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Tecnologia

Videogiochi indie e psichedelia accelerazionista

Un parallelo scoppiatissimo tra indie musicale e videoludico.

Marco Caizzi suona nei Rainbow Island, formazione psichedelica di base a Roma che “esplora isole sognanti e colorate che probabilmente esistono solo nelle loro teste stravolte”. A differenza della quasi totalità dei gruppi affiliati alla cosiddetta nuova scena occulta italiana, l’immaginario di riferimento dei Rainbow Island non evoca i saggi di Ernesto De Martino, né i riti e le superstizioni del Mediterraneo, né più banalmente gli effetti di qualche sostanza psicotropa: come rivela il nome (rubato a un arcade della serie Bubble Bobble) a ispirare il gruppo è il mondo, forse ancora più alterato, dei videogame.

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Caizzi stesso è tra le altre cose una delle anime di giocagiue.it, una specie di gonzo-blog tutto dedicato al pianeta videoludico che vi consiglio di leggere anche se di videogiochi non capite niente: è divertente, ci sono le recensioni in powerpoint, e perché capita pure di imbattersi in illuminanti e in concettosi microsaggi dal taglio politico-filosofico. Ci arriveremo.

Intanto però devo avvertirvi che io stesso di videogiochi non capisco niente. Sul serio, la mia conoscenza del fenomeno è limitata a qualche sporadica partitella ad Arkanoid durante gli anni dell’infanzia, e per tutta la mia vita ho clamorosamente dribblato una delle espressioni culturali che più ha segnato la mia generazione. Perché è successo? Boh.

MOTHERBOARD: Mi pare di capire che anche il mondo dei videogiochi, come quello musicale, sia diviso al suo interno in due fronti contrapposti, no? C’è un mainstream e c’è un indie, insomma… 
Marco Caizzi: Sì, specie negli ultimi anni la cosa si è parecchio accentuata. In realtà c’è sempre stato un underground differenziato dal mainstream, ma dalla fine degli anni Zero il fenomeno è esploso, si è creata una biforcazione estrema, quindi tu da una parte hai le cosiddette produzioni AAA che costano più di un film di Hollywood, dall’altra una scena indipendente con le sue teorie, i suoi ritrovi, le sue conferenze… È una situazione che mi piace paragonare al mondo della musica negli anni Ottanta, quando da un lato c’erano le grandi popstar iperprodotte tipo Michael Jackson e Madonna, dall’altro non so, i Black Flag.

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Il mainstream attualmente da chi è rappresentato? 
Be’ i titoli classici sono giochi di calcio tipo Pro Evolution Soccer, FIFA, quelli di guerra tipo Battlefield, Call of Duty… Sono diventati degli sport veri e propri, specie in modalità multiplayer, c’è gente che li vive in maniera estremamente agonistica, professionale, che è una cosa che per quanto mi riguarda proprio non concepisco.

E i Black Flag? Quali sono i videogiochi del panorama indie più famosi? 
Se restiamo all’anno scorso, due titoli che sono stati sulla bocca di tutti sono Gone Home (che è un gioco narrativo di esplorazione ambientato negli anni Novanta) e Papers, Please (un gioco assurdo sul controllo dei documenti in un fantomatico stato sovietico, per me un capolavoro).

I paladini, invece?  
La più grande star in assoluto degli indie game probabilmente è Notch aka Markus Persson, il creatore di Minecraft. Ecco, Minecraft (che è del 2009) è uno di quei giochi che hanno segnato un punto di svolta nel panorama indie, anche se per me il titolo più iconico è Fez, un altro gioco spartiacque. Te lo faccio vedere:

Come vedi il feeling è pixeloso e ti riporta subito ai videogiochi 2D dell’infanzia. Solo che in Fez tu puoi girare attorno alle strutture, vedere cosa si nasconde dietro il paesaggio. Ora: quante volte da bambini abbiamo desiderato conoscere cosa c’era al di là della piatta superficie di un videogame? Che segreti c’erano dietro? Ecco, il concept di Fez è esattamente la scoperta di quei segreti, di quei ricordi. In un certo senso è come se tu precipitassi dentro le memorie dei giochi che amavi, nella pace che questi paesaggi ti davano quando eri piccolo, un po’ come quando ascolti i Boards of Canada e spontaneamente ti torna alla mente il suono delle vecchie cassette a nastro.

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Vabè ma qui siamo in piena hauntology… 
Esatto! Fez è un videogame in tutto e per tutto hauntologico, proprio nella definizione che ne ha dato Simon Reynolds: il passato che ritorna sotto forma di fantasma, di spettro, di presenza che infesta il presente. Phil Fish, che ne è l’autore, ha cominciato a lavorarci nel 2007, quindi più o meno nello stesso periodo dei primi dischi Ghost Box. Però poi è uscito ufficialmente solo nel 2012.

