Cosa resta. È sempre questo l’interrogativo che sembra muovere Adriano Zanni, instancabile esploratore del paesaggio che cambia, raccoglitore paziente di cocci di mondi che non ci sono più, oppure che esistono ancora e fatichiamo a notare, a considerare importanti, significativi.
Una mole di lavoro enorme, un’opera di ricerca quasi giornaliera, che a noi arriva distillata, in tutta la sua bellezza minimale, dove ogni ombra, silenzio, rumore, trova la propria esatta collocazione, in lavori perfettamente compiuti, in cui ogni frammento riacquista senso.
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Un lavoro (anzi: un mestiere) che Zanni ha espresso in questi anni soprattutto come artista sonoro, con i suoi lavori di field recording (firmandosi Punck), e parallelamente anche come fotografo. A cambiare è solo il medium, resta lo stesso umore, l’osservazione costante che diventa ossessione, la spinta a salvare qualcosa.
Adriano Zanni torna oggi con un nuovo disco, un sette pollici che si chiama Falling Apart, dopo nove anni di silenzio. Due sole tracce, White side e Black side, in grado di condensare in modo splendido elettronica minimal, techno ambient ispirata agli Autechre, field recording, passione cinefila (le citazioni da Ghost Dog, storia di un samurai urbano, che ci ricorda che la “fine è importante in tutte le cose”). È il primo disco presentato firmandosi semplicemente con nome e cognome e lo pubblica Boring Machines, etichetta con cui era uscito anche l’ultimo album di Punck, Piallassa del 2008. Il ritorno alla musica è stato aiutato tantissimo proprio dal rapporto profondo nato in questi anni tra Zanni e Onga di Boring Machines, se è vero che il primo concerto dopo tanto tempo Adriano lo ha fatto proprio in occasione della festa per il decennale dell’etichetta. E, se in effetti la produzione musicale è rimasta in stand-by per un periodo lungo, ha preso il sopravvento il lavoro come fotografo, con la pubblicazione di due libri di immagini, uno dei quali, Red Desert Chronicles – Postcards from Ravenna pubblicato (in modo quanto mai inconsueto per un’etichetta discografica) proprio da Boring Machines. C’è già anche un nuovo album in cantiere, che uscirà entro qualche mese per la label veneta.
Il disco Piallassa, così come Red Desert Chronicles, mostrano il modo personalissimo in cui un artista come Zanni decide di affrontare un’ossessione, con il massimo coinvolgimento, dato dalla consapevolezza di stare documentando un frammento della propria stessa vita.
Questi lavori nascono infatti da un’immersione totale nelle atmosfere del film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, ambientato nelle location futuristiche del petrolchimico di Ravenna, al tempo del suo più intenso fulgore. Antonioni mette in luce l’alienazione data dal lavoro, dalla fabbrica, dal progresso che porta inquinamento e stravolge un ambiente. Ma nel film non c’è una posizione critica, non c’è denuncia. Quello che il regista ferrarese incontra è piuttosto una bellezza inaspettata, il fascino di un complesso industriale mai considerato prima come un oggetto degno di attenzione estetica.
Zanni, nato a Ravenna nel 1964, esattamente nell’anno di uscita del film, riconosce ne Il deserto rosso una tappa simbolica della propria autobiografia, della propria storia, che è sempre anche una storia collettiva, la storia di un paesaggio, la storia dei miti su cui una società si fonda e che insegue. Zanni è quindi tornato su quei luoghi (e ci torna tuttora, quasi ogni giorno) a camminare con pazienza, con macchina fotografica e apparecchiature per registrare. Piallassa (la palude in dialetto ravennate) è la rielaborazione sonora di questi luoghi, dei rumori ma soprattutto dei silenzi, è la memoria di un film che ha mostrato i limiti di un modello ormai quasi scomparso (e con esso molte categorie “perdute”, le fabbriche, gli operai, i tempi del lavoro regolato dagli impianti), dal punto di vista di chi ha vissuto questi cambiamenti anche come vicende della propria vita privata.
