Mentre osserva nervosamente fuori dalla finestra di una delle palafitte di legno che dominano Riosucio, Quibea ripensa al momento in cui è fuggita in quella poverissima città, lontana circa sette ore dal suo paesino.
“Avevo una terra laggiù, una bellissima terra,” dice la leader della comunità indigena, mentre la sua voce lieve comincia ad essere spezzata dall’emozione. “Ma non appena ho sentito il boom-boom-boom dell’esercito, l’ho abbandonata. Quel giorno ho perso mio figlio.”
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Il bombardamento militare che uccise suo figlio risale a 19 anni fa. Era parte di un’offensiva contro le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (le FARC), gruppo armato formatosi nel 1964 con la promessa di una rivoluzione socialista.
Erano giorni cupi nel Chocò, uno dei 32 distretti regionali della Colombia. Lo sforzo del governo per eliminare il più grande gruppo ribelle del paese veniva complicato e intensificato da una federazione di squadroni della morte alleati con lo stato, le Forze Unite di Autodifesa della Colombia, noti anche come AUC.
Si stima che la guerra civile colombiana, durata mezzo secolo, abbia fatto 220mila morti e 6,9 milioni di sfollati — la migrazione interna più grande del mondo, secondo lo United Nations High Commissioner for Refugees. Chocò, che si trova proprio a sud della frontiera con Panama, è una delle regioni in cui le sofferenze sono state peggiori.
Quel dolore, in teoria, dovrebbe estinguersi per sempre dopo che lunedì le FARC e il governo hanno siglato un accordo formale per la cessazione dei conflitti. L’accordo dovrebbe essere sottoposto a voto popolare il 2 ottobre: gli ultimi sondaggi suggeriscono che la ratifica verrà votata quasi all’unanimità.
Ma mentre la prospettiva della pace viene celebrata con feste per le strade nella capitale Bogotà e in entusiastici discorsi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, la gente di Riosucio appare chiaramente tiepida, quasi preoccupata.
“Per un gruppo che se ne va, ce n’è un altro che arriva,” si lamenta Quibea.
Il suo pessimismo è parzialmente basato sulla posizione strategica della lussureggiante regione, un bassopiano dominato dall’ampio fiume Atrato e dai suoi tortuosi affluenti che connettono le isolate comunità indigene locali — per lo più appartenenti alla tribù nomade degli Embera, che vive lungo i corsi d’acqua tra Chocò e Panama.
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Bajo Trato, il comune che circonda Riosucio nel nord del Chocò, è stato per lungo tempo il territorio ideale per i trafficanti della cocaina colombiana grazie al suo accesso al Mar dei Caraibi, all’Oceano Pacifico e al confine di terra con Panama.
Le FARC hanno dominato il territorio negli ultimi decenni, bloccando altri gruppi armati che cercavano di farsi strada con la forza, almeno in parte per la sua importanza per i traffici. Ma l’arrivo imminente della pace, che era iniziata con l’accelerazione dei negoziati nel corso dello scorso anno, ha innescato un’ondata di scontri — dato che questi gruppi aspettano soltanto di pretendere il territorio subito dopo che le FARC avranno deposto le armi.
I gruppi pronti a fare il salto includono le Forze Gaitaniste di Autodifesa della Colombia (AGC), un soprannome apparentemente studiato per conferire solennità a quella che è chiaramente un’organizzazione criminale. Il governo si riferisce a loro come Urabeños, dalla zona di Urabà, dove si trova Riosucio, o anche Clan Úsuga, dal nome del più noto leader della gang. Secondo gli esperti, questi nomi aiutano il governo a smitizzare le origini del gruppo.
Anche l’Esercito di Liberazione Nazionale, il secondo maggiore gruppo di guerriglia della Colombia, di recente ha cominciato a muoversi nella regione: come le FARC, il gruppo – noto come ELN – ha anche potuto contare sul commercio di droga per finanziare la sua battaglia ideologica.
Tra marzo e maggio di quest’anno, nella zona, almeno 6mila persone hanno abbandonato la propria casa per scappare dagli scontri tra questi gruppi criminali — secondo quanto riportato in un briefing della commissione rifugiati dell’ONU. Altri 7mila si sono visti ridurre di molto la libertà di movimento, spiega il report.
Molti dei rifugiati dalle violenze recenti hanno seguito le orme degli sfollati del periodo di maggiore intensità del conflitto FARC-governo. E sono finiti a Riosucio.
“La pace non sembrerà molto diversa dalla guerra, qui,” spiega un leader della comunità indigena nel suo ufficio pericolante che dà sul fiume, dove un gruppo di bambini sta facendo un bagno nell’acqua sudicia, mentre le loro risa contrastano con la conversazione che prosegue. “Siamo già stati abbandonati, e quando i paramilitari avrebbero dovuto essere smantellati, nulla è cambiato tranne la loro uniforme.”
‘La pace non sembrerà molto diversa dalla guerra, qui.’
German Senna Pico era un comandante di uno degli squadroni della morte alleati con lo stato che operava lungo la costa caraibica in aree non lontane dagli argini ricoperti dai rifiuti del Riosucio. Ha lasciato il gruppo armato nel 2006, quando un accordo garantì agli ex-paramilitari pene ridotte in cambio di informazioni sulle atrocità che avevano commesso. Parla di quelli che non si sono smobilitati come di traditori della loro causa originaria anti-ribellione.
“Non c’è un solo osso anti-comunista nel loro corpo; sono trafficanti di droga e nient’altro,” dice a VICE News in un’intervista nella sua cella di prigione a Bogotà. “Purtroppo usano le tattiche che hanno imparato da noi contro i ribelli per affermare il proprio potere.”
