Come fa a sopravvivere una gastronomia vegana nella città del vitello tonnato
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Cibo

Come fa a sopravvivere una gastronomia vegana nella città del vitello tonnato

A Torino abbiamo scoperto sapori maschi, insalate russe e una tempra forgiata dalle noci del Brasile. Tutto rigorosamente vegano.

Il cibo buono è buono, il cibo cattivo è cattivo. Nel mio mondo ideale il cibo viene valutato come più o meno gustoso dopo averlo assaggiato e senza stereotipi di genere: nel mondo reale, invece, il burro è un maschio di cinquant’anni che ti spiega la vita, e la cucina vegana si scusa ogni volta se ha usato l’olio e non lo strutto. La nostra identità culinaria si forma in maniera diversa a seconda di dove nasciamo, in Italia o altrove, al sud o al nord, in campagna o in città, fino a trasformare i nostri giudizi gastronomici e influenzare il modo di conoscere il cibo. Spesso ci impedisce di vederlo per quel che è: cibo, appunto, buono o cattivo. Sulle preparazioni e gli ingredienti capita, quindi, di orientarsi per stereotipi: il fritto è di chi si gode la vita, la pasta è virile, i dolci sono femminili ma la pasticceria è maschile, il maiale è di chi vuole i muscoli, il cioccolato è per i giorni che precedono le mestruazioni. Soprattutto: il carnivoro (moderato e consapevole, suvvia) è felice, il vegano è avvizzito (e non si gode la vita, sia mai).

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Gastronomia Vegana

Queste sono le riflessioni con cui mi sono approcciata alla Gastronomia Vegana di Torino, un locale vegano nel quartiere di Borgo San Paolo (avete presente il centro? Ecco, lontano da qui), per chiedermi come ha fatto a nascere, difendersi e prosperare un posto così nella città che in un solo pasto serve: pasta ripiena di vitello e maiale, lingua con salsa verde, vitello tonnato, i tajarin preparati con 40 uova con ragù di coniglio. La risposta l’ho trovata parlando con Raffaella Goria, che questo posto lo ha aperto 18 anni fa e lo ha fatto in Via Dante di Nanni, una strada che ha un mercato in decadenza e poche velleità turistiche: 18 anni qui vogliono forse dire che la cucina vegana non ha genere nella periferia di Torino? E se sì, quali sono le condizioni per cui è stato possibile?

Versione breve: perché le persone vengano a mangiare da te devi cucinare bene, e se vuoi sopravvivere nel quartiere devi radicarti e far crescere pure tu quel quartiere. Versione lunga: la cucina di Raffaella non è sempre stata vegana.

Raffaella Goria

Nel 2000, quando ha aperto, l’insegna recitava “Gastronomia vegetariana”: all’inizio usava le uova, poi dal 2006 è diventata 100% vegana.

Venire qui è come andare in una trattoria: tanto olio, sapori gustosi, nulla che sia leggero o punitivo. Sono tutti sapori riconoscibili: d’altronde “la cucina vegana fondamentalmente è fatta di cereali e verdure, legumi e semi oleosi” mi dice. Le sue parole dicono l’ovvio, ma credo che per chi ignora - a volte o per principio - cosa sia una cucina diversa dalla sua ci voglia un attimo a vedere donne dai capelli rossi e pipistrelli nella luna piena che svolazzano sopra il piatto di tempeh. Uno dei suoi piatti più incredibili è l’insalata russa: quando le chiedi la ricetta Raffaella ti risponde con un ghigno crudele, non te la darà mai, e ha ragione perché è buonissima. Ogni verdura spicca per sapore, e il gusto è rotondo, con una nota acidula: non stanca, c’è solo da riempirsi un piatto dietro l'altro.

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Il pranzo alla Gastronomia Vegana

Nella Gastronomia Vegana – che per i piatti che propone potrebbe chiamarsi Trattoria: ci sono anche la lingua in carpione e il fegato alla veneziana! Col seitan, certo, ma buoni buoni – ci sono una decina di tavoli e un banco frigo dove vengono esposti i piatti del giorno in grandi scodelle di coccio. Il cibo viene venduto a peso, e il costo medio di un pranzo gira intorno ai 7-8 euro. Non è caro, le dico io che vivo a Torino da sei anni ma pago ancora lo scotto di sei anni di residenza milanese – leggi: pagare 15€ per un pranzo con un panino suicida è accettabile, basta che siano rapidi a servirlo.

Il riso del giorno

Gli sprechi vengono ridotti al minimo e non si utilizzano alimenti industriali a meno che non sia strettamente necessario: seitan, tempeh o tofu compaiono in 1 piatto su 10, e qui non vedrete mai l’affettato al pomodoro. Esiste?, le chiedo stupita. Sì, insieme a mille preparazioni che scimmiottano gli alimenti convenzionali, in un mercato vegano che ormai è diventato industriale. Chi viene alla Gastronomia Vegana di Via Dante di Nanni? Una clientela non vegana, che ama mangiare bene, la prima volta rimane stupita dalla bontà dei piatti e poi diventa fedele. Quando sono arrivata, il giorno in cui ho parlato con Raffaella, al tavolo a fianco al mio c’erano dei colleghi che hanno passato tutto il pranzo a parlare della migliore crema chantilly della città: uno di loro, il mio nuovo eroe, ha proposto di aprire una cannoleria. Non proprio un immaginario healthy e punitivo, per dire.

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Via Dante di Nanni

Esco fuori dalla Gastronomia per rispondere a una telefonata e non posso non notare la desolazione: c’è un mercato con pochi banchi, un’area pedonale senza panchine o alberi. Siamo a pochi passi dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, qui ci sono alcune installazioni artistiche, il cinema è a pochi passi, ma si sa: in uno stesso quartiere convivono popolazioni, storie e ambizioni diverse. E così via Dante di Nanni risulta un po’ stanca e polverosa.

"Il burro è un maschio di cinquant’anni che ti spiega la vita, e la cucina vegana si scusa ogni volta se ha usato l’olio e non lo strutto"

Raffaella qui c’è nata, ed è un qui che difende: è une delle promotrici dell’Associazione Popolare via Di Nanni, un’associazione di cittadini che promuove attività per cambiare le dinamiche e il carattere della via. Dal guerrilla gardening a mozioni per compattare il mercato del quartiere, Raffaella e gli altri cercano di rivitalizzare uno spazio senza aspettare che altri lo facciano per loro. Di nuovo la tenacia: forse sono le noci del Brasile che temprano il carattere.

Via Dante di Nanni

Finito il pranzo, esco e non penso: dai, ho mangiato bene in un locale vegano. Ma solo: ho mangiato bene, assaggiando dei piatti che non sono una derivazione o una costola della Cucina Italiana Vera ma che sono finiti e conclusi, con le loro personalità. Dei piatti che non intaccano la mascolinità del vitello tonnato perché non si presentano come piatti di una minoranza: 18 anni – da quando cioè la Gastronomia ha aperto in Via Dante di Nanni - sono un tempo sufficiente per modificare il giudizio a partire dai parametri con cui quel giudizio si forma. Grazie alle lotte di genere, oggi è più raro essere letti come donna o come uomo, prima di essere conosciuti. E forse dovremmo dire grazie a questi posti di quartiere, che resistono resistono resistono, e che ci fanno leggere la cucina vegana per quel che è. Un insieme di ricette che sono buone o meno a seconda di chi le cucina, tutto qui.

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