E il libro Red Desert Chronichles affronta le stesse questioni con il mezzo delle immagini, con i potenti bianco e nero, con il vagare nei luoghi di un’apparente desolazione. Nella ricerca continua in questi panorami dell’abbandono, si incontrano sempre le tracce della presenza umana, di civiltà passate. Anche la civiltà industriale, almeno da questi parti, ormai è tramontata, non esiste più. Tutto finisce, anche i sogni e le visioni più potenti. E allora non stiamo più parlando dei tempi dell’uomo. Quelli che Zanni documenta sono i tempi di un mondo in cui anche la presenza umana non è che un passaggio. Il suo sguardo arriva sempre dopo, descrive una fine. Senza dramma.
In questi anni Adriano Zanni si è occupato in modi diversi di queste tematiche, con un altro libro di foto (Cosa resta – Racconti d’osservazione, con interventi di vecchi amici come Davide Reviati e Elettra Stamboulis) che raccoglie i suoi vari materiali dispersi su diversi blog (ne esiste uno bellissimo, dedicato agli alberi solitari), con brevi video, con una decina di dischi a partire da Mu del 2002. Materiali che hanno dato voce a eventi e richiami a diverse personalità, che appartengono a una cosmogonia privata, come Rimbaud, Jodorowski, la telefonata che annuncia l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, il film Solaris di Tarkovskij.
Quella che segue è una lunga chiacchierata con Adriano Zanni, in cui parliamo dei molti aspetti del suo lavoro.
Noisey: Cominciamo dalla fine, quindi dal tuo singolo Falling Apart , il ritorno alla musica dopo tanti anni di silenzio. So poi che sei tornato a suonare live in modo “ufficiale” per il decennale della Boring Machines. Perché tanti anni di silenzio discografico? E come mai per tutto questo tempo hai trovato che l’espressione migliore di te fosse nel lavoro fotografico?
Adriano Zanni: Sono tornato a suonare dal vivo in occasione dell’Ongapalooza, il decennale di Boring Machines, perché gli eventi vanno celebrati. Dieci anni di sopravvivenza per un’etichetta discografica come quella di Onga in un paese come il nostro rappresentano molto più di un evento, io lo definirei un miracolo. Il miracle worker Onga andava quindi festeggiato e omaggiato come si conviene. Sul mio silenzio, il discorso non è semplicissimo: prevalentemente ha a che fare con il mio personale, con sensazioni interiori e con lo scorrere della vita in tutti i suoi aspetti e problemi annessi.
In parte è anche vero che non avevo completamente smesso di creare o registrare suoni, seppure per lo più i risultati non sono stati resi pubblici, fatta eccezione per piccoli haiku utili a sonorizzare i brevi filmati del mio progetto di video statici. Spesso erano l’estemporaneo frutto di solitarie sessioni psichedeliche notturne nel mio studio. Ma più in generale, per rispondere alla domanda, il mio approccio all’osservazione sia fotografica che sonora è praticamente lo stesso. Quando fotografo o quando compongo musica (o suoni) faccio sempre la stessa cosa, cambiano solo gli strumenti di espressione, ma la mia ricerca non cambia.
Mi racconti un po’ meglio come lavori in musica? Magari partendo da Falling Apart e dal nuovo disco, so che ci stai già lavorando. Che strumentazione usi? Che tipo di lavoro fai nella fase di registrazione e poi di rielaborazione dei suoni?
Falling Apart è una piccola scommessa, cimentarsi con il formato 45 giri, al di fuori della classica “forma canzone” e muovendosi in ambito di “sperimentazione e ricerca” (fra mille virgolette) rappresentava per me una sfida. Condensare idee e intenti con la limitazione dei 3-4 minuti al massimo che si hanno a disposizione per singolo lato è più difficile di quanto sembri, volevo poi che questo piccolo disco rappresentasse una sorta di ponte fra quanto fatto dai miei esordi ad oggi (dall’elettronica più dura e spigolosa degli inizi fino all’aspetto più visuale dei miei lavori recenti) e fra quanto sta per arrivare.
