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Tecnologia

No, il giornalismo di qualità non si salva con una mancia da Facebook e Google

Il voto del 12 settembre si avvicina. Facciamo chiarezza prima che sia troppo tardi.
Immagine: Shutterstock

Negli ultimi giorni sta facendo il giro degli addetti ai lavori del giornalismo italiano una lettera di Sammy Ketz che è stata pubblicata anche da La Repubblica.

Ketz è un giornalista francese e corrispondente per AFP da Baghdad e ha scritto un appello al Parlamento Europeo perché il 12 settembre a Strasburgo voti a favore della riforma europea del copyright che riconosce nuovi diritti per gli editori. La stessa riforma che all'inizio di quest'estate avevamo ampiamente discusso, con particolare attenzione ai famigerati articoli 11 e 13 che rispettivamente prevedevano uno l'introduzione di un equo compenso per gli editori online da parte delle piattaforme che condividono link a fonti di informazione, il secondo la creazione di un sistema di filtri per i contenuti in upload pensato per proteggere il copyright.

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Nella lettera, Ketz lamenta come negli anni sia sceso il numero di corrispondenti esteri dei giornali, e di come questo cambiamento sia dovuto alla crisi economica della stampa e a ai crescenti costi necessari per produrre reportage, soprattutto in zone di guerra. Il ragionamento è facile, spiega Ketz, “È noto che Facebook e Google non assumono giornalisti e non producono contenuti editoriali ma vengono pagati per la pubblicità legata ai contenuti prodotti dai giornalisti. […] Non possiamo permettere che questo saccheggio continui ad impoverire i media indebolendo il reddito a cui hanno diritto.”

Nelle ultime settimane la lettera di Ketz è stata ripresa da numerose personalità di rilievo del giornalismo italiano: Luca Sofri de Il Post ha espresso dei dubbi sulle tesi di Ketz, Christian Rocca su La Stampa ha rilanciato la tesi del complotto dei grandi della Silicon Valley ai danni dell'Unione Europea, Federico Ferrazza di Wired Italia ha invitato ad un approccio meno conservatore all'intera questione e Guido Scorza, su Il Fatto Quotidiano, mette in discussione il concetto originale di "diritto d'autore" che viene presentato nella lettera di Ketz.

La lettera di Ketz e il dibattito sulla riforma europea del copyright arrivano in un momento in cui il rapporto tra giornalismo e l'economia che lo mette in moto si trova ad un momento di tensione massima, tra grandi realtà sfinite dal giro di vite dei social network e nuove realtà che si stanno affidando a nuovi modelli di business. Benché la crisi dei giornali sia molto più che evidente, il contenuto di questa lettera non è corretto come non è corretto il modo in cui viene riportata.

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Nessuno dice che il lavoro svolto dai giornalisti debba essere usato gratuitamente e, se esistono piattaforme di qualsiasi tipo — dall'aggregatore-startup a Google News — che ospitano articoli per intero senza che ci siano accordi commerciali e di licenza dietro e senza che gli “snippet” rimandino al sito del giornale, queste devono essere fermate perché colte a lavorare nell'illegalità. Ma che si dica che è doveroso che queste piattaforme paghino perché ospitano link a degli articoli non ha nessuna base giuridica né tanto meno di buon senso.

Benché la crisi dei giornali sia molto più che evidente, il contenuto di questa lettera non è corretto come non è corretto il modo in cui viene riportata.

Partiamo dalle basi: gli snippet sono quegli estratti di articolo fatti da immagine, titolo e due righe di testo che si generano quando pubblichiamo un link sui social e che sono gli stessi editori a rendere appetibili perché poi il lettore vada a leggere l’articolo.

“Si prenda il caso dei cosiddetti «snippet». Molti aggregatori cosa fanno? Mandano in giro i loro spyder (sic), ragni elettronici, che prelevano dai siti di informazione titoli, sommari, foto e qualche rigo di testo, per trasferirli su proprie piattaforme," si legge sul Corriere della Sera, "Anche qui in molti casi senza accordi o pagamenti con chi ha prodotto quelle informazioni.” Quello che non viene detto, forse per ignoranza, è che uno studio della Commissione Europea che era stato nascosto mostra come una maggior cooperazione con le piattaforme che aggregano news sarebbe auspicabile per il bene degli editori stessi perché questi aumentano il traffico, logicamente, verso le testate.

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Ma torniamo alla lettera di Ketz, e del perché prima di parlare del merito della riforma dovremmo farci un esame di coscienza.

1. Ketz non è un giurista, è un giornalista di guerra, e sembrerebbe non aver studiato la norma né tanto meno aver seguito il dibattito che va avanti da almeno due anni:

“Ero seduto con il fotografo, il videomaker e l'autista di AFP in un ristorante prima di tornare a Baghdad, quando ho letto un articolo sui dibattiti europei dei “diritti connessi”. Questo articolo ha attirato la mia attenzione.”