È anche un videogioco molto poetico, a vederlo così. 
E invece pensa che Phil Fish è un mezzo pazzo, un egomaniaco odiato da tutti, puntiglioso, fastidiosissimo, che manda a fare in culo i collaboratori per assurde fisse personali… Un po’ come Greg Ginn nei Black Flag. Considera anche che quello videoludico è per sua natura un ambiente in cui pesano tantissimo twitter, facebook, insomma tutti sanno tutto di tutti e alla volte si arriva allo stalking puro. Prendi il caso di Flappy Bird…

Il videogioco quello impossibile?  
Sì, Flappy Bird è un videogame per cellulare dell’anno scorso sviluppato da un tipo vietnamita chiamato Dong Nguyen. Era talmente difficile che è diventato un caso, ne parlavano tutti, Nguyen ci è diventato ricco. Guarda qua:

Per farla breve, giocarci era talmente impossibile (e soprattutto il gioco era così scemo) che Nguyen si è beccato critiche e insulti da mezzo mondo, più che altro da gente invidiosa del suo successo. Alla fine ne è rimasto così stressato che ha deciso di ritirarlo dal mercato. Lui è un po’ come le Shaggs, capisci? Voleva semplicemente fare un giochetto per i fatti suoi e invece ha creato un mostro.  

Ma i tuoi programmatori preferiti quali sono?  
Uno che mi piace molto è Terry Cavanagh, un irlandese matto totale che fa dei giochi superastratti, con concept fortissimi, e dalla realizzazione schematica e ultrapsichedelica. Il suo Super Hexagon è un altro di quei giochi che hanno fama di essere difficilissimi, eccolo:

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Tu praticamente sei quel triangolino che deve spostarsi a destra e sinistra per evitare che lo spazio centrale collassi su di te. Per il momento sono riuscito a terminare il livello semplice, adesso sto provando con quelli successivi…

Ma cristosanto, è una roba assurda. Come fai a starci sopra più di dieci secondi? 
Eh, è una cosa un po’ malata, Super Hexagon in particolare è un incubo, te lo sogni la notte. Appartiene a una tipologia che io chiamo acidoni turboblasto, sono giochi che ti consumano, tipo se la sera hai intenzione di andare fuori a ballare e per sbaglio ti metti a giocare a uno di questi è la fine, non hai nemmeno bisogno delle droghe. Un altro gioco simile è  Race the Sun, te lo faccio vedere:

È di una nuova casa software chiamata Flippfly. Qui devi correre all’infinito in questo paesaggio generale che ogni giorno cambia…

Giochi come Race the Sun a che categoria appartengono?
Sono i cosiddetti endless runner, giochi cioè in cui tu potenzialmente puoi andare avanti all’infinito. Possono esistere sia in versione platform che racer, e il capostipite è stato Canabalt del 2009. Adesso ne esistono diversi, ce n’è un altro fatto da un italiano di nome Daniele Giardini e si chiama Goscurry, aspetta che te lo metto:

Vedi, tu sei quell’astronave e devi seguire il percorso che ti si crea davanti, è difficilissimo. È anche un classico gioco accelerazionista, come più o meno tutti gli endless runner.

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Aspetta, tu per “accelerazionista” intendi proprio la teoria secondo la quale per superare il capitalismo bisogna… accelerarne i caratteri e le tecnologie, giusto? Che legame c’è coi videogiochi? 
Guarda, su giocagiue.it Gabriele De Seta aka Dj Kimchi ha scritto un articolo a riguardo, si chiama Prolegomena ai platform accelerazionisti. Gabriele in particolare prende in esame tre giochi (Time Surfer, Punch Quest e il già citato Canabalt) nei quali “ciò che importa veramente è il saper fluire ininterrotti su un’unica piattaforma totalitaria e ben oliata, un monolivello eterno lubrificato da un capitale disperso in simulacri di valute ormai neanche troppo velati”. Sono giochi in cui tipicamente non c’è un traguardo, oppure – come dice Gabriele – “non ci si muove: si è mossi. La mobilità cosmetica dell’hardware è solo una scusa per imporre come dato di fatto la necessità di fluire, scorrere, precipitare da sinistra a destra”. In Time Surfer per dire (che è un gioco da cui coi Rainbow Island abbiamo preso tantissimo) l’unica valuta a disposizione è il tempo. Tu in teoria puoi andare avanti all’infinito perché i paesaggi si autogenerano da soli, senza un punto d’arrivo, sempre più veloci. Però, quando muori perché magari le cose si sono fatte veramente troppo veloci da seguire, se hai raccolto abbastanza punti puoi riavvolgere il tempo perché i punti che hai guadagnato simboleggiano appunto quello: il tempo, vale a dire il valore su cui si basa la società turbocapitalista contemporanea. Come metafora è pesantissima, e Time Surfer te la sbatte in faccia così, senza doppi sensi, capito?