Non ho una metodologia classica e consolidata, così come una strumentazione tipo, in generale utilizzo un misto di aggeggi digitali e analogici (ultimamente sempre più analogici e sempre meno digitali) e per comodità utilizzo il computer per assemblare il tutto. Ogni lavoro, e ogni idea che sviluppo, ha una storia a sé e una sua differente genesi tecnica, compositiva, narrativa e realizzativa. I campioni vocali del disco provengono da Ghost Dog di Jarmusch che a sua volta rielaborava un vecchio testo giapponese, l’Hagakure che è stato molto importante per me molti anni fa.
Il disco nuovo invece l’ho già finito di registrare, le tracce sono nelle mani sapienti di Onga al quartier generale Boring Machines in attesa della realizzazione del master e di tutto ciò che serve per pubblicarlo appena pronto. Dovrebbe intitolarsi Disappearing ed è un lavoro parecchio diverso dalle due tracce di Falling Apart, sarà un LP in vinile. Così come ulteriormente diverso è un lavoro che uscirà prima dell’album, entro l’estate e che sarà pubblicato in cassetta da Bronson Recordings, si tratta della soundtrack ambient del progetto fotografico su alberi solitari che porto avanti da tempo.
Perché nell’ultimo disco usi nome e cognome e rinunci a Punck? Cosa rappresenta questa scelta, che significato dai all’uso di un nome diverso per una nuova tappa di uno stesso progetto?
Oggi sono in una nuova fase della mia vita, ha a che fare con rinascite, evoluzioni, con scadenze e tempi a disposizione, con lasciti e memorie da tramandare, eredità. È tutto ancora più personale di un tempo, sono io, in prima persona, Adriano Zanni.
Come hai cominciato a occuparti di field recording ? Come ci sei arrivato? C’è una ricerca teorica oppure semplicemente hai scoperto che il tuo modo di rapportarti al paesaggio era “suonarlo”? Oltretutto il tuo primo lavoro Mu è del 2002, dunque avevi quasi quarant’anni. Ti sei avvicinato tardi alla musica?
Ho iniziato molto prima a compiere i miei embrionali esperimenti sonori (tralasciando addirittura esperienze adolescenziali con band più o meno imbarazzanti negli anni Ottanta). Negli anni Novanta registravo rumorose prove su cassetta utilizzando il mio stereo e i dischi come una specie di campionatore ante litteram, tastiere Casio giocattolo e ammennicoli vari. Poi, nella seconda metà degli anni Novanta, arrivarono i pc, internet ed i primi software che consentivano a chi non aveva conoscenze e capacità strettamente musicali come me di poter dare forma completa ai propri incubi più segreti e addirittura masterizzarli su un CD.
Ci furono un sacco di cose assurde che registrai prima e parecchia roba diffusa via web sotto diverse fittizie ragioni sociali, ma nel 2002 circa fissai i miei primi progetti compiuti e più o meno coerenti. È appunto fra la fine degli anni ’90 e il 2000 che, complici ascolti di artisti e ed etichette per lo più straniere e da quel meraviglioso oggetto portatile che si chiamava MiniDisc che cominciai ad appassionarmi alle registrazioni ambientali, dapprima come pura ricerca e documentazione sonora e quasi immediatamente dopo come parte integrante dei miei progetti musicali.
E il tuo rapporto con la fotografia? Vedo una continuità enorme tra il tuo lavoro di musicista e quello di fotografo, però è chiaro che si tratta di due ambiti molto diversi e dunque anche autonomi l’uno dall’altro. Qui che tipo di percorso hai seguito, come ti sei avvicinato alle foto?