Tattiche che includono operazioni atte a infondere paura nelle comunità locali, per tenerle docili.
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Gli AGC, la branca dei paramilitari, ha scarabocchiato il proprio nome di battaglia sugli edifici di Riosucio. I locali generalmente chiedono non vengano riportati sulla stampa, e molti sono talmente spaventati da dover riflettere anche sul parlare in forma anonima. I capi della comunità accettano di fare incontri solo in forma segreta e spesso fanno piani all’ultimo minuto. È troppo rischioso, per coloro che si sono dovuti trasferire di recente, farsi vedere a parlare con un reporter — proseguono.
“Se parli sei un sapo,” sussurra Quibea, utilizzando la parola spagnola per ‘rospo’, che significa anche ‘ratto’ o ‘spia’. “Ti uccideranno per questo,” ha aggiunto, insistendo sul fatto che dovesse essere riportato solo il suo nome di battesimo.
L’AGC riesce a controllare la città di 28mila abitanti, grazie anche alla vulnerabilità che deriva dall’estrema povertà in cui versa la cittadina.
Riosucio non ha né strade asfaltate, né acqua potabile, né strutture sanitarie. La copertura dei cellulari è disomogenea e la città si allagata ogni volta che il fiume va in piena, costringendo i residenti ad appoggiare ponti improvvisati tra le case e i negozi. Non c’è una gestione regolare dei rifiuti, quindi i residenti scaricano la spazzatura nel fiume. La puzza si spande attraverso la città quando quando viene trascinata sulla riva.
“In Colombia non c’è nessun altro posto che sia stato così colpito dal conflitto, ma il governo ci ha abbandonato,” dice Ana Rosalba Mosquera. La donna non ha problemi a usare il proprio nome, ma evita accuratamente di menzionare i paramilitari. Mosquera è arrivata in città 15 anni fa quando un gruppo armato ha attaccato la sua abitazione e ucciso la sorella.
“La gente arriva qui senza niente. Sanno solo come coltivare i campi, e quindi non riescono a trovare lavoro,” spiega mentre prova a scacciare l’afa che riempie la sua piccola farmacia. “Non c’è acqua potabile, un ospedale o un’istruzione: lo stato è completamente assente.”
Anche la costante presenza di gommoni dell’esercito sul fiume che costeggia Riouscio contribuisce ad alimentare le voci secondo cui gli ex paramilitari avrebbero ancora forti legami con l’apparato militare. “Viaggiano sulle stesse barche. Li vediamo ogni giorno,” racconta uno studente che, mentre parla si copre la bocca e si guarda alle spalle per paura che qualcuno possa sentirlo.
“Lottano contro i gruppi di ribelli e minacciano le comunità di civili,” dice il ragazzo riferendosi alla gang AGC. “Come si fa a dire che quella non è una struttura paramilitare?” Alcuni suoi parenti vivono in un villaggio vicino al fiume dove la AGC farebbe ancora sentire la propria presenza. Quando l’AGC occupa un villaggio – sostiene lo studente – l’esercito blocca la circolazione fluviale per aiutarli.
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Cesar Mesa, il funzionario dell’ONU per i rifugiati della regione, dice che per raggiungere i villaggi bisogna passare dai checkpoint dell’esercito. Quindi, a detta sua, “avrebbe senso” sospettare che l’AGC possa contare sul supporto delle forze militari.
Lo scorso novembre l’ufficio dell’ONU ha notato per la prima volta che l’AGC si stava insediando a Bajo Atrato. Il funzionario spiega che i combattenti dell’ELN sono arrivati più o meno in contemporanea. Da queste parti – dice Mesa – erano più di 30 anni che non si vedevano membri dell’ELN.
Oltre a vivere con il terrore di poter finire in una sparatoria, le comunità locali sono costrette a rispettare il coprifuoco imposto dalle gang armate e le loro richieste estorsive.
“Queste persone sono già state sfollate cinque o sei volte [negli ultimi decenni],” dice Mesa riferendosi all’ultima onda di persone che hanno abbandonato le proprie case. “È gente costretta a vivere a Riosucio, ma che ha un rapporto diretto con la propria terra di origine. Si tratta di una terra ancestrale protetta dalla legge: abitare in città è un compromesso difficile per loro da accettare, quindi tornano ogni volta che possono, prima di venire cacciati nuovamente.”
Tra le clausole dell’accordo di pace firmato lunedì a Cartagena ci sono la trasformazione delle FARC in un partito politico e il finanziamento di programmi che aiutino gli sfollati a fare ritorno nelle proprie abitazioni. A Riosucio, però, molti si aspettano un fallimento simile a quello della legge che nel 2011 avrebbe dovuto aiutare le vittime, ma che in realtà si è dimostrata inutile.
Il prete gesuita Francisco Rodriguez ha evidenziato lo scetticismo dopo aver accompagnato i leader di Riosucio a un incontro con gli ufficiali del governo nella città di Apartadó.
“Questi incontri hanno sempre successo,” commenta il prete dopo il colloquio che aveva lo scopo di spingere il governo a garantire maggiori risorse per Riosucio. “Poi, però, l’ufficio di Apartadó invia i documenti a Bogotá e tutto si perde.”
Quibea ha un solo desiderio: tornare nel paese che è stata costretta ad abbandonare nel 1997. Ma se anche questo fosse possibile – aggiunge la donna – il perdurare del conflitto la obbligherebbe ad andarsene di nuovo o le causerebbe la morte per mancanza di assistenza medica.
“È un circolo vizioso,” dice Quibea. “È per questo motivo che la gente continua ad arrivare a Riosucio.”
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