere definiti una band tetra e malinconica. Mi va bene così. Il motivo per cui questo disco è ai primi posti è la facilità con cui l’abbiamo scritto. Abbiamo avuto anni per scrivere questi pezzi. Il primo disco è quello a cui cui puoi dedicare più tempo. Ci eravamo formati nel 1997, quindi cinque anni prima, e per circa 4 anni avevamo fatto concerti e provato quel materiale. Quindi in studio tutto è filato liscio, e poi c’era l’emozione del primo disco. È stato davvero un bel periodo.

Pubblicità

Lo scorso anno avete fatto un tour per i 15 anni del disco. Cosa pensi dell’album oggi? Ti riconosci in quei pezzi? Ti ricordi chi eri quando li hai scritti?
Certo che mi ricordo chi ero. Mi ricordo il momento esatto in cui ho scritto molti dei testi. Riesco a rivedermi ancora sulla sedia di quel bar quando ho scritto “Stella Was a Diver and She Was Always Down” oppure quando ero a Tokyo e ho scritto “Obstacle 1” mentre facevo visita a mio padre. Mi ricordo tutto, riesco a rivivere alcuni di quei momenti e mi riconosco nell’autore che ero all’epoca, certo. Dal punto di vista delle sonorità, il mio stile vocale è cambiato da allora. Ci sono dei pezzi in cui sento la mia voce com’è ora e altri in cui ancora non sapevo proprio cantare. Non consideravo nemmeno la voce come uno strumento. Ero solo quello che diceva le parole delle canzoni. Quando abbiamo iniziato a scrivere il terzo disco [Our Love To Admire], ho dovuto prendere qualche lezione di canto e lì mi sono reso conto, “Perché cazzo ho scritto cose che non sono in grado di cantare?” Quindi quando risento questo disco, mi accorgo di come cantavo prima di rendermi conto cosa volesse dire davvero cantare. Quella parte di me mi sembra diversa da oggi.

Ti aspettavi che questo disco avrebbe avuto l’impatto enorme che ha avuto?
Quando fai questo tipo di lavoro, dentro di te ci speri sempre, sogni. E così io avevo sognato che sarebbe stato un grande disco, e credevo che gli ingredienti, escluso me, c’erano tutti per fare una band pazzesca, e io ero ben determinato nel cercare di essere il miglior artista possibile. Ho sempre creduto che i ragazzi con cui lavoravo avessero la stoffa per creare qualcosa che rimanesse nella storia. Quanto a me, speravo solo che sarei stato all’altezza.

Come accennavo mentre parlavo di Our Love To Admire, ci faceva un sacco paura l'idea che avremmo potuto sbagliare il nostro secondo album. E il motivo per cui metto questo disco al primo posto, è perché credo che avessimo trovato l'antidoto perfetto al rischio-crollo. Quando abbiamo finito il primo disco avevamo già scritto tantissime canzoni. Quando è uscito Bright Lights, molte delle canzoni di Antics erano già pronte, le avevamo scritte nella stessa fase. Alcune di queste erano migliorate nel tempo, e aspettavano solo di essere ultimate per essere inserite in Antics. E poi, dopo la prima fase creativa da artista, ho approfondito molto con Antics. La mia missione era evitare di sprofondare nel baratro e così ho dato anima e corpo per questo disco. Mi sembrava la cosa giusta da fare, l’unica che potessi fare in quel momento. La gente si aspettava che sbagliassimo qualcosa, ma io ero sicuro che anche il secondo album sarebbe stato un buon lavoro. C’erano state delle discussioni—Carlos aveva passato un brutto periodo durante le registrazioni del primo album, e avevamo riflettuto se prenderci una pausa dopo Bright Lights, oppure buttarci a capofitto con il secondo. Penso che alla fine buttarsi sia stata la scelta giusta, cavalcare l’onda, sfruttare l’entusiasmo del pubblico ma anche la nostra stessa carica, “Siamo allineati ora e tutto fila perfettamente in tutti i cilindri. Sfruttiamo il momento e finiamo l’opera.” E così abbiamo messo insieme il secondo disco, dal primo. È così che lo vedo io—come una B-side del primo, per questo non potevamo aspettare. E poi, se avessimo fatto un buon lavoro con il secondo disco, questo avrebbe rafforzato la nostra reputazione e non saremmo più potuti tornare indietro. C’era molta pressione, ma tutto ha funzionato per il meglio.

È interessante scoprire come è stato concepito. Suona molto diverso dal primo disco, ma allo stesso tempo sembra il risvolto della medaglia, come se fosse legato al primo in qualche modo. Ma è anche più soft. C’è una certa estetica in Bright Lights che non è presente in questo. Stavate intenzionalmente cercando di non far suonare gli Interpol come gli Interpol?
Forse. Non posso dire che io aspirassi a quello, forse era Carlos ad avere un’idea simile per il secondo album. Le sue composizioni divennero un po’ più sofisticate con basso e tastiere, ma personalmente non ricordo di aver deciso di cambiare rotta. L’idea era di approfondire ancora di più quello che avevamo fatto.

L’attacco di “Next Exit” è davvero diverso. Non te lo aspetteresti mai come apertura del secondo disco, dopo aver sentito Bright Lights
Questo è un ottimo punto. E tutti noi eravamo concordi, “Non penso che le persone sappiano che noi siamo anche questo, questo mood un po’ più leggero, all’americana.” Ma allo stesso tempo, lo sentivamo molto vicino a noi e autentico. Inoltre, all’epoca, pensavamo che la track iniziale fosse fondamentale e con questa traccia volevamo mettere in chiaro le cose, questo secondo disco è diverso dal primo, per far capire alla gente che non volevamo rinchiuderci in una piccola scatola. Non volevamo farlo, volevamo rimanere fedeli a noi stessi, come artisti. Questo articolo è apparso originariamente su Noisey US. Segui Noisey su Instagram e Facebook.