Come ho già detto prima io faccio sempre la stessa cosa. Cerco di raccontare piccole storie, frutto dell’osservazione del mio quotidiano e dei miei sogni. Tutto quello che faccio si intreccia inevitabilmente, sono come diversi lati della stessa medaglia. La fotografia e la pratica del field recording sono maledettamente simili, molto più di quanto ci si possa immaginare. Sono strumenti di interpretazione personale, di assimilazione e di narrazione. Così come scegliendo fra diversi obiettivi posso interpretare e contestualizzare diversamente un’immagine, lo stesso posso fare utilizzando diversi tipi di microfoni registrando il suono di un luogo. Passare da una pratica all’altra a mio avviso è del tutto naturale, mescolare le carte in tavola quasi un obbligo.
Sviluppando un po’ l’ultima domanda, vorrei chiederti un po’ della tua ricerca fotografica. Vorrei sapere un po’ di più della tua “ossessione”, della tua documentazione quasi giornaliera, e di un rapporto personalissimo con il paesaggio. Ci vedo sempre un senso di solitudine, di abbandono, ci vedo le rovine . La fine di un ciclo di vita, e dunque quello che resta è appunto un’immagine in bianco e nero, un lavoro dal forte minimalismo, dove c’è silenzio, il vuoto. Eppure tutto ciò dona una grande forza alle tue immagini, il tempo viene relativizzato, anche l’uomo stesso e le sue vicende spariscono quasi del tutto.
In effetti quella di documentare quasi giornalmente è una piccola ossessione. Scherzi a parte, collaborando tra l’altro con Ravenna e Dintorni che è un portale di informazione della mia città, da parecchi anni ho iniziato un lavoro di documentazione fotografica delle zone in cui vivo che si traduce nella pubblicazione quasi giornaliera di fotografie su un blog ospitato dal sito e ogni settimana sulle copie cartacee del giornale.
È interessante per me vedere come vengono percepiti i miei racconti, ad esempio da te che non vivi qui, ma anche dai miei concittadini che guardano le mie fotografie scattate nella loro città. Molto credo dipenda dal rapporto che si ha col territorio, si potrebbe sintetizzare il concetto dicendo che il luogo siamo noi. Oltre alla documentazione e all’osservazione delle cicatrici che il tempo ha inflitto al territorio, all’osservare “cosa resta”, trovo interessante focalizzare lo sguardo sulle azioni che stiamo compiendo oggi e che determineranno quello che resterà in futuro. Un po’ come osservare la catastrofe in diretta.
Non sono così sicuro che nelle fotografie ci sia sempre silenzio e vuoto, spesso contengono frastuono, urla di dolore e rumore di fondo quasi assordante, talvolta anche speranza. Come ad esempio non sono molto d’accordo quando, spesso, mi trovo di fronte a persone che mi fanno notare l’assenza dell’uomo nelle mie fotografie documentaristiche, penso invece le mie fotografie siano piene di presenza umana, quasi sempre lo sono, in quel contesto non serve fotografare direttamente gli uomini, sono fin troppo presenti con le loro azioni.
Il tuo lavoro su Il deserto rosso è molto significativo in questo senso. Un film ambientato in un tempo in cui l’industria sembrava il destino futuribile del Paese e invece a vedere tutto questo a distanza di qualche decennio si coglie la vacuità di un mondo finito come tanti altri, che ha lasciato rovine e un vuoto di obiettivi, direzioni, idee. Personalmente ci trovo un’assonanza emotiva enorme, essendo cresciuto in Veneto, nella terra dei capannoni industriali, non troppo distante da Marghera. Ma vorrei chiederti cosa ti ha portato a indagare così a fondo un mondo che, anche per motivi anagrafici e ovviamente autobiografici, hai voluto esplorare a fondo, tornandoci sempre.
Tutta questa parte del paese immersa nella pianura padana, a ridosso del mare è abbastanza uguale a se stessa, le affinità che cogli con Marghera sono oltremodo evidenti, aree lagunari e paludose, banchine portuali, skyline sovrastati dagli stabilimenti petrolchimici e il tutto a stretto ridosso di zone naturali bellissime.