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Interessante. Non so se sai che in tempi recenti le tematiche accelerazioniste sono servite ad alcuni critici per analizzare il lavoro di musicisti come James Ferraro, Oneohtrix Point Never, Fatima Al Qadiri, e fenomeni come la vaporwave e il neo eski inglese, tizi come Logos per capirci… 
Ma infatti ci sono un sacco di similitudini tra questi fenomeni, anche a livello di immaginario. Ci sono giochi e programatori che se vai sui loro siti ti pare di stare dentro DIS magazine, podcast che mandano omaggi ai videogame fatti da musicisti come Logos e tutto quel giro lì, insomma, è una cosa abbastanza dichiarata. Poi ci sono dei legami espliciti, tipo Oneohetrix Point Never ha prodotto sulla sua etichetta un disco di David Kanaga, che poi è la colonna sonora di questo videogioco qui:

Si chiama Dyad. Non è un endless runner perché comunque ci sono dei livelli e a un certo punto il gioco finisce, però è interessante perché all’inizio la sensazione è più o meno di relax, invece verso la fine è un delirio di bianchi continui e musica supernoise. Kanaga è molto importante, anche perché alla fine è uno dei pochi veri teorici dell’universo videoludico.

In che senso? 
Per esempio ha curato questo saggio che si chiama Structure Alchemy in New Fractal Playspaces, poi ha un blog dove cita trattati matematici, autori come Adam Harper (quello che ha inventato la vaporwave), John Cage, alchimisti rinascimentali… Vedi, in generale il mondo degli indie games garantisce una libertà assoluta, tu puoi fare quello che ti pare, sperimentare i linguaggi più estremi, inventarti i giochi più assurdi… però spesso non capisci quanto i programmatori sappiano quello che stanno facendo. Per dire, il tizio che ha inventato Super Hexagon magari pensava soltanto di aver fatto un gioco il più difficile possibile con un sacco di meccaniche astratte, senza aver realmente ragionato sulle implicazioni politiche e filosofiche che un gioco del genere può sollevare. Kanaga invece è molto esplicito nei riferimenti, nelle teorie che stanno dietro al suo lavoro. E poi è quello che ha curato la colonna sonora di Proteus, un gioco puramente esperenziale che all’apparenza è abbastanza il contrario dell’estetica accelerazionista, guarda qui:

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Vedi? Ogni nuovo gioco che lanci, Proteus crea un’isola generata casualmente, e tu la esplori.

…E poi? 
E poi basta, fine.

Ma come “fine”? Non succede niente? 
Allora, in realtà queste isole sono musicali, nel senso che ogni oggetto che incontri ha una sua musica e tu semplicemente esplorando il posto crei una colonna sonora. Però non è che in giochi del genere vinci o perdi, capisci? Giri, vedi cose strane… È la versione più pura ed estrema di una tipologia di videogame che può esistere solo in un contesto come quello indie, perché naturalmente da una cosa del genere non è che puoi aspettarti di diventare ricco. Ci sono altri giochi di esplorazione che una storia almeno ce l’hanno, però tu comunque non è che devi fare niente di particolare: navighi il livello, vedi gli oggetti, leggi le cose scritte, senti i suoni… Stai lì intrippato e sviaggi, ecco tutto.

Allora, in realtà queste isole sono musicali, nel senso che ogni oggetto che incontri ha una sua musica e tu semplicemente esplorando il posto crei una colonna sonora.

Ci sono dei precedenti a cose tipo Proteus? 
Uhm, in realtà c’è tutta una tradizione di videogiochi esplicitamente psichedelici che data a ben prima dell’esplosione indie. Un pioniere è stato Jeff Minter, che sta in giro dagli anni Ottanta e che adesso vive in campagna in mezzo ai lama. A livello di videogiochi narrativi, ci sono i vari Tim Shafer, i creatori di Monkey Island… Loro sono tutti game designer della vecchia scuola, uscivano su major ma continuano a essere enormemente rispettati dalla comunità indie.

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Un po’ come Iggy Pop. 
Sì, sono un po’ gli Iggy Pop e i Lou Reed della situazione.

E il David Bowie chi è? Cioè, un gioco come Proteus mi sembra anche abbastanza artistoide, magari è un filone anche quello… 
Assolutamente. Prendi questo, si chiama Naissancee:

È un altro gioco di esplorazione, ma stavolta è basato tutto su chiaroscuri e giochi di luce, ha un linguaggio grafico pazzesco… È senz’altro molto artistoide ma anche parecchio ansiogeno, quando ci giochi ti senti veramente perso. Pensa che tra i brani utilizzati per la colonna sonora c’è pure Pauline Oliveros, altro che Bowie.

Mi sembra bello. Un po’… asettico, forse. Di sicuro è inquietante. 
Ma vedi, anche coi Rainbow Island, il senso è proprio quello: più che scimmiottare la tipica colonna sonora da videogame, si tratta di replicare il tuo stato d’animo dopo che hai passato una giornata intera a fare giochi del genere, capisci?

E che stato d’animo è? 
Be’, diciamo che ti senti un po’ strano.

E quindi? 
E quindi… boh, e quindi alla fine fai cose scoppiate, no?