La sua opinione nascerebbe da un articolo che ha letto su un giornale che, soprattutto se parliamo di carta stampata, sarà probabilmente di parte.

2. Non viene spiegato quale sia il nesso logico diretto tra la riforma e maggiori introiti per i giornalisti. E non viene spiegato perché non c’è.

“Dobbiamo smettere di credere alla menzogna diffusa da Google e Facebook che la direttiva sui 'diritti connessi' minaccerebbe l’accesso ad Internet gratis. No, Il libero accesso ad Internet durerà perché i giganti della rete, che attualmente usano i contenuti editoriali gratuitamente, possono rimborsare i media senza chiedere ai consumatori di pagare alcunché."

Peccato che sia proprio il contrario. In Spagna hanno applicato una legge simile e Google invece di pagare ha chiuso Google News Spain causando un calo del traffico verso gli stessi giornali che tanto avevano voluto la norma.

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3. Prima che Wikipedia, alla vigilia del voto del 5 luglio al Parlamento Europeo, scioperasse in segno di protesta, nessun giornale della carta stampata si era sognato di informare l’opinione pubblica che ci fosse un dibattito su questa riforma. Dibattito fondamentale perché qui parliamo di possibili effetti per i lettori e la loro libertà di informarsi.

4. Dopo il voto del 5 luglio che ha bocciato momentaneamente il testo, La Repubblica imputava il risultato ai milioni spesi dalle big tech che hanno vinto con “fake news e pressioni”. Scriveva poi, senza riportare fonti e basando tutto sul sentito dire,

“Se si aggiungono le minacce di morte ai singoli deputati, la pressione attraverso centinaia di mail e telefonate di elettori contattati grazie ai big data dai lobbisti a stelle strisce e convinti a contattare i parlamentari per convincerli a non votare, allora il risultato del voto di Strasburgo è di facile comprensione. Si parla anche di figli dei deputati convinti a far cambiare l’orientamento di voto del genitore”.

Anche i giornali (giustamente) fanno lobby a Bruxelles. Per trasparenza verso il lettore dovrebbero dire che sono parte in causa della discussione e si sa che quando si è parte in causa lì c’è un possibile conflitto di interessi che può inquinare la oggettività nel fornire informazioni al lettore.

5. Non si capisce perché quando gli interessi dei cittadini possono coincidere con quelli delle big tech allora ci deve essere qualcosa sotto oppure i cittadini sono stati ingannati dalle “fake news.” Mi sembra che non più di tre mesi fa il GDPR (Regolamento Europeo per la Protezione dei Dati), che di fatto ha creato non pochi problemi ai business model di Facebook e Google, sia stato ben accolto da cittadini, associazioni dei consumatori e società civile.

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Forse che quel regolamento aveva un senso e questa direttiva non ce l’ha? Perché altrimenti non si capisce perché una volta le NGO sono vendute e la volta dopo no. Perché molti hanno sostenuto che poiché Google e Facebook finanziano alcune NGO che si occupano di diritti online, allora quest'ultime sono pilotate. Se fosse vero non si capisce perché queste non abbiano lavorato per abolire il GDPR ma anzi abbiano chiesto più rigore di quello previsto nel testo finale. Dovremmo forse pensare lo stesso quando i quotidiani nostrani prendono finanziamenti da progetti di Google e Facebook per finanziare il giornalismo innovativo? Io non lo penso.

6. I giornali dicono che il diritto al copyright e la sua monetizzazione servono a evitare che i contenuti creativi siano utilizzati gratuitamente da terzi. Quando i due quotidiani principali, La Repubblica e Corriere, caricano video presi da Facebook e Youtube sulle loro piattaforme video, spesso mettendoci anche la pubblicità dentro, esattamente, in che modo finanziano i creativi che li hanno creati?

Motherboard ne aveva parlato qui riportando le lamentele degli Youtuber che, non potendo permettersi grandi battaglie legali, non potevano portare in giudizio i grossi editori come ha fatto Mediaset vincendo in primo e secondo grado. Lì con la scusa del diritto di cronaca, si è monetizzato gratuitamente per anni. Diritto di cronaca che, pur non essendoci trattandosi di video di intrattenimento, poteva comunque essere rispettato “incorporando” i video dai social e garantendo così visualizzazioni e notorietà ai loro creatori.

Aspettiamo con ansia che altrettante energie siano spese dai quotidiani per trovare una soluzione vera alla crisi del giornalismo, e non per promuovere una riforma che invece di innovare ed essere al passo coi tempi usa regole vecchie per un mondo che non c’è più.

Segui Vincenzo su Twitter: @VincenzoTiani