Questa è la mia terra, sono nato qui, per vari motivi ho girato e abitato in vari altri posti, ma da parecchio sono ritornato stabilmente qui. Tutta la mia vita è scandita dal rapporto con questa terra e questi luoghi, raccontarla significa raccontare me stesso. Molti dei miei lavori sono di fatto autobiografici anche se non sempre premeditatamente, ma spesso finiscono comunque con l’esserlo. Forse è come se volessi raccontarmi standomene sempre un gradino indietro, senza apparire direttamente, con un certo grado di pudore e una pigrizia di fondo.
Ravenna c’è sempre, con la sua comunità (magari le persone con cui collabori e che hanno scritto i testi dei tuoi lavori), i suoi spazi, la sua identità di città oggi post-industriale. Riconoscibilissima eppure trasfigurata. Qual è il rapporto con la tua città?
È casa, famiglia, affetti, vita. Molto banalmente è il classico e poco originale rapporto di amore e odio. La vivo ai margini, stando al di fuori delle sue dinamiche ufficiali, sono un corpo estraneo, Ravenna include difficilmente.
La osservo e cerco di raccontarla per come la vedo, cerco solo di essere onesto con me stesso e con chi guarda. Osservo le cicatrici lasciate dal passato, ma non posso fingere di dimenticare il benessere e lo sviluppo che questi processi hanno portato al territorio pur con la consapevolezza che nulla è a costo zero e che mai lo sarà. Osservando l’oggi ci si rende conto che il grado di consapevolezza è aumentato rispetto al passato, ma paradossalmente con questo aumenta esponenzialmente il grado di responsabilità su come l’oggi lo stiamo realmente vivendo.
Ravenna non è per niente dissimile dalla media della provincia italiana, quella lontana dai grandi centri urbani. Io osservo cosa resta oggi dei tempi passati e mi interrogo su cosa stiamo decidendo di lasciare e tramandare. Ognuno giudichi con i propri occhi, a me non interessa esprimere giudizi.
Vorrei chiederti un po’ anche del tuo rapporto con Onga e Boring Machines, etichetta evidentemente perfetta per quello che proponi. Come vi siete conosciuti, com’è andata?
In Italia la cosiddetta scena sperimentale in fin dei conti era una roba circoscritta, ci si conosceva e frequentava un po’ tutti, con Onga avevamo parecchi amici e frequentazioni comuni. Boring Machines era agli inizi e aveva pubblicato le sue prime uscite, io avevo finito il lavoro cominciato anni prima dedicato al Deserto Rosso di Antonioni. Lo proposi ad Onga che ne rimase colpito. Quel lavoro divenne Piallassa (Red Desert Chronicles) e fu pubblicato in cd per l’etichetta. Poi approfondimmo la conoscenza personale in uno dei primi selvaggi e fantastici Tagofest, li ricordo come esperienze fantastiche e irripetibili.
Onga è persona curiosa e dalla mente aperta e propositiva, un vero vulcano inarrestabile di idee, la stima artistica ed umana che ci lega si è consolidata negli anni, ed è alla base di tutto. Tutto, per quanto mi riguarda, ruota attorno alle persone, dipende solo da quello, il resto sono dettagli. Boring Machines rappresenta una delle più incredibili e migliori storie dell’underground italiano, e il solo e unico merito di questa longevità e della incredibile qualità delle sue pubblicazioni è da attribuire a Onga.
Quando un paio d’anni fa gli proposi di dare un seguito a Piallassa sotto forma di lavoro fotografico, come evoluzione e prosecuzione del progetto iniziato anni prima, non esitò a lanciarsi entusiasticamente nell’avventura. Il resto è storia recente, il 7 pollici Falling Apart è uscito da poco e il nuovo album è in fase di preparazione. Ora meglio smettere di parlare bene di Onga, sono certo che quando leggerà queste righe mollerà una interminabile serie di bestemmie in veneto. God Bless Onga!
Il sito ufficiale di Adriano Zanni lo trovate qui, i suoi dischi qui.
Tutte le foto appartengono al progetto Red Desert Chronicles – Postcards from Ravenna.